Consumo, dunque sono





Viviamo nella “società dei consumatori”, il cui valore supremo è il diritto/obbligo alla “ricerca della felicità” - una felicità istantanea e perpetua che non deriva tanto dalla soddisfazione dei desideri quanto dalla loro quantità e intensità.

Eppure, dice Bauman, rispetto ai nostri antenati noi non siamo più felici: più alienati semmai, isolati, spesso vessati, prosciugati da vite frenetiche e vuote, costretti a prendere parte a una competizione grottesca per la visibilità e lo status, in una società che vive per il consumo e trasforma tutto in merce. Ciononostante stiamo al gioco e non ci ribelliamo, né sentiamo alcun impulso a farlo.

Acuto, lucido, profetico, Zygmunt Bauman chiama ognuno di noi a ripensare al senso di impotenza che ci attanaglia.



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L’autore: Zygmunt Bauman è uno dei più noti e influenti pensatori al mondo. A lui si deve la folgorante definizione della “modernità liquida”, di cui è uno dei più acuti osservatori. Professore emerito di Sociologia nelle Università di Leeds e Varsavia.

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Opera pubblicata nel 2007

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Indice



- Introduzione

1. Consumismo e consumo

2. Una società di consumatori

3. La cultura consumistica

4. Vittime collaterali del consumismo

- Note

- Indice dei nomi e delle cose notevoli

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Introduzione.
Ovvero il segreto meglio custodito della società dei consumi



[…] non v’è peggior
spossessamento, peggior
privazione, forse, di quella
dei vinti nella lotta simbolica
per il riconoscimento,
per l’accesso a un essere sociale
socialmente riconosciuto,
cioè, in una parola, all’umanità.

Pierre Bordieu, “Mediazioni pascaliane” [1]

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Consideriamo tre esempi, scelti a caso, del rapido cambiamento delle abitudini della nostra società sempre più “cablata” o, meglio, sempre più wireless.

Caso 1
Il 2 marzo 2006 il “Guardian” ha annunciato che «in questi ultimi dodici mesi il social networking non è più una grande novità del futuro, ma è già ora LA grande novità» [2]. Nello stesso periodo le visite al sito web MySpace, che un anno prima era il leader indiscusso nel medium appena inventato del social networking, sono aumentate di sei volte, mentre il sito rivale, Spaces.MSN, ha visto crescere gli accessi di ben undici volte e le visite a Bebo.com si sono moltiplicate addirittura di 61 volte.

Davvero una crescita impressionante – anche se il sorprendente successo di Bebo, l’ultimo arrivato di Internet nel momento in cui si riferiscono questi dati, potrebbe ancora rivelarsi un fuoco di paglia: infatti, come avverte un esperto delle mode su internet, «fra un anno almeno quattro siti sui dieci oggi più visitati non ci saranno più». «Il lancio di un nuovo sito di social networking», spiega, è «come l’apertura di un nuovo locale nei quartieri alti»: attira un sacco di gente per il solo fatto di essere il più recente – nuovo di zecca, oppure rimodernato e riproposto da poco - «e ben presto si dovrà far da parte, sicuro come il fatto che dopo una sbornia ci si sente male», e perderà la sua forza di attrazione a favore di quello che verrà subito dopo, in un’incessante rincorsa a ciò che è “più fico”, all’ “ultimo grido”, ai posti dove “si deve far vedere chiunque sia qualcuno”.

Non appena prendono piede in una certa scuola o in un’altra area del mondo fisico o elettronico, i siti di social networking si diffondono ala stessa velocità di una «malattia altamente contagiosa». In un attimo smettono di essere una semplice opzione tra le tante per trasformarsi nell’indirizzo standard per una marea di ragazzi e ragazze. Evidentemente, gli inventori e i promotori del networking elettronico hanno toccato una corsa sensibile, o forse un nervo teso e scoperto che da tempo attendeva lo spirito giusto. Essi possono a buon diritto vantarsi di essere andati incontro a un bisogno reale, diffuso e urgente. Quale sarebbe? «Al centro del social networking c’è uno scambio di informazioni personali». Gli utenti sono ben lieti di «rivelare i più intimi particolari della propria vita personale», «inviare informazioni precise» e «condividere fotografie». Si stima che il 61 per cento degli adolescenti inglesi tra i tredici e i diciassette anni «abbia un proprio profilo personale in un sito di networking» che consente loro di «socializzare online» [3].

In Gran Bretagna, dove la diffusione di mezzi elettronici all’avanguardia è parecchi cyber-anni indietro rispetto all’Estremo Oriente, gli utenti possono ancora avere fiducia nel social networking, ritenendo che sia una manifestazione della loro libertà di scelta, e possono persino credere che sia un mezzo di ribellione e di autoaffermazione giovanile (supposizione resa tanto più credibile dagli attacchi di panico che il loro slancio di auto-esposizione – indotto dal web e rivolto verso il web – diffonde quotidianamente o quasi tra insegnanti e genitori ossessionati dalla sicurezza, e dalle nervose reazioni dei presidi che bandiscono Bebo e i suoi simili dai server delle scuole). Ma là dove, come nella Corea del Sud, la maggior parte della vita sociale avviene già attraverso la mediazione dell’elettronica o, meglio ancora, dove la vita sociale si è già trasformata in vita elettronica, in cyber-vita, e dove si manifesta perlopiù in compagnia di un computer, di un iPod o di un cellulare, e solo secondariamente in compagnia di altri esseri in carne e ossa, i giovani sanno chiaramente di non aver nemmeno l’ombra di una scelta: nel loro paese vivere la vita sociale a livello elettronico non è più una scelta, ma una necessità, un “prendere o lasciare”. La “morte sociale” attende i pochi che ancora non si sono collegati a Cyworld, il leader del cyber-mercato sudcoreano della cultura del “fai-vedere-e-racconta”.

Sarebbe tuttavia un grave errore vedere nella spinta mostrare in pubblico il proprio «io interiore» e nella propensione ad assecondarla le manifestazioni di un’unica spinta/dipendenza degli adolescenti, che per loro natura scalpitano per mettere piede nella «rete» (parola, questa, che sta rapidamente soppiantando il termine «società» sia nel discorso delle scienze sociali che nel linguaggio comune) e restarvi, pur non sapendo ancora bene come farlo nel modo migliore. La nuova tendenza alla confessione pubblica non si può spiegare (soltanto) con fattori «specificatamente legati all’età». Ecco come Eugène Enriquez ha sintetizzato qualche anno fa il messaggio sempre più chiaro proveniente da ogni settore del mondo liquido-moderno dei consumatori: «Se si considera che ciò che prima era invisibile – la parte che ognuno ha nella vita interiore, intima, di tutti – si chiede ora che venga esibito sul palcoscenico pubblico (sugli schermi televisivi, in primo luogo, ma anche sulla scena letteraria), si comprenderà che chi ha a cuore la propria invisibilità è condannato a essere rifiutato, emarginato o sospettato di aver commesso un crimine. All’ordine del giorno c’è a nudità fisica, sociale e psichica». [4]

Gli adolescenti muniti di confessionali elettronici portatili non sono che apprendisti che si addestrano e vengono addestrati all’arte di vivere in una società confessionale: una società che si distingue per aver cancellato la linea che separava il privato dal pubblico e trasformato in virtù e in obbligo l’esibizione pubblica del privato, spazzando via dalla comunicazione pubblica tutto ciò che non si possa ridurre a confidenza privata e chiunque rifiuti di confidarsi. Come ha ammesso in un’intervista al Guardian, nell’aprile 2006, Jim Gamble, capo di un’agenzia governativa di controllo, «in essa c’è tutto ciò che si vede nel cortile di una scuola: con l’unica differenza che in questo caso non ci sono insegnanti, poliziotti o moderatori che sorveglino ciò che sta accadendo».

Caso 2
Lo stesso 2 marzo 2006, in un’altra pagina del Guardian senza alcun legame con la precedente e curata da un altro redattore, il lettore ha appreso che «i sistemi informatici vengono usati per tenerti a bada meglio, in funzione del valore che hai per l’azienda che stai contattando» [5]. L’informatica consente di registrare il numero telefonico di provenienza delle chiamate, in modo da assegnare loro un valore da uno, che indica i clienti di primo livello, quelli cui si risponde appena chiamano e che vengono subito passati a un funzionario di vendita esperto, fino a tre, ossia quei clienti che finiscono in fondo alla fila e, quando finalmente ottengono una risposta, parlano con un venditore di basso livello (i “pesci piccoli”, come sono stati sommariamente etichettati nel gergo aziendale).

Anche nel caso 2, come nel precedente, è difficile addossare alla tecnologia la colpa di questa nuova prassi. Quel nuovo e sofisticato software viene in aiuto di manager che hanno già un bisogno disperato di classificare l’esercito crescente di chi telefona, e agevola prassi di separazione ed esclusione che già in precedenza si applicavano – sia pure con strumenti primitivi di tipo “fai da te”, casalinghi o artigianali, più dispendiosi in termini di tempo e chiaramente meno efficaci. Come ha sottolineato il portavoce di una delle aziende che vendono sistemi di questo tipo e ne assicurano la manutenzione, «la tecnologia in realtà si limita a intervenire su processi già in essere, rendendoli più efficienti»: ossia istantanei e automatici, risparmiando ai dipendenti dell’azienda il laborioso compito di collezionare e studiare i dati, formulare giudizi e prendere decisioni ogni volta che arriva una chiamata e infine assumersi la responsabilità delle relative conseguenze. Ciò che costoro, in mancanza dell’apposito congegno tecnico, dovrebbero valutare in prima persona, spremendosi le meningi e sprecando tempo prezioso pagato dall’azienda, è la potenziale redditività, dal punto di vista di quest’ultima, di chi sta chiamando: il contante o il credito di cui dispone e la voglia che ha di separarsene. «Le aziende hanno bisogno di scartare i clienti di minor valore», spiega un altro funzionario. In altri termini hanno bisogno di una sorta di “sorveglianza negativa”, l’opposto della sorveglianza nello stile del Grande Fratello orwelliano o del Panopticon, di un meccanismo cioè che funga da filtro con il compito primario di allontanare gli indesiderabili e trattenere che va bene: l’esito definitivo di un lavoro di pulizia ben fatto è l’assegnazione di nuovi ruoli. Le aziende hanno bisogno di una modalità per alimentare la banca dati con il genere di informazioni utili innanzi tutto e specialmente a escludere i “consumatori difettosi”, le erbacce del giardino dei consumi, gente a corto di denaro, di carte di credito e/o di entusiasmo nello shopping, e comunque immuni alle lusinghe del marketing. Il risultato di questa selezione negativa è che soltanto ai giocatori brillanti e appassionati sarà consentito di continuare a giocare al gioco consumistico.

Caso 3
Pochi giorni dopo un altro giornalista del Guardian, in un’altra sezione del quotidiano, ha scritto che Charles Clarke, dal 2004 al 2006 ministro degli Interni britannico, ha annunciato l’introduzione di un nuovo sistema d’immigrazione “a punti”, alfine di «attrarre i più brillanti e migliori» [6] – e, naturalmente, di respingere e tenere alla larga tutti gli altri, sebbene questo corollario della dichiarazione fosse difficilmente individuabile nella versione in forma di comunicato stampa, semplicemente omessa o confinata nelle postille. Chi si intende attrarre con il nuovo sistema? Chi porta con sé più denaro da investire e ha maggiori possibilità di guadagno. Il sistema «ci consentirà di ottenere», ha dichiarato il ministro, «che venga qui solo chi ha le capacità di cui il Regno Unito ha bisogno, e impedirà a chi ne è privo di fare domanda». Come funzionerà questo sistema? Per fare un esempio, Kay, una giovane neozelandese con tanto di master che svolge un lavoro mal pagato, non raggiungerebbe i 75 punti che le darebbero diritto a fare domanda d’immigrazione. Dovrebbe in primo luogo ottenere da un’azienda britannica un’offerta di lavoro, che varrebbe a suo favore come prova del fatto che le sue capacità sono quelle «di cui il Regno Unito a bisogno».

Sicuramente Charles Clarke non si sarà sentito originale per il fatto di applicare alla selezione di esseri umani la regola di mercato che dice di scegliere il meglio tra i prodotti in vendita nei negozi. Come sottolineava Nicolas Sarkozy all’epoca in cui era l’omologo france di Clarke e un serio pretendente al ruolo di capo dello Stato, «l’immigrazione selettiva viene praticata da quasi tutte le democrazie del mondo»; Sarkozy perciò auspicava per la Francia la possibilità di selezionare gli immigrati in base alle proprie necessità [7].

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I tre casi di cui sopra sono stati presentati in sezioni distinte del quotidiano, dedicate ad ambiti di vita distinti, ognuno basato su un proprio corpus di regole sotto la supervisione e la gestione di agenzie indipendenti l’una dall’altra. Questi casi sono apparentemente molto dissimili e riguardano persone di provenienza, età e interessi assai diversi tra loro – persone che affrontano sfide molto specifiche e lottano per risolvere problemi specifici. Esiste una qualche regione per accostare tra loro questi casi raggruppandoli in un’unica categoria? La risposta è sì: una ragione per collegarli esiste, e si basa su ottimi argomenti.

Le ragazze e i ragazzi che con avidità ed entusiasmo sfoggiano le proprie caratteristiche sperando di attirare l’attenzione e magari anche di ottenere il riconoscimento e l’approvazione necessari per continuare a partecipare al gioco della socializzazione; i clienti potenziali che solo accrescendo la propria spesa e i propri limiti di credito possono conquistarsi un servizio migliore; gli aspiranti immigrati che si danno da fare a raccogliere e presentare note di merito per dimostrare che i loro servizi sono richiesti, sperando che in tal modo la loro domanda venga presa in considerazione: tutte e tre queste categorie di persone, apparentemente così diverse, sono lusingate, incitate o costrette a pubblicizzare una MERCE che sia attraente e desiderabile, a farlo con tutte le forze e a usare tutti i mezzi di cui dispongono per accrescere il valore di mercato di ciò che vendono. E le merci che sono sollecitati a mettere sul mercato, pubblicizzare e vendere sono SE STESSI.

Essi sono, al tempo stesso, PROMOTORI DI UN PRODOTTO e il PRODOTTO CHE PROMUOVONO. Sono contemporaneamente la mercanzia e il suo venditore, l’articolo e il commesso viaggiatore che lo propone (e in tale esperienza si riconoscerà anche qualsiasi accademico che aspiri a una cattedra o a dei fondi di ricerca). Tutti costoro, quale che sia la fascia in cui vengono inseriti dai rilevatori di statistiche, abitano nello stesso spazio sociale, noto come MERCATO. Indipendentemente dalla voce sotto cui le loro preoccupazioni vengono classificate da archivisti ministeriali o da autori di inchieste giornalistiche, l’attività in cui sono impegnati (per scelta, per necessità o, più spesso, per entrambe) è il MARKETING. Il test che devono superare per accedere al premo sociale cui aspirano richiede che SI RIDEFINISCANO COME MERCI, vale a dire come prodotti capaci di catturare l’attenzione e di attrarre DOMANDA e CLIENTI.

Siegfried Kracauer ha dato prova di una straordinaria capacità di scorgere i lineamenti a malapena visibili, o ancora indistinti, di tendenze precorritrici del futuro, confusi in una massa informe di mode e manie passeggere. Già verso la fine degli anni Venti del secolo appena trascorso, quando l’imminente trasformazione della società dei produttori in una società di consumatori era ancora allo stadio embrionale o tuttalpiù appena agli inizi, e dunque non era stata ancora colta da osservatori meno sensibili o lungimiranti, Kracauer notava:
«La corsa ai numerosi istituti di bellezza è anche determinata da una preoccupazione per la propria esistenza, l’uso dei cosmetici non è sempre un lusso. Per la paura di essere dichiarati fuori uso come merce invecchiata le signore e i signori si tingono i capelli, e i quarantenni praticano lo sport per mantenersi snelli. COME DEVO FARE PER DIVENTARE BELLO? È il titolo di un opuscolo che è stato recentemente lanciato, e che secondo la pubblicità apparsa sui giornali insegna i mezzi “con cui apparire giovani e belli subito e a lungo”» [8].

Le nuove abitudini rilevate da Kracauer negli anni Venti come curiosa caratteristica berlinese si sono propagate come un incendio nel bosco fino a diventare una ROUTINE quotidiana (o almeno un sogno) in tutto il pianeta. Quasi ottant’anni dopo Kracauer, Germaine Greer osservava che «persino negli angoli più remoti della Cina nordoccidentale le donne hanno messo da parte l’abbigliamento tradizionale e indossano reggiseni imbottiti e gonne seducenti, si arricciano e si tingono i capelli e mettono da parte dei soldi per comprare prodotti di bellezza. La chiamano liberalizzazione» [9].

Mezzo secolo dopo le osservazioni di Siegfried Kracauer sulle ultime passioni dei berlinesi, un altro importante pensatore tedesco, Jurgen Habermas, negli anni in cui la società dei produttori si avvicinava al tramonto (dunque avvalendosi dell’indubbio vantaggio del senno di poi), presentava la «mercificazione del capitale e del lavoro» come la funzione principale, anzi la stessa ragion d’essere, dello Stato capitalistico. Egli sottolineava che, se la riproduzione della società capitalistica avviene attraverso l’incontro, riprodotto all’infinito, tra il capitale (nel ruolo di acquirente) e il lavoro (nel ruolo di merce), lo Stato capitalistico ha il compito di assicurare che tale incontro avvenga regolarmente e raggiunga il suo scopo, cioè le operazioni di compravendita.

Affinché questo risultato si produca ogni volta, o almeno in un numero accettabile di casi, il capitale deve essere in grado di pagare il prezzo corrente della merce, deve avere la volontà di pagarlo e deve essere incentivato ad agire in tal senso da una polizza assicurativa avallata dallo Stato contro i rischi derivanti dalla nota imprevedibilità dei mercati. Il lavoro, d’altra parte, deve presentarsi al meglio per risultare attraente agli occhi dei potenziali acquirenti, incontrare la loro approvazione e far sì che essi comprino la merce esposta. Non solo incoraggiare i capitalisti a spendere denaro per acquistare lavoro, ma anche riuscire a rendere il lavoro una merce attraente per i capitalisti sarebbe stato molto difficile (per non dire impossibile) senza la collaborazione attiva dello Stato. Chi era in cerca di lavoro doveva essere adeguatamente nutrito e in salute, abituato alla disciplina e in possesso delle abilità richieste dalle procedure del mestiere che intendeva svolgere.

Oggi la maggioranza degli Stati-nazione che cercano di adempiere al compito della mercificazione langue per un deficit di potere e risorse: deficit dovuto al fatto che il capitale autoctono è esposto a una concorrenza sempre più accanita a causa della globalizzazione dei mercati del capitale, del lavoro e dei beni e della diffusione planetaria delle forme moderne di produzione e scambio, nonché ai costi crescenti del welfare state, strumento importantissimo, e forse indispensabile, della mercificazione del lavoro.

Ciò che è accaduto è che, nel passaggio da una società di produttori a una società di consumatori, i compiti previsti dalla mercificazione e rimercificazione di capitale e lavoro hanno attraversato dei processi simultanei di DEREGOLAMENTAZIONE e PRIVATIZZAZIONE costanti, totali e apparentemente irreversibili, anche se tuttora in corso.

La velocità e il ritmo sempre più rapido di questi processi sono stati, e sono, tutt’altro che uniformi. Nella maggior parte dei Paesi (ma non in tutti), essi appaiono finora molto più radicali per quanto riguarda il lavoro che non il capitale; le nuove iniziative di quest’ultimo, infatti, vengono quasi sempre innescate, su scale crescente anziché decrescente, dalla classe dei governi. Inoltre, la capacità e la volontà del capitale di acquistare lavoro continuano ad essere regolarmente sostenute dallo Stato, che fa di tutto per tenere a freno il “costo del lavoro” smantellando i meccanismi di negoziazione collettiva e di tutela del posto di lavoro e imponendo forti restrizioni legali alle azioni difensive dei sindacati – sebbene spesso lo Stato stesso soccorra la solvibilità delle aziende tassando le importazioni, offrendo sgravi fiscali alle esportazioni e sussidiando i dividendi degli azionisti attraverso commesse governative pagate con fondi pubblici. Per puntellare, ad esempio, la promessa, disattesa dalla Casa Bianca, di tenere basso il prezzo al dettaglio della benzina senza mettere a repentaglio i profitti degli azionisti, l’amministrazione Bush nel febbraio del 2006 ha confermato che il governo avrebbe sospeso per cinque anni la riscossione di “royalties” per un valore totale di sette miliardi di dollari (somma che secondo qualche stima sarebbe quattro volte più elevata), al fine di incoraggiare l’industria petrolifera americana a cercare petrolio nelle acque di proprietà pubblica del Golfo del Messico («E’ come dare sussidi a un pesce affinché nuoti», ha commentato un membro della Camera. «E’ inaccettabile che queste aziende vengano sostenute dal governo quando i prezzi del petrolio e del gas sono così alti») [10].

Il compito di RIMERCIFICARE IL LAVORO è stato finora il più condizionato dai processi paralleli della deregolamentazione e della privatizzazione. Tale compito viene sostanzialmente sottratto alla responsabilità diretta del governo, “subappaltando” in tutto o in parte ad aziende private il quadro istituzionale in cui avviene la fornitura di servizi che svolgono un ruolo cruciale nell’assicurare la vendibilità del lavoro (come l’istruzione e la casa, l’assistenza agli anziani e un numero crescente di servizi sanitari). Così il compito generale di favorire la vendibilità del lavoro nella sua globalità viene affidato alla cura dei singoli (ad esempio accollando il finanziamento della formazione e dell’acquisizione di competenze professionali alle risorse private e individuali); la politica stimola, e la pubblicità blandisce, gli individui affinché ricorrano all’ingegno e all’inventiva personali per restare sul mercato, in modo da accrescere il proprio valore commerciale o evitare che diminuisca, e da guadagnarsi l’apprezzamento dei potenziali clienti.

Arlie Russell Hochschild ha passato diversi anni a osservare da vicino (quasi dall’interno) i cambiamenti dell’occupazione nei settori più avanzati dell’economia americana. Ha così potuto cogliere e documentare tendenze molto simili a quelle riscontrate e descritte con precisione per l’Europa da Luc Boltanski ed Eve Chiapello, che le hanno definite il “nuovo spirito del capitalismo”. La principale scoperta delle loro ricerche è stata la spiccata preferenza da parte degli imprenditori per lavoratori privi di vincoli, autonomi, flessibili, “generalisti” e, in ultima analisi, “usa e getta” (più simili a factotum, anziché preparati e specializzati in modo mirato). Come scrive Hochschild:

nella Silicon Valley, cuore della rivoluzione informatica in America, nel 1997 iniziò silenziosamente a diffondersi un nuovo termine: ZERO DRAG – resistenza zero. Questa espressione, che originariamente indicava il movimento privo di attrito di un oggetto come un pattino o una bicicletta, è stata poi usata a proposito dei lavoratori che cambiano facilmente attività, indipendentemente dagli incentivi ecologici. Più recentemente tale termine ha assunto il significato di “svincolato”, o “senza obblighi”. Un’azienda dot.com potrebbe elogiare un lavoratore dicendo che è a “resistenza zero”, per far capire che egli è disponibile ad assumere compiti fuori dell’ordinario, a rispondere a richieste urgenti o a trasferirsi in qualsiasi momento. Secondo Po Bronson, un ricercatore che ha studiato la cultura della Silicon Valley, «la resistenza zero è il massimo. Nei colloqui di assunzione per qualche tempo accadeva che si chiedesse scherzosamente a un candidato quale fosse il suo coefficiente di resistenza” [11].

Abitare troppo distanti dalla Silicon Valley e/o avere il peso di una moglie e/o di un figlio alza il “coefficiente di resistenza” e riduce le possibilità di lavorare. Le aziende desiderano che i loro futuri dipendenti sappiano, più che camminare, nuotare, o meglio ancora fare surf. Il lavoratore ideale non ha vincoli, impegni o legami affettivi ed evita di crearsene; è pronto ad assolvere qualsiasi nuovo compito ed è preparato a riadattarsi e a rifocalizzare le proprie inclinazioni, accettando nuove priorità e abbandonando immediatamente quelle fino allora valide; è abituato a un ambiente in cui “fare l’abitudine” – a un lavoro, a una capacità o a un modo di fare le cose – è malvisto e ritenuto imprudente di per sé; e, cosa non di poco conto, nel momento in cui non serve più deve uscire dall’azienda senza lamentarsi né aprire contenziosi; infine, considera le prospettive di lungo termine, i percorsi predeterminati di carriera e ogni forma di stabilità come qualcosa di più sgradevole e temibile che non la loro assenza.

L’arte della “rimercificazione” del lavoro, nella sua forma più recente e aggiornata, è estremamente difficile da apprendere per la burocrazia di governo, impacciata, notoriamente pigra, tradizionalista, resistente al cambiamento e affezionata alle procedure; e questa stessa burocrazia è assai poco adatta a coltivarla, insegnarla e inculcarla. Pare più opportuno affidare questo compito ai mercati, che notoriamente prosperano proprio grazie a tale arte, e sono molto abili nell’educarvi i propri clienti: e così puntualmente sta avvenendo. Il trasferimento al mercato del compito di rimercificare il lavoro è il significato più profondo della conversione dello Stato al culto della deregolamentazione e della privatizzazione.

Il mercato del lavoro è soltanto uno dei tanti mercati di beni di consumo in cui è inscritta la vita individuale, e il prezzo del lavoro è soltanto uno dei tanti prezzi di mercato da seguire, osservare e calcolare nell’ambito delle tante attività dell’esistenza umana. Ma in tutti i mercati valgono le stesse regole vincolanti.
In primo luogo, la destinazione ultima di tutte le merci in vendita è il consumo da parte di chi le acquista. In secondo luogo, gli acquirenti desiderano procurarsi merci da consumare se, e soltanto se, il loro consumo promette di soddisfarne i desideri. In terzo luogo, il prezzo che il cliente potenziale in cerca di soddisfazione è disposto a pagare per le merci offerte dipende dalla credibilità della promessa e dall’intensità dei desideri.
L’incontro tra i consumatori potenziali e i potenziali oggetti di consumo tende a diventare il principale costituente della peculiare rete di relazioni interumane sinteticamente indicata come “società dei consumi”. O, piuttosto, il contesto esistenziale che ha finito per diventare noto come “società dei consumi” si distingue per il fatto che ridefinisce le relazioni interumane a modello e somiglianza delle relazioni tra i consumatori e gli oggetti di consumo. Questo fatto ragguardevole è il risultato dell’annessione e della colonizzazione, da parte dei mercati dei consumi, dello spazio tra gli individui: spazio in cui si intrecciano i legami tra gli esseri umani e si costruiscono gli steccati che li separano.
Con una grossolana e perversione dell’essenza autentica della rivoluzione consumistica, la società dei consumi è perlopiù rappresentata come incentrata sulle relazioni tra il consumatore, saldamente collocato nello status del soggetto cartesiano, e la merce, nel ruolo dell’oggetto di Cartesio, anche se in tali rappresentazioni il centro di gravità dell’incontro soggetto-oggetto si trasferisce in modo decisivo dall’area dell’osservazione alla sfera dell’attività. In questa il soggetto cartesiano pensante (che percepisce, esamina, confronta, stima, valuta nella sua rilevanza, rende intelligibile) si trova di fronte (proprio come avviene durante l’osservazione) a una molteplicità di oggetti nello spazio (che egli percepisce, esamina, confronta, stima, valuta nella loro rilevanza, comprende); ma ora deve anche affrontare il compito di maneggiarli: spostarli, farli propri, usarli scartarli.
In effetti, quando si descrive l’attività del consumatore, il grado di sovranità del soggetto è continuamente messo in questione e in dubbio. Come ha giustamente sottolineato Don Slater, l’immagine dei consumatori disegnata nelle descrizioni colte della vita di consumo oscilla tra i due estremi delle vittime e degli eroi della modernità. Da un lato, i consumatori sono rappresentati come soggetti agenti tutt’altro che sovrani, illusi da promesse fraudolente, adescati, sedotti, sospinti e manovrati da pressioni palesi o surrettizie, ma comunque estranee. Dall’altro, al consumatore si attribuiscono tutte le virtù per cui la modernità ama essere elogiata – razionalità, forte senso di autonomia, capacità di autodefinirsi e autoaffermarsi in modo anche rude. Simili ritratti rappresentano un vettore “dell’eroismo della volontà e dell’intelligenza, che saprebbero trasformare la natura e la società piegandole entrambe al dominio dei desideri individuali scelti liberamente e privatamente” [12].

Il punto, tuttavia, è che in entrambe le versioni i consumatori – sia che vengano presentati come vittime delle esagerazioni truffaldine della pubblicità, sia che appaiono come gli eroici professionisti della spinta autopropulsiva alla padronanza – vengono avulsi e messi al di fuori dell’universo dei potenziali oggetti di consumo. Nella maggior parte delle descrizioni il mondo formato e sostenuto dalla società dei consumi rimane nettamente diviso tra le cose da scegliere e coloro che le scelgono; tra le merci e i loro consumatori; tra cose da consumare e persone che le consumano. In realtà la società dei consumi è ciò che è proprio perché non è fatta in quel modo: ciò che la distingue da altri tipi di società è proprio il fatto che le divisioni sopra indicate si confondono e, in ultima analisi, si annullano.

Nella società dei consumatori nessuno può diventare soggetto senza prima trasformarsi in merce, e nessuno può tenere al sicuro la propria soggettività senza riportare in vita, risuscitare e reintegrare costantemente le capacità che vengono attribuite e richieste a una merce vendibile. La “soggettività” del “soggetto”, e gran parte di ciò che tale soggettività consente al soggetto di ottenere, è imperniata su uno sforzo senza fine del soggetto stesso per essere e restare una merce vendibile. La caratteristica più spiccata della società dei consumi, per quanto attentamente custodita e totalmente occultata, è la trasformazione dei consumatori in merce; o, meglio ancora, la loro dissoluzione nel mare delle merci in cui – per citare quella che è forse la più citata delle affermazioni di Georg Simmel tanto adatte a essere citate – “il significato e il valore delle differenze, e con ciò i significato delle cose stesse, sono avvertiti come irrilevanti”, appaiono “di un colore uniforme, grigio”, in cui “le cose galleggiano con lo stesso peso specifico nell’inarrestabile corrente del denaro” [13].
Il compito dei consumatori, pertanto, e la principale motivazione che li spinge a impegnarsi in una incessante attività di consumo, è quello di elevarsi al di sopra di quella grigia e piatta invisibilità e inconsistenza, facendo in modo da risaltare nella massa di oggetti indistinguibili che “galleggiano con lo stesso peso specifico”, e catturando così lo sguardo dei consumatori (più esigenti!).

Il primo album registrato da Corinne Bailey Rae, cantante nata a Leeds nel 1979 e ingaggiata da un talent scout della Emi nel 2006, in soli quattro mesi ha conquistato il disco di platino. Evento sorprendente, che accade una volta su un milione, o su centinaia di milioni di volte, quello di assurgere a star dopo essere apparsa brevemente in una band indipendente e aver lavorato come guardarobiera in un locale id musica soul: probabilità non superiore, e forse persino inferiore, a quella di vincere la lotteria (ma si noti che ogni settimana si spendono milioni per acquistarne i biglietti). “La mia mamma insegna in una scuola elementare”, ha dichiarato Corinne in una intervista, “e quando chiede a un bambino cosa vuol fare da grande, le risponde: ‘Diventare famoso’. Allora lei chiede perché, e lui risponde ‘Boh, voglio solo diventare famoso’” [14].
In quei sogni “essere famosi” non significa nulla di più (ma anche nulla di meno!) che essere sbandierati sulla prima pagina di migliaia di riviste e su milioni di schermi, essere visti e notati, essere oggetto di conversazione e dunque, presumibilmente, di desiderio da parte di tante persone… “La vita non è fatta solo di media”, osserva Germaine Greer, “ma quasi […]. Nell’età dell’informazione essere invisibili equivale a morire”. La costante, inarrestabile rimercificazione è per la merce, e dunque per il consumatore, ciò che il metabolismo è per gli organismi viventi.
Sotto i sogni di fama si affaccia un altro sogno: il sogno di non dissolversi e scomparire nella massa grigia delle merci, senza volto né sapore, il sogno di trasformarsi in una merce meritevole di attenzione, notata e ardentemente desiderata, in una merce di cui si parli, che spicchi nella massa delle altre merci, che non possa essere ignorata, derisa, rifiutata. In una società di consumatori trasformarsi in una merce desiderabile e desiderata è la materia di cui sono fatti i sogni, e le fiabe.

Scrivendo dall’interno della nascente società dei produttori, Karl Marx attribuiva agli economisti del suo tempo l’errore che chiamava “feticismo della merce”: la tendenza, cioè, a ignorare o nascondere l’interazione tra gli uomini, dettata da volontà o necessità, dietro il movimento delle merci; come se le merci, da sole, stabilissero relazioni reciproche senza la mediazione umana. La scoperta dell’acquisto e della vendita di forza-lavoro in quanto essenza delle “relazioni industriali” nascoste dietro il fenomeno della “circolazione delle merci”, sosteneva Marx, era tanto scioccante quanto rivoluzionaria: un primo passo verso la riaffermazione dell’essenza umana nella realtà sempre più disumanizzata dello sfruttamento capitalistico.
Qualche tempo dopo Karl Polanyi avrebbe aperto un altro squarcio nel velo dell’illusione creata dal feticismo delle merci affermando che sì, la capacità lavorativa veniva venduta e comperata come se fosse una merce simile a tute le altre, ma che, in realtà, no, non erapoteva essere una marce “come” tutte le altre. L’impressione che il lavoro fosse una merce pura e semplice poteva essere soltanto una parodia grossolana del vero stato delle cose, in quanto la “capacità lavorativa” non può essere comperata e venduta separatamente dai suoi portatori. Chi l’acquista non può “portarsela a casa”, a differenza delle altre merci. Ciò che ha acquistato non diventa sua proprietà esclusiva e incondizionata, ed egli non è libero di uti et abuti, di usarne e abusarne a piacimento come quando acquista una qualsiasi altra cosa. La transazione in apparenza “puramente commerciale” (si ricordi la rimostranza di Thomas Carlyle, all’inizio dell’Ottocento, per il fatto che le relazioni umane, così ricche di sfaccettature, fossero ridotte a un mero “nesso monetario”) stringe inevitabilmente i portatori e gli acquirenti di forza-lavoro in un vincolo reciproco e in una stretta inter-dipendenza. Da ogni transazione commerciale che avviene sul mercato del lavoro nasce una relazione umana; ogni contratto di lavoro è l’ennesima confutazione del feticismo delle merci, e dopo ogni transazione emergono ben presto le prove della sua falsità e dell’inganno e autoinganno che ne conseguono.
Se il destino del feticismo delle merci era quello di celare alla vista la sostanza umana, troppo umana della società dei produttori, ora tocca al feticismo della soggettività celare alla vista la realtà mercificata, troppo mercificata della società dei consumatori.

La “soggettività” della società dei consumatori, proprio come la “merce” nella società dei produttori, è un fatticcio, per usare il concetto ibrido coniato felicemente da Bruno Latour: un prodotto interamente umano elevato al rango di autorità superumana dimenticando, o riducendo all’irrilevanza, le sue origini umane, troppo umane, unitamente al complesso delle azioni umane che hanno portato alla sua comparsa e ne sono state conditio sine qua non. Per la merce nella società dei produttori era l’atto di comperare e vendere la capacità lavorativa dei produttori, conferendole valore di mercato, a rendere merce il prodotto del lavoro – in un modo invisibile (o nascosto) nell’apparenza di un’interazione autonoma tra merci. Nel caso della soggettività nella società dei consumatori, è ora la volta dell’acquisto e della vendita dei segni dispiegati nella costruzione dell’identità (quell’espressione presunta pubblica dell’ “io” che è in effetti il “simulacro”di Jean Baudrillard, che sostituisce la “rappresentazione” a ciò che essa si ritiene rappresenti) a essere cancellati dalle sembianze del prodotto finale.
La “soggettività” dei consumatori è costituita da scelte di acquisto – scelte compiute dal soggetto e dai suoi acquirenti potenziali – e la sua descrizione assume la forma della lista della spesa. Quella che si ritiene sia la materializzazione della verità interiore dell’io è in effetti una idealizzazione delle tracce materiali – reificate – delle scelte del consumatore.
Qualche tempo fa, da un’indagine realizzata da una delle sempre più numerose agenzie di incontri su internet (parship.co.uk), è emerso che nel 2005 due terzi dei singles che utilizzano questo genere di servizi (circa 3,6 milioni di persone) si sono rivolti alla rete. Nello stesso anno il giro d’affari degli “incontri via internet” ha raggiunto la cifra di dodici milioni di sterline, con previsione di raggiungere 47 milioni di sterline nel 2008 [15]. Nei sei messi immediatamente precedenti l’indagine la proporzione dei singles che prevedevano di incontrare il partner giusto in internet è cresciuta dal 35 al 50 per cento, e la tendenza è ancora in crescita. Commentando questi dati, in un saggio pubblicato sulla rivista web “Spiked” si osserva che la tendenza “riflette un mutamento di fondo nel modo in cui si è spinti a pensare alle proprie relazioni e a organizzare la propria vita: le affettuosità si scambiano in pubblico e sono regolate da norme contrattuali come quando si acquista un’auto, una casa, una vacanza” [16].

In linea con l’idea espressa

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ULTIMO AGGIORNAMENTO: 06-06-2020.

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