Introduzione dell’autore



Perché scrivere un saggio critico nei confronti della civiltà proprio oggi che la civilizzazione è presentata ovunque come l’unica via di salvezza alla deriva del mondo in cui viviamo? Perché stigmatizzare, nelle sue fondamenta, il complesso dei valori che caratterizzano la vita civile proprio ora che questi valori sono elevati a base d’appoggio di sonanti propositi propagandati di benessere e felicità futura? Sarebbe fin troppo facile rispondere che ormai non è più possibile credere a simili propositi soltanto propagandati: che è da tempo che le fanfare del “Futuro Migliore” suonano a festa, senza che nessuna festa segua alle promesse annunciate. Ma il problema è certamente più complesso.

Se guardiamo con attenzione alle condizioni del mondo moderno, possiamo accorgerci che questo non è soltanto un coacervo di promesse di felicità mancate, ma anche un insieme di promesse d’infelicità perfettamente mantenute. Quando ci viene detto che per stare meglio qualcun altro deve stare peggio, quando ci viene chiesto di sopportare ancora un po’, di tirare la cinghia, di stringere i denti e fare quei soliti sacrifici che faranno di nuovo risplendere il sole, siamo di fronte prorpio a questo tipo di promesse rispettate. Esattamente come quando ci viene chiesto di lavorare ancora di più, di correre ancora più in fretta, di consumare tutto e tutti per sostenere l’Economia, il Progresso, lo Sviluppo, la Democrazia.
Situazioni che siano interamente negative o positive del tutto non esistono al mondo. Persino ciò che ci allieta enormemente può presentare momenti di sofferenza (l’amore ne è forse l’esempio più autorevole); per contro, ciò che consideriamo negativo può aiutarci a crescere e dunque non essere totalmente sfavorevole. La civiltà, come qualsiasi altra condizione dell’essere umano, presenta questa commistione di caratteri. Il problema non è dunque quello di giudicarla come del tutto carente di vantaggi (o assolutamente priva di inconvenienti), quanto quello di cercare di comprenderla nelle sue dinamiche consolidate, nei suoi paradigmi, nei suoi sviluppi, nei suoi effetti, in modo da porsi nella posizione migliore per valutare se valga ancora la pena di camminare sulla strada segnata dal suo corso o cambiare rotta. Esiste un prezzo che paghiamo tutti i giorni per mantenere in auge la civiltà e consentirle di diffondersi; è sull’entità di questo prezzo che dovrebbe giocarsi la partita della nostra disponibilità ad ammetterla.

Un esempio banale per tutti. Ognuno di noi è in grado di giudicare il telefono cellulare come un oggetto molto utile. E indubbiamente lo è. Ma a quale costo? Basta non pensare al danno che provoca alla nostra salute per le onde nocive che propaga (su chi lo usa, su chi non lo usa, e persino quando è in stand-by). Basti non pensare al danno che impone all’ambiente: costellando i paesaggi della Terra di ripetitori ovunque; incentivando la produzione massiccia di quei materiali iperinquinanti che lo compongono (plastiche, vernici, batterie); diventando un rifiuto tossico quando non lo si userà più. Basta ancora non pensare all’isolamento relazionale in cui tende a rinchiuderci tutti, rendendo sempre più improbabile una comunicazione viso a viso e, per molti giovani, anche la semplice attitudine a esprimere le proprie opinioni (e persino i propri sentimenti) di persona. Basta ancora non pensare agli interessi economici che il business della telefonia cellulare muove, alle speculazioni monetarie che incoraggia, alle condizioni di sfruttamento ecologico e umano che pone in essere (alcuni dei materiali che compongono i telefonini vengono portate alla luce da profonde miniere nelle quali ancora oggi scendono e muoiono tantissime persone, tra cui anche molti bambini, trattate come schiave). Basta poi non pensare ai programmi di sviluppo tecnologico e di componentistica militare che il fenomeno della telefonia mobile alimenta, rendendo il controllo sociale sempre più invadente e le guerre maggiormente efferate. Insomma, basta non pensare a tutte queste cose (e a tante altre ancora) perché il nostro cellulare appaia soltanto come un qualcosa di molto utile.
La civiltà (come il telefonino) impone un prezzo molto caro da pagare, e sebbene questo costo sia in genere accuratamente occultato o sottostimato, esiste. Acquisirne la consapevolezza è già un passo decisivo sulla strada della sua valutazione di compatibilità.

Nel mondo civilizzato stiamo male, sempre più male. E non soltanto per la fame nel mondo, per la morte straziante di bambini sterminati dalle malattie, dalle carestie o dalla mancanza di acqua potabile. Stiamo male anche nelle aree opulente del pianeta, quelle che sono solitamente presentate come il Paese di Bengodi. Le forme di tossicodipendenza sempre più dilaganti (tabagismo e alcolismo che si diffondono tra i più giovani; droghe si tutti i tipi, farmaci, psicofarmaci, videogame, mercato del sesso, gioco d’azzardo), le malattie nervose sempre più diffuse (anoressia, bulimia, attacchi di panico, affaticamento cronico, disturbi del sonno), le varie ossessioni compulsive (a correre più in fretta, a comprare tutto, a collezionare tutto, a igienizzare e sterilizzare tutto), le manifestazioni di violenza in crescita esponenziale (dal bullismo ai killer seriali) ci dicono che anche laddove è stato ufficialmente proclamato lo “stato di benessere nazionale” la civiltà non perdona. Scandita irrimediabilmente dalla routine su cui è imperniata la nostra triste quotidianità, accompagnata dall’angoscia continua che ci attanaglia e dall’isolamento procurato da un’esistenza sempre più mediata dagli oggetti e dai servizi, quella sensazione di vuoto interiore che si fa ogni giorno sempre più pressante e incombente travolge tutti: dissidenti, devoti sostenitori della civiltà, persone senza opinione. Lo stress procurato dall’operosità spasmodica in cui tentiamo di annegare le nostre sofferenze, e la noia che ci assale non appena usciamo da questi cicli logoranti dell’iperattività, ci comunicano un fatto inequivocabile: la vita, una volta addomesticata e messa al servizio del Sistema, non aumenta di qualità; checchè ne dicano gli indici del PIL, le statistiche istituzionali o i resoconti parlamentari. Gli integralismi sempre più accesi e contrapposti, come gli atti di autolesionismo in aumento nel mondo “progredito”, suggellano nella maniera più tragica questa amarissima constatazione.
D’altra parte, gli umani non sono gli unici soggetti a soffrire nel mondo civilizzato. Anche il pianeta geme con noi. Inondazioni, alluvioni, nubifragi, tifoni, tempeste tropicali, grandinate sempre più violente, piogge acide, nano-polveri, aumento delle specie in via di estinzione, riscaldamento globale, siccità, desertificazione, deforestazione, cementificazione stanno trasformando la Terra in una zona morta, in una landa tossica e inospitale la cui esistenza è segnata dalla medesima parabola di devastazione che guida quella diretta contro la vita umana.
Il prezzo che paghiamo perché la civilizzazione possa continuare a trionfare sui destini del pianeta (e di chi vi abita) è ben espresso nel nostro progressivo “distacco” dalla vita e dal senso della vita. Nel mondo civilizzato le basi naturali della nostra esistenza (costituzione genetica, multisensorialità, libera percezione della realtà, esperienza diretta, autonomia, condivisione, immedesimazione, aiuto reciproco) vengono continuamente aggredite da un universo tecno-meccanizzato, competitivo e calcolatore, che le sta rendendo sconosciute persino a noi stessi (quando non addirittura soppresse dichiaratamente in laboratorio). Esistono, del resto, nel mondo in cui viviamo, categorie alle quali abbiamo imparato a dare un’enorme rilevanza e che la civiltà ci ha insegnato a credere assolute e neutrali. L’Autorità come la Burocrazia, la Scienza come la Tecnologia, l’Economia come la Sovrappopolazione, l’Educazione come il Lavoro, l’Istruzione come le forme simboliche della cultura (Arte, Rito, Mito, Religione, Linguaggio, Scrittura, Numero, Tempo, Denaro, Diritto, Ruolo Sociale) non sono luoghi universali né tantomeno imparziali. Sono classi concettuali del mondo civile affermatesi con la civiltà e nella civiltà divenute intoccabili. Cominciare a guardare queste categorie con occhio critico significa riuscire a guardare al nostro modo di essere (e di pensare) senza timori reverenziali; significa cercare di capire in cosa consista quel prezzo così esoso che la civiltà c’impone di pagare perché possa continuare ad espandersi. E al tempo stesso significa anche cercare di risalire alle cause di quella condizione di malessere diffuso che nessuno dei servizi messi in vendita dalla civiltà è in grado di “curare”.

Generalmente, quando si cerca di indagare le cause delle degenerazione del nostro tempo si tende a correre a ritroso soltanto di qualche decennio, o di qualche secolo al massimo: la nascita della società dei consumi, il sorgere dell’organizzazione di massa, il successo dell’industrializzazione. Non vi è dubbio che tutti questi fenomeni abbiano contribuito a rendere il quadro attuale ancora più degradato. Ma è possibile fermarsi agli inizi dell’Ottocento e alla nascita del capitalismo industriale per individuare le fonti della crisi di oggi? Il movimento antagonista tradizionale ha sempre ritenuto di poter rispondere affermativamente. Personalmente, condivido l’opinione contraria.

Se è pur vero, infatti, che la mercificazione del mondo, che una mentalità consumistica spinta fino all’inverosimile, che l’esaltazione di un utilitarismo assoluto che trasforma tutti in speculatori patentati sono prodotti certi dell’ideologia del capitale (fu Adam Smith, ideologo del capitalismo moderno, a promuovere l’idea folle secondo la quale facendo i nostri interessi personalistici cureremmo indirettamente anche quelli di tutti), è anche vero che l’eliminazione di questa cinica ideologia non sarebbe sufficiente, da sola, a farci ritrovare un modo di vivere libero e soddisfacente. In fondo, la mentalità del dominio era in voga ben prima dell’Ottocento, così come l’autoritarismo, lo sciovinismo, la società patriarcale. L’economia c’era anche prima dell’arrivo della società industriale. Esattamente come c’era la politica con i suoi demagogici imbonimenti, il controllo sociale con i suoi invasivi precetti di coesione forzata, la scienza con i suoi moniti assolutistici, la tecnologia, lo sfruttamento animale ed ecologico, l’inquinamento. Per non parlare poi della guerra o della schiavitù che non sono certo invenzioni della società capitalistica.
Se vogliamo provare a guardare alle radici della crisi del nostro tempo, se vogliamo cercare di capire cosa stia succedendo a quel nostro presente sempre più vuoto e sfuggente non basta fermarsi alle degenerazioni innescate due secoli fa; occorre andare ancora più indietro. Quanto tempo indietro?
La questione sembra condurre a quesiti molto precisi: è mai esistita un’epoca in cui gli esseri umani siano vissuti in modo pacifico, gioioso, rispettoso, senza farsi la guerra, senza dominarsi e sfruttarsi a vicenda, senza confinarsi in organizzazioni sociali strutturate gerarchicamente che regolassero le relazioni in maniera prestabilita e obbligatoria per tutti? C’è mai stato un tempo in cui l’umanità abbia potuto condurre una vita tendenzialmente libera da forme di controllo sociale, libera da logiche di scambio economico e di produzione, libera da programmi ideologici di efficienza, di rendimento e di potenza? È mai stata accertata l’esistenza di un’era in cui gli uomini, le donne e i bambini si siano giovati di una comunione profonda con la natura, senza alcuna prospettiva di avvelenamento, di consumo ambientale, e immuni da quella condizione di alienazione nella quale siamo tutti confinati oggi? Studi avviati da oltre cinquant’anni sull’argomento hanno dato risposte sorprendentemente positive, e il discrimine tra un vissuto umano libero e appagante e uno via via più irreggimentato dai valori del mondo moderno è rappresentato proprio dall’avvento della civiltà.

Parlare di civiltà, significa prima di tutto chiarire un equivoco. Troppo spesso si ritiene che il termine “civiltà” coincida con “umanità”, e cioè che l’essere umano, da quando esiste sulla faccia della Terra, viva nella civiltà. Non è così. La civiltà non nasce con il genere umano. Anzi, se si guarda alle vicende del passato, la civilizzazione è un fenomeno recentissimo. Stando alle stime di un celebre fisiologo e biogeografo americano, Jared Diamond, la famiglia umana si sarebbe differenziata dalle scimmie antropomorfe circa 7 milioni di anni fa, 3 milioni di anni dopo avrebbe assunto la stazione erette e circa 2,5 milioni di anni or sono sarebbe entrata nel cosiddetto Paleolitico acquisendo tutte le abilità e le capacità (anche mentali e intellettuali) di cui dispone l’individuo moderno. La civiltà, invece, comunemente fatta coincidere con l’introduzione dell’agricoltura (inizio del Neolitico), è datata soltanto 10.000 anni. Due milioni e mezzo di anni di vita umana rispetto a soli diecimila anni di vita civilizzata. Pensata con l’ausilio dell’unità di misura monetaria la differenza si mostra ancora più impressionante: due milioni e mezzo di Euro, diecimila Euro…
Di fatto, per almeno centocinquantamila generazioni i nostri progenitori umani hanno vissuto in un mondo non-civilizzato, come raccoglitori-cacciatori nomadi: vale a dire come persone che, senza dimora fissa, senza mentalità possessista e manie di conquista, vivevano da individui liberi, immersi in una natura incontaminata e lontani dalle opprimenti preoccupazioni del mondo progredito. Non erano soffocati dalla burocrazia, né dal denaro, né dalla gerarchia perché non esistevano unità socio-politiche accentrate da amministrare (regni, nazioni, stati, imperi); formavano piccole comunità di poche decine di persone (bande), profondamente cooperative ed egualitarie, nelle quali ciascuno poteva esprimere la propria personalità fino a tal punto da potersene andare liberamente in qualsiasi momento.
Comparando la durata della vita del genere umano a quella di una giornata di 24 ore, abbiamo vissuto fuori dalla civiltà per oltre il 99,6% del tempo a disposizione, ovvero dalla mezzanotte fino alle ore 23.55 successive, per poi cedere alla civiltà nei soli 5 minuti restanti. Ma in quei 5 minuti abbiamo distrutto tutto, devastato tutto, pregiudicato tutto, fino a mettere in pericolo la nostra stessa esistenza e quella del mondo intero.

Da quel lunghissimo passato non-civilizzato possiamo cogliere tanti suggerimenti per il nostro presente. Ed è quello che questo saggio si propone di fare attraverso un costante rimando alle origini della civiltà e alla vita dei nostri avi pre-neolitici, guardati soprattutto attraverso l’esperienza della comunità di raccoglitori-cacciatori che ancora oggi abitano il pianeta (benchè assediate, contaminate, sterminate dal mondo civile e comunque confinate nelle zone più impervie della Terra). Un lunghissimo passato non-civilizzato esiste e ne è stata preservata una viva presenza fino ai giorni nostri; volgere lo sguardo attento alle esperienze di questi Popoli della Natura rappresenterà non tanto il motivo conduttore di questo lavoro, ma un suo riferimento ricorrente. E ciò non perché una simile indagine possa costituire il pretesto per l’approdo a una visione del mondo proiettata necessariamente a un “ritorno ai primordi”, ma per trarre insegnamento dall’esistenza dei nostri antenati primitivi e opporre riflessioni e pratiche di vita non-civilizzata al vissuto degradato di oggi. Lo scopo rimane sempre quello: cercare di arricchire l’analisi del nostro tempo di ogni elemento che valga la pena d’essere considerato; non tanto per idealizzare un certo trascorso ma per tentare di rendere vivibile il presente che ci appartiene. Anche per questo, quando sarà possibile raccogliere spunti dall’universo di saggezza dei bambini anche quello ci farà da guida. Alla fin fine, se quel che vogliamo è poter cominciare a vivere gioiosamente, liberamente, responsabilmente, in un mondo ecologicamente salubre e relazionalmente vivo, guardare all’esperienza di chi, nel passato come nel presente, è in grado di darci buoni consigli può solo farci bene.

A qualcuno il libro potrà apparire eccessivamente teorico, privo di propositi di azione concreta. Osservando le cose dalla prospettiva tracciata dalla nostra mentalità, sembra chiaro che per diffondersi nel corpo e poi nel cuore ogni spirito di trasformazione debba partire dalle convinzioni. Nella società di oggi, però, le convinzioni non sono libere. Come ha denunciato Jerry Mander prima di Latouche, viviamo soffocati da un immaginario completamente colonizzato dai valori della cultura dominante. Quello che occorre fare, dunque, è innanzitutto cercare di affrancarsi il più possibile (e per quanto possibile) da simili condizionamenti. Liberi dalla civiltà non contiene ricette magiche, istruzioni per l’uso e nemmeno precetti, editti o comandamenti. Come pensava il pedagogista libertario Marcello Bernardi, le soluzioni ai nostri problemi non sono mai nelle dogmatiche prescrizioni di qualcun altro ma dentro di noi, e occorre che ognuno cerchi, immagini e realizzi le sue proprie. Le opinioni altrui, semmai, possono costituire la base di elaborazione delle proprie opinioni, ed è in questa dimensione di interazione che si pone il manoscritto. Le tesi che seguiranno, quindi, non avranno lo scopo di raccogliere vocazioni fideistiche ma quello di suscitare dubbi, interrogativi, aperture alla riflessione. Lo spirito, insomma, non sarà mai quello di voler infondere verità, ma quello di cercare d’incrinare le false verità sulle quali è fondato il mondo civile. Senza la disponibilità ad ipotizzare che la civiltà possa essere IL problema del mondo in cui viviamo, nessun paradigma di questo mondo potrebbe mai essere messo seriamente in discussione e il processo degenerativo avviatosi con l’introduzione dell’agricoltura, continuerebbe ad espandersi: progressivamente, inevitabilmente, inesorabilmente. La prima rivoluzione contro la civiltà è quindi una rivoluzione che parte dentro di noi, come disponibilità a guardare criticamente le basi ideologiche che reggono l’universo che ci sta annullando.

Questo saggio non vuole essere un attod’accusa contro qualcuno in particolare (il contadino piuttosto che il divo-pupazzo dell’era dell’intrattenimento), ma un compendio di spunti critici inteso a mettere in discussione quell’intero sistema pervasivo e insinuante che chiamiamo “civiltà”. Un sistema che ci ha talmente imbrigliati, assuefatti, posti in balìa di noi stessi da renderci tutti incapaci d’essere franchi, a cominciare da chi scrive.
Infatti, ciò che risulta esposto in queste pagine è il frutto di battute al computer, ricerche documentali (anche su Internet), uso di strutture grammaticali e sintattiche di una lingua imparata in famiglia, perfezionata a scuola e utilizzata in tutti i contesti della vita sociale e personale dell’autore. Un autore che svolge un’attività lavorativa come fa la stragrande maggioranza della gente, che utilizza l’automobile, che si cura con la medicina (naturale se è possibile, ma pur sempre medicina), che ascolta e compone musica, che “ama” il cinema; un autore che ha in tasca la carta d’identità come ogni altro cittadino italiano, che viaggia nel mondo utilizzando treni, traghetti e aerei e che esibisce il proprio passaporto alle autorità di frontiera.
Non è un’arrivabile coerenza assoluta che conferisce legittimità alla critica del mondo in cui viviamo. Se così fosse, non vi sarebbe alcuna possibilità di critica. Ognuno di noi ha infatti i propri scheletri nell’armadio e le proprie debolezze; ognuno di noi è preso per il collo da questo universo generalizzante e spesso fa quello che può e non quello che vuole. La pura coerenza non esiste nel mondo civilizzato, se non per coloro che lo accettano integralmente e passivamente; e forse nemmeno per loro.
Nessuno ha la verità in tasca, tanto meno il sottoscritto. Nessuno ha la pretesa di ergersi a giudicatore dell’umanità, tanto meno il sottoscritto. Nessuno vuole far credere di essere in grado di camminare sulle acque. Esiste però un modo di pensare, di sentire, di agire che giustifica e sostiene il complesso dei principi che reggono questo mondo in declino e un altro che, al contrario, si sforza di comprendere quel che non va e tenta di abbattere ogni pregiudizio, fino alla radice. La critica RADICALE ai fondamenti della civilizzazione che esce dalle pagine di questo testo vuole essere un piccolo e ulteriore contributo alla presa di coscienza di ciascuno: alla presa di coscienza di quello che siamo e di quello che potremmo essere. Insomma, un piccolo e ulteriore contributo indirizzato alle menti, ai corpi, ai cuori di tutti, affinché i nostri pensieri, le nostre sensibilità, le nostre azioni quotidiane (per quanto minime) comincino davvero ad indirizzarsi CONTRO il sostegno a questo mondo invivibile e non in suo favore.

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