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La
civilizzazione sfocia nella morte
Nikolaj Berdjaev
Cosa
penseremmo se qualcuno ci invitasse a prendere parte,
in
qualità di figli legittimi, alla vita di una famiglia nella
quale i genitori costringessero i loro giovani discendenti a vivere
in condizioni disumane? Li costringessero, per esempio, a una vita di
stenti, affollati in spazi dall’aria contaminata dal fetore di
gas nocivi; impedissero loro di muoversi liberamente obbligandoli,
sin da piccini, e per tutta la loro esistenza, a sacrificarsi nello
svolgimento di attività per lo più estranee alle loro
necessità motorie, di gioco, di sussistenza, e comunque
inutilmente ripetitive, faticose, dannose, stressanti. Li educassero
ad accettare quei sacrifici come esito di un impegno che esige
l’acquisizione di un certo numero di “gettoni di
partecipazione” come unica via all’aspettativa di
raggiungere una condizione minima di sopravvivenza altrimenti
irraggiungibile; vale a dire: indumenti, un luogo ove ripararsi dalle
intemperie, luce solare per nutrire le cellule, affetti, cure, cibo
quotidiano. Che però anche questo costoso riconoscimento di
sopravvivenza potesse essere messo in discussione in qualsiasi
momento dai genitori, a loro totale discrezione: l’abitazione
potesse essere confiscata dall’oggi al domani, la luce solare
continuamente sopraffatta da quella artificiale, gli affetti e le
cure rese inaccessibili o negate, avvelenato il pasto quotidiano e
gli stessi gettoni di partecipazione sequestrati o erosi nel loro
valore convenzionale.
Cosa penseremo, poi, se apprendessimo che,
di fronte al manifestato disagio di quei poveri ragazzi, i genitori
operassero per cercare d’ingannarli, spingendoli ad accettare
passivamente la loro sorte? Anzi, per assicurarsi la più
efficace soppressione di ogni potenziale esternazione di malessere,
si attivassero in via preventiva e abituassero i loro giovani all’uso
di sostanze psicotrope o narcotiche utili a distrarre l’attenzione
dal dolore, a sviare la riflessione sulle condizioni di disagio, a
offuscare la capacità di analisi infondendo nei loro animi
tormentati la convinzione che tutto è sempre
stato così,
e quindi tutto sarà
così per sempre?
Accetteremmo
di vivere in una famiglia del genere?
Molto verosimilmente la
risposta è No. Ognuno di noi, per quanto capace di
condiscendenza, finirebbe col giudicare quella condizione
esistenziale come inaccettabile e persecutoria. Anche se fossimo
costretti a ritenerla come la miglior sorte augurabile tra quelle
esistenti al mondo (o la più condivisa dalle persone del
pianeta), essa rimarrebbe ugualmente quella che è: una
tremenda congiura contro la vita.
Sotto l’infierire di tali imperiosità il nostro corpo e
il nostro spirito finirebbero ben presto per ribellarsi sfogando
magari nella patologia o nell’impulso aggressivo (contro noi
stessi o contro gli altri) tutta la sofferenza repressa.
Pur
con tutte le ovvie limitazioni che ogni semplificazione impone, la
metafora della “famiglia incosciente” raffigura in
maniera appropriata la realtà del mondo moderno: di quella
grande famiglia sempre più globalizzata e massificata che è
l’attuale società tecno-industriale che domina la
Terra.
Questa, insomma, è la realtà in cui viviamo
oggi: è la civiltà.
Certo, la comparazione della
vita umana alla conduzione di una famiglia in cui siano formalmente
separate le responsabilità dei genitori (le élite che
dominano il pianeta) da quelle dei figli (le persone che ne sono
governate) stride non poco con la visione di un’umanità
capace di sovrintendere autonomamente alla propria esistenza. Eppure,
una tale assegnazione di competenze non è soltanto la trama
che informa le istituzioni del mondo civile (che è, per
eccellenza, il mondo della delega e della rappresentanza), ma è
l’asse portante della sua stessa strutturazione. Tutto, nel
mondo moderno, è organizzato affinché sia ben distinta
la posizione di chi si occupa professionalmente di qualcosa (gestione
delle controversie private piuttosto che cura delle anime, pedagogia
piuttosto che informazione) da quella di coloro che sono invece
semplicemente chiamati ad usufruire dei relativi servizi osservandone
scrupolosamente le istituzioni: contribuente, utente, credente,
cliente, paziente, elettore, spettatore…. E mentre ogni
sostanziale critica a questo rigido schema organizzativo è
irrisa, dall’altro, la formale libertà riconosciuta a
tutti di poter entrare nel gioco delle parti rende il modello
ufficialmente approvato. Con la prospettiva di poter diventare un
giorno il punto di riferimento di qualcuno (come genitore, come
marito/moglie, come istitutore, tecnico, artista, professionista,
capoufficio, leader politico), il sistema assume una connotazione
democratizzante e finisce con l’essere perpetuato proprio da
colo che, intanto, sono chiamati ad accettarlo in modo supino.
Naturalmente, questa chiamata all’approvazione a capo chino non
favorisce certo un’armonica compartecipazione sociale, e tanto
meno una piena realizzazione di sé. Prima o poi ogni individuo
che vive nel mondo incivilito finisce col subirlo. Raggiungere i
propri limiti di sopportazione diventa soltanto una questione di
tempo. La nevrosi, la malattia, la violenza, l’indifferenza, lo
smarrimento generale, il bisogno di comandare e farsi comandare, di
possedere e farsi possedere giungono prima o poi a rivelare tutto il
peso di questi valicamento.
Maggiore
è la spinta verso il disagio esistenziale, maggiore è
anche la forza che la civilizzazione pone in campo per salvaguardare
se stessa. Portarci fuori rotta, fornire obiettivi ingannevoli,
canalizzare le energie migliori verso il consolidamento dello status
quo diventano
le vie da battere per ostacolare ogni pesa di coscienza critica. E
tanto più la civiltà ci spinge fuori direzione, quanto
più si ostina a disconoscere i sintomi del malessere che
infligge. Come se fosse possibile tenere a galla un nave senza fondo,
siamo chiamati tutti a sistemarla minuziosamente nelle sue fiancate
otturandovi, con le più innovative resine artificiali, ogni
piccola fessurazione e ammaccatura; senza alcun minio risultato di
galleggiamento, ovviamente. La nave, priva della sua piattaforma,
continua a imbarcare acqua, e l’indisponibilità a
guardare alle cause originarie di questo disastro spiega la ragione
che ci ha portato a cercare altrove la responsabilità della
sommersione. Il problema, si è cominciato a teorizzare, non è
nella costruzione che abbiamo progettato (la nave senza fondo), ma
nel mare dispettoso e incontrollabile. È dunque su questo
elemento che dobbiamo concentrare gli sforzi per renderlo ancora più
sottomesso alle nostre tecniche, alle nostre invenzioni, al nostro
potere. L’inquietudine esistenziale che ci divora, insomma, non
deriva dall’invivibilità di quel mondo triste e senza
fondo che abbiamo sovrapposto a un’esistenza naturale e libera,
ma da questa stessa esistenza spontanea che deve imparare a piegarsi
ancor meglio alle necessità del sistema sociale. In
quest’ottica è diventato facile trasformare la crisi del
nostro tempo non più in un sintomo di un problema che sta a
monte (la civiltà), ma in un effetto degenerativo autonomo che
deve quindi essere ulteriormente represso.
Nel mondo in cui
viviamo tutte le manifestazioni si sofferenza perdono il loro
carattere sintomatico. Vengono semplicemente “purgate”
attraverso i più comuni metodi di conservazione del modello:
in via preventiva, inventando tutto ciò che serve a far
sfogare
o
a rimuovere
il
malessere; in via repressiva, trattando il disagio come un problema
di ordine pubblico.
Materialmente: 1) intrattenendo le persone pur di distrarle dai loro
patimenti esistenziali (logica dello svago, ideologia della
competizione, ossessione per la celebrità, brama possessista);
2) consolandole con la Speranza quando le attività di
distrazione non sono in grado di fare il loro effetto (Religione,
mito del Progresso, dello Sviluppo, del Futuro Migliore); 3)
punendole o “curandole” se proprio non vi si adattano in
altro modo.
I risultati di questo processo di occultamento delle
cause della crisi che ci consuma (e gli effetti della repressione
delle sue manifestazioni di sofferenza) sono chiaramente scritti
nella dilatazione di questa stessa crisi. Mentre la retorica del
“governo buono” continua a rassicurare tutti circa il
fatto che le cose procedano nel verso giusto, assistiamo ogni giorno
di più alla totale devastazione del pianeta, alla
sterilizzazione di ogni forma di relazione umana, alla riduzione
degli individui a fattori della produzione e ad oggetti della
Politica, della Burocrazia, della Scienza, della Tecnica.
La
vita non è più ciò che siamo
ma
ciò che rappresentiamo
per
il mondo civile: nella funzione
che
dobbiamo imparare ad assumere nel corso degli anni. Ed è ovvio
che in un simile contesto non esiste alcun spazio per affermare la
prevalenza del vivente sul costruito (sull’organizzato, sullo
strutturato, sul sovrapposto), ma solo lo spazio per accelerare il
processo di degenerazione che sta togliendo noi stessi (e il mondo
naturale) dalle preoccupazioni della modernità. Gli effetti
travolgenti di questo modo particolare di considerare le cose sono
sotto gli occhi di tutti. I veleni costituiscono ormai un alleato
fedele della vita civile: quelli che siamo costretti a respirare non
sono diversi da quelli che siamo abituati a bere, o da quelli che
impreziosiscono gli alimenti industriali che abbiamo imparato a
trangugiare in tutta fretta tra una pausa pranzo o un coffee-break.
Il lavoro, inteso come attività separata dalla vita, occupa la
quasi totalità del nostro tempo e condiziona ogni momento
della nostra esistenza: sia quella sprecata all’interno dei
luoghi della “sacra” produzione economica, sia quella
permessa all’esterno di essi. Il denaro, simbolo valutario
delle cose, è stato elevato a fine delle relazioni tra gli
uomini e idolatrato. Senza la sua intercessione non è quasi
più possibile regolare alcun tipo di rapporto, e la sua
mancanza nega l’auspicio di qualsiasi ipotesi di protezione:
protezione dalle intemperie, dai malanni, dall’isolamento.
Persino i frutti della terra sono stati assoggettati al dominio delle
leggi di mercato, e con l’affermazione della civiltà si
è man mao stabilito di doverne pagare un prezzo per poterli
avere a disposizione.
Allo stesso modo, i luoghi nei quali
scorre la nostra moderna esistenza sono sempre più innaturali:
dalle scatole abitative in cui dimoriamo lontani da ogni contatto
diretto con la terra, ai luoghi insalubri della produzione
industriale. Il grigiore del cemento delle città opprime il
colore della campagna, l’odore acre degli insediamenti urbani
deturpa il profumo della natura, il rumore dei motori è ormai
entrato fin dentro le nostre case sotto forma di aspiratori, seghe,
trapani, spremiagrumi. Insidia direttamente il primato del frastuono
delle strade, dei lavoro in corso, delle attività commerciali
e produttive che avevano reso impraticabile già da tempo
l’esperienza del silenzio.
Ogni cosa intorno a noi è
oggi adulterata: gli alimenti sono diventati potenziali entità
ricostruite in laboratorio attraverso la ricombinazione genetica o
mediante procedimenti sistematici di calcolo elettronico; il
divertimento è preconfezionato; il tempo è programmato.
Persino l’aria è stata prodotta artificialmente e la
chiamano “condizionata”. «Ciò che oggi si
chiama “naturale” – notava Raul Vaneigem – è
tanto artificiale quanto il fondo tinta “naturale” dei
profumieri» [1]. Inoltre, i contatti umani sono sempre più
mediati dalle macchine, il nostro isolamento personale è
continuamente magnificato dall’informatica ed anche la nostra
vita biologica sta diventando ormai un arido terreno privo di
vivacità in procinto di essere interamente colonizzato dalla
scienza e dalla tecnologia.
«La
pura gioia che deriva dal contatto quotidiano con la natura»,
ha riassunto l’etnobotanico Michele Vignodelli [2], «è
stata sostituita con la sovreccitazione da stimoli artificiosi,
grossolani e meccanici, con le mode, i revival, musiche da sballo,
giocattoli rombanti, attori di culto, eventi… tutto un mondo
rutilante, chiassoso e disperatamente vuoto. Un oceano montante di
stimoli effimeri, una moltitudine di pseudointeressi e pseudobisogni
in cui l’energia emotiva si disperde fino a farci affogare nel
nulla […]. La sostanza di tutto questo fastoso baraccone
sembra ridursi al fiume di velenosi, nascosti rancori che scorre
sotto la facciata cortese, nei corridoi del formicaio industriale,
alla ringhiosa difesa del proprio loculo di “libertà”
e di “diritti” garantiti per legge, a una solitudine
profonda e sempre più nascosta nei rituali di massa; a una
inautenticità
globale dei
rapporti e delle esperienze».
È
forse possibile pensare che una simile condizione esistenziale
susciti felicità? In effetti, nel mondo civilizzato regna la
tristezza e il malumore. Ogni dodici mesi, due milioni di adolescenti
statunitensi tentano il suicidio. E l’allarme recentemente
sollevatosi per l’impressionante numero di bambini americani
che riesce annualmente a togliersi la vita (circa 300 bambini di età
compresa tra i 10 e i 14 anni, ossia quasi un bambino al giorno!) [3]
ci conferma che la disperazione non è un patrimonio esclusivo
delle zone emarginate delle periferie dalla civiltà, ma una
realtà comune a tutto il mondo moderno. Mentre là si
vien meno per la fame e per la sete, qui si muore di un male
incurabile:
il “male di vivere”. E già si parla apertamente di
“mal d’anima”, di “mal di civiltà”.
«Può
darsi che gli uomini dei Paesi industrializzati preferiscano affogare
e crepare nella grascia del benessere e dei telefonini – è
stato recentemente scritto – ma alcune cifrette sembrano dire
il contrario. Negli Stati Uniti 600 abitanti su 1000 fanno uso
abituale di psicofarmaci. Ciò significa che nel Paese più
ricco, più abbiente, più affluente del mondo, punta di
lancio dell’attuale modello di sviluppo, una persona su due non
sta bene nella propria pelle. E in Europa i suicidi sono passati da
2,6 per 100.000 abitanti della metà del Seicento all’attuale
20 per 100.000 abitanti: sono quindi decuplicati»
[4].
Persino
per Emile Durkheim, inossidabile propugnatore del primato della
società sull’individuo, l’enorme aumento dei casi
di suicidio rinvenibili già dalla fine dell’Ottocento
doveva considerarsi «un tributo alla civiltà»
[5],
un effetto del «disagio generale che colpisce le società
contemporanee» [6]. Secondo il celebre sociologo francese,
infatti, il «numero eccezionalmente alto di morti volontarie
dimostra lo stato di profondo turbamento di cui soffrono le società
civili, e ne rivela la gravità. Anzi, si può dire che
ne dà la misura» [7]. Effettivamente, il ricorso sempre
più massiccio all’uso di antidepressivi, la dilagante
anoressia/bulimia, l’affermazione di una cultura dello
“stordimento anestetizzante” che porta gli individui a
cercare consolazione nel consumo di sostanze stupefacenti, frastuoni,
persone, miti, religioni, prestazioni fisiche estreme, sfide alla
morte, o che le aggioga alla dipendenza dalla pornografia, dal
possesso di palliativi tecnologici e alla mistica dell’apparenza,
ci dicono che la «modernità è riuscita
nell’impresa di far star male anche chi sta bene» [8].
Le cose, i servizi, i titoli, i gradi, gli status
symbol,
l’opulenza materiale che il mondo sviluppato ci riversa addosso
con la pretesa di tener alto il nostro morale, non serve a colmare il
vuoto che queste stesse abbondanze hanno scavato dentro e fuori di
noi. Il distacco con il quale conduciamo la nostra esistenza
all’interno dei binari austeri del mondo degli oggetti ci
comunica che questa nostra esistenza ormai scivola via invece di
pulsare. Le attività, i pensieri, le sensazioni, le relazioni
sono sempre più separate dai loro soggetti, e procedono
lontane da noi come fossero qualcosa di estraneo a noi stessi.
Persino la felicità non fa più parte del nostro
presente; è diventata un mito da raggiungere, un qualcosa
d’intangibile proiettato in un tempo sempre di là da
venire: questa sera dopo il lavoro, durante il prossimo week-end,
alla prossima estate, quando avrò comprato casa, non appena
mio figlio terminerà gli studi, il giorno che sarò in
pensione….
Quante volte ci siamo trovati ad esultare per l’imminenza di un breve periodo di ferie? “Pensa piccola mia – giubilava una giovane nonna rivolgendosi alla nipote prima della partenza per una vacanza estiva – tra qualche giorno partiremo per il mare e avremo due settimane per divertirci”. Già, due settimane per divertirsi. Calcolando la durata della vita umana, trovarsi costretti a tripudiare per quindici giorni di serenità all’anno significa aver davvero imparato ad accontentarsi. Tutti ne siamo consapevoli, e ne soffriamo. E ne soffriamo anche quando riusciamo a non darlo a vedere. Anche quando ci raccontiamo che è giusto così; anche quando ricordiamo a noi stessi che nel mondo strabiliante in cui viviamo a molte persone non è concessa nemmeno questa risicata opportunità. Ma è proprio lì il problema. Una vita che invece di poter essere vissuta intensamente è posta quotidianamente ai margini della sopravvivenza, soffocata da una mole infinita d’impegni incalzanti, di doveri improrogabili, di conformismi da accettare, di mercificazioni a tutto tondo, di spargimenti di sangue diventati consuetudine, di adulazioni e risentimenti, ipocrisie e umiliazioni, coercizioni e indifferenze che tolgono di mezzo la possibilità di essere felici sempre, non è una vita che possa dirsi tale. Tanto più se si tien conto che la prima prospettiva che il mondo civile offre per far fronte al disagio che esso stesso genera rimane appunto quella della sopportazione: del non pensarci su. Attività di evasione, spettacoli di evasione, pillole di evasione: ce ne sono per tutti i gusti e per tutte le età. Se il mondo in cui viviamo non fosse una grande gabbia, non saremmo costretti a desiderare di evadere.
* * *
Siamo
a tal punto il prodotto di quegli schemi culturali e morali che
segnano i confini del nostro essere, che il solo guardare alla
civiltà come alla causa dei nostri problemi ci è
sembrato, per secoli, azzardato. Tuttavia, una maturata presa di
coscienza critica verso ciò che contraddistingue il nostro
modo di vedere le cose ha finito col fare breccia nel pregiudizio.
Anche in questo senso uno sguardo al passato, al vissuto di quei
popoli che per milioni di anni hanno condotto la loro esistenza da
individui non-civilizzati, resistendo poi con la forza all’invasione
del mondo civile, diventa inevitabile.
L’idea che i
nostri avi pre-neolitici conducessero una vita di stenti, fortemente
ridimensionata per durata dall’incombenza delle più
atroci malattie e contraddistinta dalla soggezione alle forme più
terribili di violenza, è ormai un’idea lasciata al campo
delle suggestioni propagandistiche che un certo etnocentrismo di
stampo colonialista ha cavalcato per secoli, cedendo infine
all’evidenza della sua insostenibilità. Persino
l’ortodossia scientifica è oggi incline a smentire che
l’esistenza dei nostri antenati non-civilizzati fosse
caratterizzata dall’imperversare delle più incontenibili
forme di miseria, dall’infuriare degli attacchi di belve feroci
e ispirata dall’abitudine degli esseri umani di aggredirsi gli
uni con gli altri in un contesto sociale dominato dalla sopraffazione
e dall’abuso. Quella che è venuta alla luce, sia ain
campo antropologico che etnologico ed archeologico, è infatti
una visione del mondo primitivo che stride decisamente con quella
immaginata da chi è abituato a concepire il passato come una
sciagura dalla quale ci stiamo progressivamente liberando.
Grazie
allo studio “sul campo” dei popoli che ancora oggi
abbracciano lo stile di vita della raccolta dei frutti spontanei
della terra e della caccia degli animali selvatici (i cosiddetti
raccoglitori-cacciatori [9]), è stato possibile accertare
quanto essi abbiano potuto giovarsi di un’esistenza
tendenzialmente libera, semplice, gioiosa. Stretti in un armonico
contesto d’intima comunione con la natura, questi individui
hanno goduto (e godono a tutt’oggi) di prerogative
perfettamente sconosciute agli esseri progrediti: pacifici e
rispettosi, responsabili e premurosi, sensibili e indulgenti (tanto
più con i piccoli), mancano di qualsiasi organizzazione
gerarchica o politicamente accentrata, non hanno strumenti di
controllo sociale, non conoscono la proprietà privata, né
la discriminazione, né la povertà e spesso nemmeno il
suicidio, la criminalità e la guerra; i membri adulti della
comunità (sia uomini che donne) partecipano in genere in modo
egualitario e non formale alle deliberazioni del gruppo, facendo
della cooperazione la loro “forza sociale” e del
nomadismo la loro pratica di vita. Hanno inoltre a che fare raramente
con la malattia, e vivono una vita che, se per durata è
tendenzialmente analoga a quella dei paesi del cosiddetto Primo
Mondo, per soddisfazione non ha invece paragoni: senza gli stress, i
pesi e le incombenze snervanti dell’universo civilizzato,
dedicano diverso tempo al gioco (anche con i bambini), ad altre
attività ricreative, alla compagnia (comprese le visite ad
altri accampamenti e l’intrattenimento degli ospiti), al relax,
al sonno, prediligendo persino oziare visto che il tempo dedicato
alla ricerca del cibo non li impegna più di tre/quattro ore al
giorno.
Nei fatti,questi Popoli della Natura vivono pienamente
appagati del piacere di un presente che appartiene loro per intero.
Le sintetiche riflessioni di Kevin Duffy, uno studioso che ha vissuto
per qualche tempo con i Pigmei Mbuti (una comunità di
raccoglitori-cacciatori che abita la foresta tropicale di Ituri,
nello Zaire nordorientale), sono emblematiche: «Provate
a immaginare un’esistenza in cui la terra, la casa e il cibo
sono gratuiti, in cui non esistono dirigenti, capi, politica, crimine
organizzato, tasse e leggi. Aggiungetevi il vantaggio di far parte di
una società in cui tutto è condiviso, in cui non
esistono né poveri né ricchi, in cui felicità
non significa accumulazione di beni materiali»
[10].
Per quanto sia doveroso evitare di idealizzare la preistoria elevandola ad emblema della perfezione possibile (che non esiste), e per quanto sia dunque necessario evitare di cercare nel passato meno prossimo dell’umanità il mito di una “Età dell’Oro” da riprodurre in fotocopia, chiudere gli occhi sulle evidenze di un trascorso primitivo che proprio fuori dalla civiltà ha trovato la forma più efficace e duratura per una completa sintonia col modo circostante, significa dare credito ad un analogo atteggiamento preconcetto. Se è innegabile che un universo a “misura di natura” non deve trovare la sua legittimazione nello specchio di una fedele riproduzione del passato ma in un rpocesso che parte dal presente e che non ha bisogno di conferme storiche o di riconoscimenti scientifico-istituzionali per essere messo in pratica, è altrettanto innegabile che analizzare la civiltà cercando di indagare i caratteri fondanti significa anche guardare con occhio attento all’esperienza di color che, fuori dal suo imperversare, hanno potuto godere, per milioni di anni, di un’esistenza libera, serena e soddisfacente. Rendere accessibile l’esperienza primitiva alle riflessioni sulle condizioni del mondo attuale costituisce dunque la ragione di un sicuro arricchimento critico; cercare di dare corso a una sintesi tra la saggezza di allora e ciò che motiva il sogno di un mondo liberato da ciò che ci affligge oggi, è invece la sfida rimessa alla creatività di tutti noi, uomini e donne del nostro tempo.
* * *
Lontano
dai valori che reggono la civiltà l’essere umano ha
vissuto in perfetta armonia con la natura, rifiutando di piegarla
prepotentemente ai propri bisogni e coesistendo con essa senza
procurarle danni particolari. Da quando l’umanità ha
cessato di sentirsi interamente concresciuta nella natura e se ne è
separata (concependosi appunto come entità distinta da essa),
la coesistenza rispettosa e pacifica è terminata. Infranto
quell’originario sentimento di unione profonda col mondo che
trovava espressione in un “Io” collettivo e
non-solo-umano di completa identificazione con le energie, gli
elementi e gli esseri della Terra (quello che il paleontologo
francese F. M. Bergounioux ha chiamato “cosmomorfismo”
[11]), l’individuo ha cominciato a sottomettere il proprio
mondo, ha iniziato a manipolarlo per assoggettarlo ai propri bisogni.
Lì è nata la civiltà. Pur confluita in modelli
socio-culturali differenziati, la civiltà rappresenta la
quintessenza di questo allontanamento. Infatti, per quanto siano
diverse le connotazioni di costume che ha assunto nel tempo e nello
spazio (dalla società Sumera, a quella Babilonese, Egizia,
Semitica, Cinese, Greca, Romana, Vichinga, Araba, Maya, Azteca, Inca,
Occidentale moderna tanto per limitare l’elencazione a quelle
più conosciute), la civiltà è sempre stata
caratterizzata, ovunque e in ogni tempo, dalla presenza di questo
minimo comune denominatore: il distacco dell’individuo dalla
natura e l’affermazione di un dominio del primo sulla seconda.
Non a caso la nascita della civiltà è fatta
coincidere, storicamente, proprio con l’avvento
dell’agricoltura: ovvero con la pratica che, sorta circa
diecimila anni or sono12 nei territori della cosiddetta
Mezzaluna Fertile13 , ha imposto alla terra di essere al
servizio forzato dell’essere umano secondo regole, tempi,
cicli, rese produttive, imposizioni seminative (qui il grano, lì
il mais, là il riso) che non si accordavano più con la
natura (intesa appunto come “un tutto inscindibile”) ma
la scavalcavano, andando a soddisfare la volontà di coloro che
se ne erano distaccati autodichiarandosene proprietari. Con
l’agricoltura cambia infatti completamente la prospettiva di
riferimento: non è più questione di godere dei frutti
spontanei della natura, bensì d’imporre alla natura la
produzione forzata di un sempre maggior numero di frutti; non è
più la natura che concede, ma è l’essere umano
che, divenutone padrone, impone e pretende.
Ovviamente, questa
messa-in-produzione della terra non è stata ininfluente sui
corsi della vita successiva. Nella misura in cui l’individuo ha
cessato di essere partecipe del mondo vivente e ha cominciato ad
“usarlo”, il mondo stesso è diventato un oggetto.
E per consentire al suo autoinvestito signore di mantenere il proprio
ordine di sottomissione, era necessario che quest’oggetto fosse
reso domestico: addomesticata la realtà intorno a lui (i
campi, appunto; i vegatali, gli animali, i minerali, le energie della
Terra); addomesticata la persone umana, la sua dimensione
immaginativa, la sua sfera psicologica, la sua esperienza percettiva,
la sua vitalità, i suoi rapporti di relazione (con sé
stesso, con gli altri, con la natura). Tutto doveva essere posto via
via sotto controllo e all’occorrenza trasformato, maneggiato,
plasmato in funzione di tale controllo.
In questo senso civiltà
ha significato, sin dal suo sorgere, non soltanto una procurata
insensibilità verso il mondo circostante, ma anche una precisa
volontà di soggezione di ogni suo aspetto esistente. Guardare
criticamente a una simile velleità significa guardare alle
radici del nostro modo di concepire le cose. La civiltà è,
infatti, una precisa concezione del mondo che si basa su determinati
valori e li difende: il principio del dominio, appunto, del pensiero
astratto logico-razionale che conduce al sapere-come-potere (cultura,
scienza, tecnologia); il valore di una visione del mondo
utilitaristica, basata sulla pratica dello scambio equivalente e
sulla trasformazione di tutto quel che esiste in fattore di
produzione; l’idea di una strutturazione accentrata e
burocratica della vita sociale, organizzata sul ruolo insostituibile
del Terrore, della Paura e del culto del Futuro. Rivolgere uno
sguardo critico alle origini del nostro modo di vedere le cose vuol
dire dunque cercare di portare allo scoperto la dimensione falsata e
oppressa che la vita ha assunto nel mondo moderno. Significa, in
breve, cercare di creare occasioni di analisi che aspirino a dar
risposta al bisogno, sempre più avvertito oggi, di tentare ci
comprendere le cause del nostro costante immiseriamento.
* * *
Letteralmente
“civiltà” deriva dal latino civis,
e cioè cittadino14.
L’etimo nasconde un’innegabile ammissione di verità:
quella che riconosce come elemento fondante della civilizzazione il
principio della separazione dell’individuo dalla natura.
Infatti, anche senza volersi soffermare sulle definizioni di alcune
note personalità del mondo Occidentale che hanno posto
l’accento proprio sul richiamo a questa separazione (da
Rousseau15
a
Kant16,
dagli estensori dell’Encyclopedie
Française17
ad
Alfred Weber18;
dal sociologo americano Lester Ward19
a
Robert MacIver20),
civilizzare significa, secondo il suo etimo, cittadinizzare.
E cittadino non è forse colui il quale abbandona la campagna,
la terra, la natura intesa come entità organica, per
rinchiudersi in quella specie di fortezza pseudo-protettiva –
la città appunto – ove tutto è riprodotto
artificialmente o mediato?
La città, a differenza della
natura, non concede viveri che invece si comprano nei negozi; la
città, a differenza della natura, non accorda un libero
accesso al paesaggio che è invece offuscato da una pianificata
architettura del sovraffollamento. La città non riscatta
nemmeno l’umano senso del vitale giacché in questa tutto
è desolazione: l’arido cemento che la ricopre,
l’inquinamento che l’ammanta, la sua forma agglomerata e
standardizzata, il suo freddo mercanteggiare in ogni dove,
l’indifferenza e la diffidenza che vi serpeggia tra i suoi
disincantati abitanti. Attraverso l’inurbamento abbiamo di
fatto assistito ad un addensarsi di individui in un contesto
ambientale letteralmente strappato alla selva per essere rasato al
suolo, pianificato negli spazi, lastricato, edificato, sterilizzato
da ogni contatto con la vita e offerto a un’umanità
sempre meno umana che vi ha potuto via via smarrire la capacità
di sovrintendere autonomamente ai processi della propria sussistenza:
procacciarsi cibo genuino, ripararsi autonomamente dalle intemperie,
costruirsi utensili, spostarsi in modo assolutamente libero e non
condizionato. «Nelle città nessuno è
autosufficiente», ha riassunto l’antropologo sociale Jack
Goody21
dando
atto dell’orbita di dipendenza cui costringe l’urbanizzazione.
Nella città non si hanno rapporti diretti con la natura, ma
solo mediati: mediati appunto dalle invenzioni della civiltà
(cultura, scienza, tecnologia, politica, economia). Inoltre, come ha
sottolineato Aldous Huxley, nelle città «gli individui
entrano in rapporto l’uno con l’altro, non come
personalità totali, ma come incarnazioni di altrettante
funzioni economiche»22.
Mentre
la corsa a cittadinizzare
l’universo
viene oggi presentata come una necessità impellente (e la fuga
dalla natura promossa come una logica conseguenza da accettare con
disinvoltura), un numero sempre maggiore di persone scopre invece che
quella competizione autodistruttiva che fonda la realtà
sociale in cui viviamo può essere fermata.
A dispetto di
quanto viene continuamente propagandato da chi ha tutto l’interesse
(o ritiene di averlo) a mantenere in piedi questo mostruoso artificio
chiamato civiltà, resta innegabile che uno stile di vita
non-civilizzato sia capace di garantire la coesistenza armoniosa di
tutte le componenti della Terra (umane e non umane) più di
quanto non sia in grado di assicurarlo quello eco-distruttivo del
mondo incivilito. E ciò non soltanto in condizioni di
“pacifica” relazione delle forze naturali, ma anche di
fronte alle sferzate calamitose che la natura stessa a volte impone.
Ne è stata d’esempio l’onda anomale (tsunami) che,
il 26 dicembre 2004, si è abbattuta sul sud-est asiatico
mettendo a nudo le debolezze di un sistema civilizzato del tutto
incapace di farvi fronte. La morte e la distruzione è stata
inevitabile lungo tutti i tratti dell’Asia turistizzata
dalla
cultura del saccheggio vacanziero: sia quella sfacciata dei grandi
stabilimenti alberghieri dell’ all
inclusive e
della camera-con-vista,
che hanno spazzato via ogni forma di vegetazione protettiva (in
particolare mangrovie) per far posto alle “comodità
palazzesche” di sua maestà l’Occidentale; sia
quella più appartata e assai discreta – perché
non è certo bella da mostrare – dei poveri pescatori
locali che a stento sopravvivono ai margini della società
dello sfarzo.
Eppure, non molto lontano da quelle meravigliose
terre così spregiudicatamente depredate dalla devastazione in
forma di progresso, in un paradiso tropicale fortunatamente poco
conosciuto, esistono ancora diversi popoli non-civilizzati che
abitano i più remoti atolli delle Isole Andamane (ad ovest
della Thailandia, in pieno Oceano Indiano). Questi popoli
(Sentinelesi, Jarawa, Onge, Akabea, Akakede, Aka-bo, Aka-ciari,
Oka-giuvoi, ecc.) non hanno capi, ignorano gran parte delle forme di
rappresentazione simbolica della realtà (arte, matematica,
scrittura, denaro, diritto, religione), non allevano animali
domestici, non coltivano la terra e si nutrono dei frutti spontanei
della natura e degli animali cacciati (oltre che di quelli ottenuti
con la pesca che praticano solo con arco e freccia lungo le coste).
Pur trovandosi geograficamente più vicino all’epicentro
sismico di quanto non siano state alcune della nazioni ferite a morte
(Thailandia, India, Sri Lanka, Indonesia, Repubblica delle Maldive),
queste comunità di raccoglitori-cacciatori non hanno subito
perdite umane in occasione del maremoto.
Il fatto è che
i nativi delle Isole Andamane, il cui declino è iniziato circa
150 anni fa col la colonizzazione britannica e poi con quella
dell’India (genocidio, disboscamento delle isole, costruzione
di strade, bracconaggio, pesca di frodo e una tentata politica di
sedentarizzazione forzata sono stati il benvenuto che la civiltà
ha riservato a questi indigeni), hanno preservato una primordiale
sintonia con il mondo vivo. Al posto di mirabolanti sistemi
tecnologici di prevenzione nazionale delle catastrofi (come quello
americano stanziato alle Hawaii che, in occasione dello tsunami,
registrò il fenomeno sismico senza comprenderne la portata e
diramando al mondo intero l’assenza di pericolo…), gli
Andamanesi godono ancora di una prospettiva che la civiltà ha
spezzato: quella appunto di un’unità profonda e sentita
con la natura. Un’unità che ha consentito loro di
mettersi tranquillamente in salvo in occasione del maremoto,
esattamente come hanno fatto tutti gli animali liberi della zona
colpita dallo tsunami. A contribuire alla salvezza dei nativi delle
Andamane, ha riferito Francesca Casella della sede italiana di
Survival International, è stata «la loro sofisticata e
intima conoscenza dell’oceano e dei suoi movimenti, accumulata
in millenni di vita sulle isole e tramandata da generazioni. Sappiamo
per esempio che gli Onge sono fuggiti sopra delle alture non appena
hanno visto le acque del mare ritirarsi, perché consapevoli
del pericolo di inondazione. Pare che a mettere alcuni gruppi in
allarme siano stati anche il vento, il volo degli uccelli e il
movimento degli animali»23.
Il geologo Mario Tozzi, celebre conduttore televisivo (Gaia
Il pianeta che vive,
Raitre; La
Gaia Scienza,
La7), ha recentemente scritto nel suo libro Catastrofi:
in occasione dello tsunami del 2004 «nessun “selvaggio”
si è fortunatamente estinto. Perché? Si tratta di tribù
che vivono a contatto molto stretto con la natura […], non
praticano l’agricoltura e conducono un’esistenza molto
simile a quella dei nostri antenati diecimila anni fa. Non dispongono
di tecnologie […], hanno agito semplicemente secondo natura,
tenendo conto della memoria della Terra più di quanto non
abbiano saputo fare gli esperti e commentatori […]. Molti
degli indigeni che si trovavano sulle spiagge sono scappati
immediatamente nella boscaglia non appena hanno capito che quella
marea era fuori fase rispetto al ritmo tidale consueto […].
Non sarà che i “primitivi” hanno ragione e qualcun
altro sbaglia qualcosa […]?»24.
L’interrogativo
di Tozzi pare assai pertinente. In effetti, mentre questi indigeni
hanno semplicemente colto i segnali premonitori che la natura
manifesta sempre prima di un cataclisma e si sono salvati, gli
individui civilizzati non hanno saputo farlo. Persino coloro che
abitavano in quelle stesse Isole Andamane, ma che avevano adottato
uno stile di vita moderno, non ce l’hanno fatta. L’essere
diventati sordi agli avvertimenti del proprio ambiente li ha resi
incapaci di comprendere cosa stesse accadendo e, anche per loro, la
tragedia è stata inevitabile: «sulla
parte […] civilizzata delle Andamane (il 7 gennaio vi si
doveva tenere addirittura il “Festival del Turismo”) i
morti sono stati 9.571 e i dispersi 5.801»25.
Identica situazione nelle vicine Isole Nicobare: mentre i 380 nativi
della comunità Shompèn che vivono di raccolta e di
caccia in una zona appartata dell’Isola Grande Nicobar sono
rimasti del tutto illesi, gli altri Nicobaresi, che «non sono
cacciatori-raccoglitori bensì piccoli coltivatori […]
in gran parte convertiti al cristianesimo […], sono stati
travolti dalle acque e i morti sono stati numerosi»26.
D’altra
parte, quel che è forse ancor più drammatico di tutta
questa sciagura è il fatto che il mondo civilizzato non si sia
fermato un solo istante a riflettere su quanto è accaduto.
Certo, lo sconforto generalizzato non è mancato, né il
cordoglio unanime e nemmeno la solidarietà. È mancata
però la volontà di guardare alle cause di questo
disastro (di questo e di tutti gli altri che nel frattempo l’hanno
seguito). Invece di cercare di comprendere cosa è successo, il
mondo civilizzato non sente ragioni: la colpa è della natura,
le calamità sono inevitabili, tutto è sempre e soltanto
l’effetto di una fatale disgrazia. E così, archiviata la
pratica dello tsunami come catastrofe “naturale”, la
civiltà può proseguire dritto, ottusa e supponente, per
la sua strada senza uscita. Gli interrogativi di Mario Tozzi non
scompongono le certezze del mondo sviluppato e, lo ha notato Giuseppe
Castiglia, osservando il seguito di questa tragedia che in poche ore
ha spazzato via dalla faccia della terra oltre 230.000 persone
(creando più di due milioni di profughi), tutti vediamo come
«la grande macchina delle sottoscrizioni internazionali,
globali, sia presa soprattutto dall’ansia di ripristinare al
più presto la situazione di prima, di ricreare quei Paradisi
artificiali, come se volessimo cancellare e rimuovere un incubo senza
farci troppe domande sul perché lo abbiamo vissuto»27.
Ciò che l’umanità civilizzata ha smesso di
capire, e cioè il suo mondo vivente, e pretende di asservire
alla sua conoscenza logico-razionale, fallisce; ciò che
l’umanità civilizzata ha smesso di sentire, e cioè
il linguaggio dell’universo, e pretende di decifrare con le
macchine, fallisce; ciò che l’umanità civilizzata
ha smesso di rispettare, e cioè l’armonico procedere
della natura, e pretende di trasformare secondo il proprio volere,
anche lì fallisce.
Lo spettro di quella presuntuosa
ideologia che chiamiamo civiltà
cala sempre più
ingombrante sui destini delle persone. Essa ha trasformato l’essere
umano in una caricatura di se stesso, lasciandolo in balìa di
una natura che ha disimparato a comprendere ma di cui si crede il
signore: il più furbo, il più forte, il più
intelligente. Tanto più l’umanità continuerà
a vestirsi coi tragici panni dell’antropocentrismo, quanto più
essa si allontanerà dal proprio mondo; e tanto più
l’umanità si allontanerà dalla natura, quanto più
quest’ultima finirà per essere considerata ostile,
nemica, bruta. Un’ostilità che, a chiusura del cerchio,
parrà sanabile soltanto imponendo alla stessa il proprio
accanito assetto formale.
Già oggi il processo è
in avanzato stato di degradazione. Trasformata la natura in nemica,
siamo diventati capaci solo di vedere nemici: il sole brucia le
nostre epidermidi abituate agli spazi chiusi, gli stati di affezione
si tramutano in minacce incomprensibili alle nostre condizioni di
salute, il dolore fisico diventa una maledizione da scongiurare a
tutti i costi. Persino la morte non è più concepita
come una faccenda naturale. Nell’universo dionisiaco della
civiltà, la fine della vita è stata semplicemente
bandita, eliminata, tolta di mezzo: oscurata materialmente dagli
occhi (attraverso i percorsi obbligati della ospedalizzazione dei
decessi e della tumulazione dei cadaveri in appositi luoghi
appartati, espulsi dai centri abitati), essa è stata persino
soppressa ideologicamente dal cuore (attraverso i miti religiosi
della resurrezione, della reincarnazione, della rinascita,
dell’eterno ritorno, della trasmigrazione dell’anima,
della metempsicosi; oppure attraverso quelli laici dell’immortalità
civile: gloria, fama, lustro, celebrità).
Viste con gli
occhi di chi ha perduto ogni connessione con i suoi equilibri, le
uggiose giornate d’autunno si trasformano in un’insopportabile
pisciatoio, la nebbia in un insulso ostacolo alla circolazione
veicolare e il vento in un affronto alle nostre costose acconciature
per la festa. Nel mondo civilizzato, colpevoli sono sempre le
condizioni naturali, non quelle generate da quel contesto alterato e
sovrapposto che le ha compresse e stravolte: è sempre
l’asfalto ad essere reso viscido dalla pioggia, non la pioggia
ad essere imedita nel drenaggio dall’asfalto; è sempre
l’età anagrafica ad essere a rischio di malattia
(rischio infarto, rischio diabete, rischio osteoporosi), non la
malattia ad essere la conseguenza del nostro malsano stile di vita; è
sempre il bosco ad essere oscuro e infido, non la nostra disaffezione
a vivere in natura. I raccoglitori-cacciatori delle Andamane (come
tutte le persone che vivono in comunità primitive) sanno
perfettamente che la minaccia alla loro esistenza non proviene dalla
natura ma dalla civiltà, e lo hanno manifestato anche in
occasione dello tsunami. Quando il governo indiano, passata l’onda
travolgente, si è recato con i suoi elicotteri sull’arcipelago
per raccogliere cadaveri e offrire ai sopravvissuti il proprio
“aiuto” (fatto ovviamente di cibi in scatola, farmaci e
quant’altro utile a rendere gli indigeni dipendenti dai rimedi
del mondo moderno), non soltanto non ha trovato un nativo morto, non
soltanto non ha trovato un popolo spaventoso o bisognoso di soccorso,
ma si è imbattuto in una comunità unita e compatta che
lungi dal farsi incantare dalle macchine volanti (e dai propositi
pseudoassistenziali di chi le guidava), le ha accolte con lanci di
frecce fino a far desistere i piloti dall’atterraggio. Come a
dire: “Tenetevi tutta la vostra civiltà e andatevene!”.
* * * * *
Abbiamo
smesso di comprendere la natura e questa nostra ignoranza si sta
rivoltando contro di noi. Non basterà un dominio sempre più
militare del mondo a farci stare tranquilli, non basterà un
ordine sempre più rigido e formale a restituirci una serena
esistenza in questo ambiente. Anzi, più austero e universale
sarà quest’ordine, più ci troveremo esposti a
nuove catastrofi che continueremo a chiamare “naturali”
solo per liberarci la coscienza dalle responsabilità che
sappiamo di avere come sterminatori degli equilibri dell’ecosistema.
Non saranno nuove norme di sicurezza, nuove apparecchiature sempre
più sofisticate, nuovi interventi di ricostruzione antisismica
ad arginare le devastazioni che la civiltà attua a scapito del
pianeta con mezzi via via più sofisticati e invasivi.
Come
se fosse possibile salvaguardare la salute pubblica contenendo la
tossicità dell’aria (invece di ribellarsi alla logica
che produce l’inquinamento), ci occupiamo ormai soltanto di
limiti, di parametri, di comparazioni, di accettabilità, di
riferimenti formali (normativi, scientifici, di produzione
economica); come se fosse possibile riconquistare la libertà
abbellendo le mura della prigione in cui si è detenuti,
cediamo alle lusinghe dei vari secondini-imbianchini che ci
promettono ua cella sempre più colorata e adorna. Una galera,
per quanto ripulita e tinteggiata di fresco, rimane sempre una
galera, esattamente come un mondo avvelenato a norma di legge rimane
un mondo avvelenato. Anzi, una prigione abbellita sarà ancor
più difficile da demolire posto che la sua estetica ne
occulterà ancor meglio la funzione restrittiva; e lo stesso
dicasi per l’avvelenamento del pianeta che, una volta
legalizzato, diventerà intoccabile.
La società
civilizzata sa come rigenerare se stessa anche senza ricorrere alle
sole armi brutali della costrizione dichiarata; quelle subliminale
della persuasione sono, a volte, molto più efficaci. Traendo
forza dalla stessa passività che induce, la civiltà è
in grado di espandersi, consolidarsi, affermarsi nella testa, nel
corpo e nel cuore di noi tutti prima ancora che nella pratica
quotidiana. E dopo aver sterilizzato i “i sogni di libertà”
che la parte irriducibile della nostra immaginazione giovanile è
capace di elaborare a fronte di una realtà così
chiaramente intollerabile, c’insegna che il mondo degli adulti
non protesta, non si vergogna, non s’indigna per la condizione
in cui è costretto a vivere ogni giorno; e c’insegna,
appunto, che l’unica risposta realizzabile alla devastazione di
tutto e di tutti è quella di lottare per una devastazione
“sostenibile”.
Non
è un mondo inquinato a norma di legge l’obiettivo per il
quale impegnare le nostre energie, ma un mondo non inquinato; non è
una vita costretta in una cella ritinteggiata di nuovo quello che ci
farà sentire liberi, ma una vita da godere all’aria
aperta. Lasciare che il sistema pervasivo con cui veniamo
addomesticati, allontanati gli uni dagli altri e da noi stessi prenda
il sopravvento sulla vita, non ci aiuterà a ritrovare il senso
di questa nostra esistenza; lasciare che il sistema pervasivo col
quale veniamo sradicati dal contesto vivente e posti al servizio
della civiltà operi senza alcuna opposizione, non ci aiuterà
ad affermare la dignità di una vita che vuole vivere e non
semplicemente “farsi vivere”. «Il mondo è da
rifare», protestava Vaneigem28: le toppe, i tamponi,
le soluzione di ripiego non portano da nessuna parte. Rincorrere
l’obiettivo di una degradazione “accettabile”, non
ci affrancherà dalla degradazione. Rendere la civiltà
un minimo più giusta non ci libererà dalle sue insidie,
dalle sue dipendenze, dalle sue gabbie.
Affinché
all’aspettativa consolatoria di un domani migliore si
sostituisca un oggi vivo e vegeto, occorre dare vigore alla volontà
di una vita onnipresente: una vita da sentire addosso, da condurre
con creatività, indipendenza, desiderio. Una vita che recuperi
appieno la frattura che l’ha troppo a lungo separata e
allontanata dalla terra, in un’unità che sia di
cooperazione e non di competizione, di libertà e non di
disciplina, di rispetto e non di riverenza, di immedesimazione e non
di indifferenza, di confronto e non di scontro, di interazione e non
di scambio, di contatti reali e non di simulazione, di gioia e non di
noia.
Insomma: una vita da vivere, non da gestire.
Far
sembrare naturale la civiltà è la principale forma di
difesa che la civiltà ha adottato per eternare se stessa.
Assolvono allo scopo i suoi paradigmi, le sue consolazioni, le sue
verità. Mettere a nudo il carattere deturpante di questi
accorgimenti, renderli esposti alla considerazione di tutti,
osservarli nella loro funzione di perpetuazione del mondo desolato e
tossico in cui siamo stati calati, vuol dire offrirsi l’occasione
di guardare alla civiltà senza il suo scettro, senza cioè
quell’alone di solenne venerabilità che la rende mitica
ai nostri occhi (e dunque inviolabile e inevitabile).
La
consapevolezza che l’esistenza civilizzata sia in fonda una
generale sconfitta della vita fluisce dentro noi assumendo le forme
esteriori dello sconforto. Tutti, probabilmente, almeno una volta,
siamo stati pervasi da quel senso di delusione che sgorga dalla
constatazione di un’esistenza così qualitativamente
scarsa come quella che siamo abituati a condurre oggi. Se vogliamo
evitare che il giorno e la notte calino definitivamente sul nostro
feretro di esseri resi inerti dalla civiltà, dobbiamo cercare
di riprendere in mano la nostra vita. Dobbiamo riuscire a svelare le
responsabilità di tutti quei valori che presiedono al nostro
malessere quotidiano e che, ottenebrando la realtà di tutti i
giorni, fondano e governano quel processo sciagurato che chiamiamo
“civilizzazione”. In fin dei conti, se criminale è
il terrore, sappiamo chi lo genera; se criminale è la guerra,
sappiamo chi la teorizza; se criminale è lo sfruttamento,
sappiamo chi ne ha un imprescindibile bisogno per esistere: la
civiltà.
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
NOTE
1. Cfr. R. VANEIGEM, Trattato di saper vivere ad uso delle giovani generazioni (1967), Vallecchi, Firenze 1973, pag. 74.
2. Cfr. M. VIGNODELLI, Signori della Terra?, Anima Mundi, Cesena 2002, pag. 75.
3. I dati sono tratti da diversi articoli apparsi sull’argomento. Per tutti, si veda: Il suicidio tra i giovani.
4. Cfr. M. FINI, È un progresso da fine del mondo, in “Il Tempo”, 15 gennaio 2001
5. Cfr. È. DURKHEIM, Il suicidio (1897), Rizzoli, Milano 1999, pag. 328
6. Ibidem, pag. 349
7. Ibidem, pagg. 349-350
8. Cfr. M. FINI, È una progresso da fine del mondo, cit.
9. In antropologia si parla di cacciatori-raccoglitori, popolazioni nomadi del Paleolitico, distinte da quelle dei coltivatori-allevatori che comparvero circa 10.000 anni fa, all’inizio del Neolitico, allorchè cominciarono a diffondersi nel mondo le pratiche di coltivazione delle terre e di allevamento degli animali. Recentemente, è stato suggerito di invertire il termine “cacciatori-raccoglitori” in “raccoglitori-cacciatori” (così in Nancy Tanner, Maria Arioti, John Zerzan, Paul Ehrlich ed altri), in considerazione del fatto che la raccolta di frutti spontanei, prima ancora che la caccia, costituì (e costituisce ancora oggi) la prevalente forma di sussistenza dei popoli non-civilizzati.
10. Cfr. K. DUFFY, Children of the forest (1984). Riportato in: J. ZERZAN, Futuro primitivo (1994), Nautilus, Torino 2001, pag. 32.
11. Cfr. F. M. BERGOUNIOUX, Note sulla mentalità dell’uomo preistorico, in: S. L. WASHBURN, Vita sociale dell’uomo preistorico (1961), Rizzoli, Milano 1971, pag. 190.
12. Cfr. J. DIAMOND, “Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi 13000 anni”, (1997), Einaudi, Torino, 1998, pag. 74.
13. Si tratta di una vasta zone di terra che si estende a nord degli odierni stati di Israele e Libano fino all’Iraq nord-orientale, passando per la Siria e la Turchi del sud. È la patria delle culture Mesopotamiche.
14. In proposito si veda anche: C. KLUCKHOHN – A. KROEBER, Il concetto di cultura, 1963, Il Mulino, Bologna 1982, pag. 36.
15. Il riferimento è al noto “Discorso sulle origini e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini”. Cfr. J. J. ROUSSEAU, “Origine della disuguaglianza” (1754), Feltrinelli, Milano 2004.
16. Kant, nella sua Antropologie, parla del “passaggio dello stato di natura alla civiltà” affermando che “tutti i progressi civili hanno per fine di applicare le conoscenze e le abilità acquistate all’uso del mondo”. Cfr. I. KANT, Antropologia pragmatica (1798), Laterza, Roma-Bari 1969, pag. 222 e pag. 3.
17. G. Arcinegas afferma che una voce dell’Encyclopedie dice: “Civiliser una nation, c’est la faire passer de l’état primitif, naturel, à un état plus évoloé de culture morale, intellectuelle, sociale”. Riportato in C. KLUCKHOHN – A. KROEBER, Il concetto di cultura, cit., pag. 37.
18. La nozone offerta da Alfred Weber è la seguente: “La civiltà è semplicemente un corpo di cognizioni pratiche ed intellettuali ed una collezione di mezzi tecnici per esercitare il controllo sulla natura”. Sempre riportato in: C. KLUCKHOHN – A. KROEBER, Op cit., pag. 42.
19. Scrive Ward nel 1903: “Tale termine [civiltà] indica in sé uno stato di avanzamento superiore allo stato selvaggio o barbaro”. Ulteriormente riportato in: C. KLUCKHOHN – A. KROEBER, Op, cit., pag. 40.
20. “Per civiltà” ha considerato MecIver “intendiamo quindi l’intero meccanismo e l’organizzazione che l’uomo ha escogitato nel tentativo di controllare le condizioni di vita”. Di nuovo riportato in: C. KLUCKHOHN – A. KROEBER, Il concetto di cultura, Op, cit., pag. 41.
21. Cfr. J. GOODY, Capitalismo e modernità. Il grande dibattito (2004), Raffaello Cortina, Milano 2005. citato in “Il Sole 24 Ore, Domenica”, 18 settembre 2005, pag. 29.
22. Cfr. A. HUXLEY, Ritorno al mondo nuovo (1958), in: Il Mondo Nuovo – Ritorno al Mondo Nuovo, Mondadori, Milano 2005, pag. 255.
23. Intervista curata da Franco “il Daddo” Scarpino.
24. Cfr. M. TOZZI, Catastrofi, Rizzoli, Milano 2005, pagg. 27-28.
25. Cfr. G. CASTIGLIA, Lo tsunami e la globalizzazione.
26. Cfr. S. BUSSANI, Popoli sconosciuti. Le tribù che vivono nelle Andamane e Nicobare, travolte dallo tsunami.
27. Cfr. G. CASTIGLIA, Lo tsunami e la globalizzazione, cit.
28. Cfr. R. VANEIGEM, Trattato di saper vivere, cit. Pag. 1
* * *