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PROLOGO: Che cos’è la civiltà?



La civilizzazione sfocia nella morte
Nikolaj Berdjaev



Cosa penseremmo se qualcuno ci invitasse a prendere parte, in qualità di figli legittimi, alla vita di una famiglia nella quale i genitori costringessero i loro giovani discendenti a vivere in condizioni disumane? Li costringessero, per esempio, a una vita di stenti, affollati in spazi dall’aria contaminata dal fetore di gas nocivi; impedissero loro di muoversi liberamente obbligandoli, sin da piccini, e per tutta la loro esistenza, a sacrificarsi nello svolgimento di attività per lo più estranee alle loro necessità motorie, di gioco, di sussistenza, e comunque inutilmente ripetitive, faticose, dannose, stressanti. Li educassero ad accettare quei sacrifici come esito di un impegno che esige l’acquisizione di un certo numero di “gettoni di partecipazione” come unica via all’aspettativa di raggiungere una condizione minima di sopravvivenza altrimenti irraggiungibile; vale a dire: indumenti, un luogo ove ripararsi dalle intemperie, luce solare per nutrire le cellule, affetti, cure, cibo quotidiano. Che però anche questo costoso riconoscimento di sopravvivenza potesse essere messo in discussione in qualsiasi momento dai genitori, a loro totale discrezione: l’abitazione potesse essere confiscata dall’oggi al domani, la luce solare continuamente sopraffatta da quella artificiale, gli affetti e le cure rese inaccessibili o negate, avvelenato il pasto quotidiano e gli stessi gettoni di partecipazione sequestrati o erosi nel loro valore convenzionale.
Cosa penseremo, poi, se apprendessimo che, di fronte al manifestato disagio di quei poveri ragazzi, i genitori operassero per cercare d’ingannarli, spingendoli ad accettare passivamente la loro sorte? Anzi, per assicurarsi la più efficace soppressione di ogni potenziale esternazione di malessere, si attivassero in via preventiva e abituassero i loro giovani all’uso di sostanze psicotrope o narcotiche utili a distrarre l’attenzione dal dolore, a sviare la riflessione sulle condizioni di disagio, a offuscare la capacità di analisi infondendo nei loro animi tormentati la convinzione che tutto è
sempre stato così, e quindi tutto sarà così per sempre?
Accetteremmo di vivere in una famiglia del genere?
Molto verosimilmente la risposta è No. Ognuno di noi, per quanto capace di condiscendenza, finirebbe col giudicare quella condizione esistenziale come inaccettabile e persecutoria. Anche se fossimo costretti a ritenerla come la miglior sorte augurabile tra quelle esistenti al mondo (o la più condivisa dalle persone del pianeta), essa rimarrebbe ugualmente quella che è:
una tremenda congiura contro la vita. Sotto l’infierire di tali imperiosità il nostro corpo e il nostro spirito finirebbero ben presto per ribellarsi sfogando magari nella patologia o nell’impulso aggressivo (contro noi stessi o contro gli altri) tutta la sofferenza repressa.
Pur con tutte le ovvie limitazioni che ogni semplificazione impone, la metafora della “famiglia incosciente” raffigura in maniera appropriata la realtà del mondo moderno: di quella grande famiglia sempre più globalizzata e massificata che è l’attuale società tecno-industriale che domina la Terra.
Questa, insomma, è la realtà in cui viviamo oggi: è la civiltà.
Certo, la comparazione della vita umana alla conduzione di una famiglia in cui siano formalmente separate le responsabilità dei genitori (le élite che dominano il pianeta) da quelle dei figli (le persone che ne sono governate) stride non poco con la visione di un’umanità capace di sovrintendere autonomamente alla propria esistenza. Eppure, una tale assegnazione di competenze non è soltanto la trama che informa le istituzioni del mondo civile (che è, per eccellenza, il mondo della delega e della rappresentanza), ma è l’asse portante della sua stessa strutturazione. Tutto, nel mondo moderno, è organizzato affinché sia ben distinta la posizione di chi si occupa professionalmente di qualcosa (gestione delle controversie private piuttosto che cura delle anime, pedagogia piuttosto che informazione) da quella di coloro che sono invece semplicemente chiamati ad usufruire dei relativi servizi osservandone scrupolosamente le istituzioni: contribuente, utente, credente, cliente, paziente, elettore, spettatore…. E mentre ogni sostanziale critica a questo rigido schema organizzativo è irrisa, dall’altro, la formale libertà riconosciuta a tutti di poter entrare nel gioco delle parti rende il modello ufficialmente approvato. Con la prospettiva di poter diventare un giorno il punto di riferimento di qualcuno (come genitore, come marito/moglie, come istitutore, tecnico, artista, professionista, capoufficio, leader politico), il sistema assume una connotazione democratizzante e finisce con l’essere perpetuato proprio da colo che, intanto, sono chiamati ad accettarlo in modo supino. Naturalmente, questa chiamata all’approvazione a capo chino non favorisce certo un’armonica compartecipazione sociale, e tanto meno una piena realizzazione di sé. Prima o poi ogni individuo che vive nel mondo incivilito finisce col subirlo. Raggiungere i propri limiti di sopportazione diventa soltanto una questione di tempo. La nevrosi, la malattia, la violenza, l’indifferenza, lo smarrimento generale, il bisogno di comandare e farsi comandare, di possedere e farsi possedere giungono prima o poi a rivelare tutto il peso di questi valicamento.

Maggiore è la spinta verso il disagio esistenziale, maggiore è anche la forza che la civilizzazione pone in campo per salvaguardare se stessa. Portarci fuori rotta, fornire obiettivi ingannevoli, canalizzare le energie migliori verso il consolidamento dello status quo diventano le vie da battere per ostacolare ogni pesa di coscienza critica. E tanto più la civiltà ci spinge fuori direzione, quanto più si ostina a disconoscere i sintomi del malessere che infligge. Come se fosse possibile tenere a galla un nave senza fondo, siamo chiamati tutti a sistemarla minuziosamente nelle sue fiancate otturandovi, con le più innovative resine artificiali, ogni piccola fessurazione e ammaccatura; senza alcun minio risultato di galleggiamento, ovviamente. La nave, priva della sua piattaforma, continua a imbarcare acqua, e l’indisponibilità a guardare alle cause originarie di questo disastro spiega la ragione che ci ha portato a cercare altrove la responsabilità della sommersione. Il problema, si è cominciato a teorizzare, non è nella costruzione che abbiamo progettato (la nave senza fondo), ma nel mare dispettoso e incontrollabile. È dunque su questo elemento che dobbiamo concentrare gli sforzi per renderlo ancora più sottomesso alle nostre tecniche, alle nostre invenzioni, al nostro potere. L’inquietudine esistenziale che ci divora, insomma, non deriva dall’invivibilità di quel mondo triste e senza fondo che abbiamo sovrapposto a un’esistenza naturale e libera, ma da questa stessa esistenza spontanea che deve imparare a piegarsi ancor meglio alle necessità del sistema sociale. In quest’ottica è diventato facile trasformare la crisi del nostro tempo non più in un sintomo di un problema che sta a monte (la civiltà), ma in un effetto degenerativo autonomo che deve quindi essere ulteriormente represso.
Nel mondo in cui viviamo tutte le manifestazioni si sofferenza perdono il loro carattere sintomatico. Vengono semplicemente “purgate” attraverso i più comuni metodi di conservazione del modello: in via preventiva, inventando tutto ciò che serve a far
sfogare o a rimuovere il malessere; in via repressiva, trattando il disagio come un problema di ordine pubblico. Materialmente: 1) intrattenendo le persone pur di distrarle dai loro patimenti esistenziali (logica dello svago, ideologia della competizione, ossessione per la celebrità, brama possessista); 2) consolandole con la Speranza quando le attività di distrazione non sono in grado di fare il loro effetto (Religione, mito del Progresso, dello Sviluppo, del Futuro Migliore); 3) punendole o “curandole” se proprio non vi si adattano in altro modo.
I risultati di questo processo di occultamento delle cause della crisi che ci consuma (e gli effetti della repressione delle sue manifestazioni di sofferenza) sono chiaramente scritti nella dilatazione di questa stessa crisi. Mentre la retorica del “governo buono” continua a rassicurare tutti circa il fatto che le cose procedano nel verso giusto, assistiamo ogni giorno di più alla totale devastazione del pianeta, alla sterilizzazione di ogni forma di relazione umana, alla riduzione degli individui a fattori della produzione e ad oggetti della Politica, della Burocrazia, della Scienza, della Tecnica.
La vita non è più ciò che
siamo ma ciò che rappresentiamo per il mondo civile: nella funzione che dobbiamo imparare ad assumere nel corso degli anni. Ed è ovvio che in un simile contesto non esiste alcun spazio per affermare la prevalenza del vivente sul costruito (sull’organizzato, sullo strutturato, sul sovrapposto), ma solo lo spazio per accelerare il processo di degenerazione che sta togliendo noi stessi (e il mondo naturale) dalle preoccupazioni della modernità. Gli effetti travolgenti di questo modo particolare di considerare le cose sono sotto gli occhi di tutti. I veleni costituiscono ormai un alleato fedele della vita civile: quelli che siamo costretti a respirare non sono diversi da quelli che siamo abituati a bere, o da quelli che impreziosiscono gli alimenti industriali che abbiamo imparato a trangugiare in tutta fretta tra una pausa pranzo o un coffee-break. Il lavoro, inteso come attività separata dalla vita, occupa la quasi totalità del nostro tempo e condiziona ogni momento della nostra esistenza: sia quella sprecata all’interno dei luoghi della “sacra” produzione economica, sia quella permessa all’esterno di essi. Il denaro, simbolo valutario delle cose, è stato elevato a fine delle relazioni tra gli uomini e idolatrato. Senza la sua intercessione non è quasi più possibile regolare alcun tipo di rapporto, e la sua mancanza nega l’auspicio di qualsiasi ipotesi di protezione: protezione dalle intemperie, dai malanni, dall’isolamento. Persino i frutti della terra sono stati assoggettati al dominio delle leggi di mercato, e con l’affermazione della civiltà si è man mao stabilito di doverne pagare un prezzo per poterli avere a disposizione.
Allo stesso modo, i luoghi nei quali scorre la nostra moderna esistenza sono sempre più innaturali: dalle scatole abitative in cui dimoriamo lontani da ogni contatto diretto con la terra, ai luoghi insalubri della produzione industriale. Il grigiore del cemento delle città opprime il colore della campagna, l’odore acre degli insediamenti urbani deturpa il profumo della natura, il rumore dei motori è ormai entrato fin dentro le nostre case sotto forma di aspiratori, seghe, trapani, spremiagrumi. Insidia direttamente il primato del frastuono delle strade, dei lavoro in corso, delle attività commerciali e produttive che avevano reso impraticabile già da tempo l’esperienza del silenzio.
Ogni cosa intorno a noi è oggi adulterata: gli alimenti sono diventati potenziali entità ricostruite in laboratorio attraverso la ricombinazione genetica o mediante procedimenti sistematici di calcolo elettronico; il divertimento è preconfezionato; il tempo è programmato. Persino l’aria è stata prodotta artificialmente e la chiamano “condizionata”. «Ciò che oggi si chiama “naturale” – notava Raul Vaneigem – è tanto artificiale quanto il fondo tinta “naturale” dei profumieri» [1]. Inoltre, i contatti umani sono sempre più mediati dalle macchine, il nostro isolamento personale è continuamente magnificato dall’informatica ed anche la nostra vita biologica sta diventando ormai un arido terreno privo di vivacità in procinto di essere interamente colonizzato dalla scienza e dalla tecnologia.

«La pura gioia che deriva dal contatto quotidiano con la natura», ha riassunto l’etnobotanico Michele Vignodelli [2], «è stata sostituita con la sovreccitazione da stimoli artificiosi, grossolani e meccanici, con le mode, i revival, musiche da sballo, giocattoli rombanti, attori di culto, eventi… tutto un mondo rutilante, chiassoso e disperatamente vuoto. Un oceano montante di stimoli effimeri, una moltitudine di pseudointeressi e pseudobisogni in cui l’energia emotiva si disperde fino a farci affogare nel nulla […]. La sostanza di tutto questo fastoso baraccone sembra ridursi al fiume di velenosi, nascosti rancori che scorre sotto la facciata cortese, nei corridoi del formicaio industriale, alla ringhiosa difesa del proprio loculo di “libertà” e di “diritti” garantiti per legge, a una solitudine profonda e sempre più nascosta nei rituali di massa; a una inautenticità globale dei rapporti e delle esperienze».
È forse possibile pensare che una simile condizione esistenziale susciti felicità? In effetti, nel mondo civilizzato regna la tristezza e il malumore. Ogni dodici mesi, due milioni di adolescenti statunitensi tentano il suicidio. E l’allarme recentemente sollevatosi per l’impressionante numero di bambini americani che riesce annualmente a togliersi la vita (circa 300 bambini di età compresa tra i 10 e i 14 anni, ossia quasi un bambino al giorno!) [3] ci conferma che la disperazione non è un patrimonio esclusivo delle zone emarginate delle periferie dalla civiltà, ma una realtà comune a tutto il mondo moderno. Mentre là si vien meno per la fame e per la sete, qui si muore di un male
incurabile: il “male di vivere”. E già si parla apertamente di “mal d’anima”, di “mal di civiltà”.
«Può darsi che gli uomini dei Paesi industrializzati preferiscano affogare e crepare nella grascia del benessere e dei telefonini – è stato recentemente scritto – ma alcune cifrette sembrano dire il contrario. Negli Stati Uniti 600 abitanti su 1000 fanno uso abituale di psicofarmaci. Ciò significa che nel Paese più ricco, più abbiente, più affluente del mondo, punta di lancio dell’attuale modello di sviluppo, una persona su due non sta bene nella propria pelle. E in Europa i suicidi sono passati da 2,6 per 100.000 abitanti della metà del Seicento all’attuale 20 per 100.000 abitanti: sono quindi decuplicati»
[4].
Persino per Emile Durkheim, inossidabile propugnatore del primato della società sull’individuo, l’enorme aumento dei casi di suicidio rinvenibili già dalla fine dell’Ottocento doveva considerarsi «un tributo alla civiltà»
[5], un effetto del «disagio generale che colpisce le società contemporanee» [6]. Secondo il celebre sociologo francese, infatti, il «numero eccezionalmente alto di morti volontarie dimostra lo stato di profondo turbamento di cui soffrono le società civili, e ne rivela la gravità. Anzi, si può dire che ne dà la misura» [7]. Effettivamente, il ricorso sempre più massiccio all’uso di antidepressivi, la dilagante anoressia/bulimia, l’affermazione di una cultura dello “stordimento anestetizzante” che porta gli individui a cercare consolazione nel consumo di sostanze stupefacenti, frastuoni, persone, miti, religioni, prestazioni fisiche estreme, sfide alla morte, o che le aggioga alla dipendenza dalla pornografia, dal possesso di palliativi tecnologici e alla mistica dell’apparenza, ci dicono che la «modernità è riuscita nell’impresa di far star male anche chi sta bene» [8].
Le cose, i servizi, i titoli, i gradi, gli
status symbol, l’opulenza materiale che il mondo sviluppato ci riversa addosso con la pretesa di tener alto il nostro morale, non serve a colmare il vuoto che queste stesse abbondanze hanno scavato dentro e fuori di noi. Il distacco con il quale conduciamo la nostra esistenza all’interno dei binari austeri del mondo degli oggetti ci comunica che questa nostra esistenza ormai scivola via invece di pulsare. Le attività, i pensieri, le sensazioni, le relazioni sono sempre più separate dai loro soggetti, e procedono lontane da noi come fossero qualcosa di estraneo a noi stessi. Persino la felicità non fa più parte del nostro presente; è diventata un mito da raggiungere, un qualcosa d’intangibile proiettato in un tempo sempre di là da venire: questa sera dopo il lavoro, durante il prossimo week-end, alla prossima estate, quando avrò comprato casa, non appena mio figlio terminerà gli studi, il giorno che sarò in pensione….

Quante volte ci siamo trovati ad esultare per l’imminenza di un breve periodo di ferie? “Pensa piccola mia – giubilava una giovane nonna rivolgendosi alla nipote prima della partenza per una vacanza estiva – tra qualche giorno partiremo per il mare e avremo due settimane per divertirci”. Già, due settimane per divertirsi. Calcolando la durata della vita umana, trovarsi costretti a tripudiare per quindici giorni di serenità all’anno significa aver davvero imparato ad accontentarsi. Tutti ne siamo consapevoli, e ne soffriamo. E ne soffriamo anche quando riusciamo a non darlo a vedere. Anche quando ci raccontiamo che è giusto così; anche quando ricordiamo a noi stessi che nel mondo strabiliante in cui viviamo a molte persone non è concessa nemmeno questa risicata opportunità. Ma è proprio lì il problema. Una vita che invece di poter essere vissuta intensamente è posta quotidianamente ai margini della sopravvivenza, soffocata da una mole infinita d’impegni incalzanti, di doveri improrogabili, di conformismi da accettare, di mercificazioni a tutto tondo, di spargimenti di sangue diventati consuetudine, di adulazioni e risentimenti, ipocrisie e umiliazioni, coercizioni e indifferenze che tolgono di mezzo la possibilità di essere felici sempre, non è una vita che possa dirsi tale. Tanto più se si tien conto che la prima prospettiva che il mondo civile offre per far fronte al disagio che esso stesso genera rimane appunto quella della sopportazione: del non pensarci su. Attività di evasione, spettacoli di evasione, pillole di evasione: ce ne sono per tutti i gusti e per tutte le età. Se il mondo in cui viviamo non fosse una grande gabbia, non saremmo costretti a desiderare di evadere.

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Siamo a tal punto il prodotto di quegli schemi culturali e morali che segnano i confini del nostro essere, che il solo guardare alla civiltà come alla causa dei nostri problemi ci è sembrato, per secoli, azzardato. Tuttavia, una maturata presa di coscienza critica verso ciò che contraddistingue il nostro modo di vedere le cose ha finito col fare breccia nel pregiudizio. Anche in questo senso uno sguardo al passato, al vissuto di quei popoli che per milioni di anni hanno condotto la loro esistenza da individui non-civilizzati, resistendo poi con la forza all’invasione del mondo civile, diventa inevitabile.
L’idea che i nostri avi pre-neolitici conducessero una vita di stenti, fortemente ridimensionata per durata dall’incombenza delle più atroci malattie e contraddistinta dalla soggezione alle forme più terribili di violenza, è ormai un’idea lasciata al campo delle suggestioni propagandistiche che un certo etnocentrismo di stampo colonialista ha cavalcato per secoli, cedendo infine all’evidenza della sua insostenibilità. Persino l’ortodossia scientifica è oggi incline a smentire che l’esistenza dei nostri antenati non-civilizzati fosse caratterizzata dall’imperversare delle più incontenibili forme di miseria, dall’infuriare degli attacchi di belve feroci e ispirata dall’abitudine degli esseri umani di aggredirsi gli uni con gli altri in un contesto sociale dominato dalla sopraffazione e dall’abuso. Quella che è venuta alla luce, sia ain campo antropologico che etnologico ed archeologico, è infatti una visione del mondo primitivo che stride decisamente con quella immaginata da chi è abituato a concepire il passato come una sciagura dalla quale ci stiamo progressivamente liberando.

Grazie allo studio “sul campo” dei popoli che ancora oggi abbracciano lo stile di vita della raccolta dei frutti spontanei della terra e della caccia degli animali selvatici (i cosiddetti raccoglitori-cacciatori [9]), è stato possibile accertare quanto essi abbiano potuto giovarsi di un’esistenza tendenzialmente libera, semplice, gioiosa. Stretti in un armonico contesto d’intima comunione con la natura, questi individui hanno goduto (e godono a tutt’oggi) di prerogative perfettamente sconosciute agli esseri progrediti: pacifici e rispettosi, responsabili e premurosi, sensibili e indulgenti (tanto più con i piccoli), mancano di qualsiasi organizzazione gerarchica o politicamente accentrata, non hanno strumenti di controllo sociale, non conoscono la proprietà privata, né la discriminazione, né la povertà e spesso nemmeno il suicidio, la criminalità e la guerra; i membri adulti della comunità (sia uomini che donne) partecipano in genere in modo egualitario e non formale alle deliberazioni del gruppo, facendo della cooperazione la loro “forza sociale” e del nomadismo la loro pratica di vita. Hanno inoltre a che fare raramente con la malattia, e vivono una vita che, se per durata è tendenzialmente analoga a quella dei paesi del cosiddetto Primo Mondo, per soddisfazione non ha invece paragoni: senza gli stress, i pesi e le incombenze snervanti dell’universo civilizzato, dedicano diverso tempo al gioco (anche con i bambini), ad altre attività ricreative, alla compagnia (comprese le visite ad altri accampamenti e l’intrattenimento degli ospiti), al relax, al sonno, prediligendo persino oziare visto che il tempo dedicato alla ricerca del cibo non li impegna più di tre/quattro ore al giorno.
Nei fatti,questi Popoli della Natura vivono pienamente appagati del piacere di un presente che appartiene loro per intero. Le sintetiche riflessioni di Kevin Duffy, uno studioso che ha vissuto per qualche tempo con i Pigmei Mbuti (una comunità di raccoglitori-cacciatori che abita la foresta tropicale di Ituri, nello Zaire nordorientale), sono emblematiche: «
Provate a immaginare un’esistenza in cui la terra, la casa e il cibo sono gratuiti, in cui non esistono dirigenti, capi, politica, crimine organizzato, tasse e leggi. Aggiungetevi il vantaggio di far parte di una società in cui tutto è condiviso, in cui non esistono né poveri né ricchi, in cui felicità non significa accumulazione di beni materiali» [10].

Per quanto sia doveroso evitare di idealizzare la preistoria elevandola ad emblema della perfezione possibile (che non esiste), e per quanto sia dunque necessario evitare di cercare nel passato meno prossimo dell’umanità il mito di una “Età dell’Oro” da riprodurre in fotocopia, chiudere gli occhi sulle evidenze di un trascorso primitivo che proprio fuori dalla civiltà ha trovato la forma più efficace e duratura per una completa sintonia col modo circostante, significa dare credito ad un analogo atteggiamento preconcetto. Se è innegabile che un universo a “misura di natura” non deve trovare la sua legittimazione nello specchio di una fedele riproduzione del passato ma in un rpocesso che parte dal presente e che non ha bisogno di conferme storiche o di riconoscimenti scientifico-istituzionali per essere messo in pratica, è altrettanto innegabile che analizzare la civiltà cercando di indagare i caratteri fondanti significa anche guardare con occhio attento all’esperienza di color che, fuori dal suo imperversare, hanno potuto godere, per milioni di anni, di un’esistenza libera, serena e soddisfacente. Rendere accessibile l’esperienza primitiva alle riflessioni sulle condizioni del mondo attuale costituisce dunque la ragione di un sicuro arricchimento critico; cercare di dare corso a una sintesi tra la saggezza di allora e ciò che motiva il sogno di un mondo liberato da ciò che ci affligge oggi, è invece la sfida rimessa alla creatività di tutti noi, uomini e donne del nostro tempo.

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Lontano dai valori che reggono la civiltà l’essere umano ha vissuto in perfetta armonia con la natura, rifiutando di piegarla prepotentemente ai propri bisogni e coesistendo con essa senza procurarle danni particolari. Da quando l’umanità ha cessato di sentirsi interamente concresciuta nella natura e se ne è separata (concependosi appunto come entità distinta da essa), la coesistenza rispettosa e pacifica è terminata. Infranto quell’originario sentimento di unione profonda col mondo che trovava espressione in un “Io” collettivo e non-solo-umano di completa identificazione con le energie, gli elementi e gli esseri della Terra (quello che il paleontologo francese F. M. Bergounioux ha chiamato “cosmomorfismo” [11]), l’individuo ha cominciato a sottomettere il proprio mondo, ha iniziato a manipolarlo per assoggettarlo ai propri bisogni. Lì è nata la civiltà. Pur confluita in modelli socio-culturali differenziati, la civiltà rappresenta la quintessenza di questo allontanamento. Infatti, per quanto siano diverse le connotazioni di costume che ha assunto nel tempo e nello spazio (dalla società Sumera, a quella Babilonese, Egizia, Semitica, Cinese, Greca, Romana, Vichinga, Araba, Maya, Azteca, Inca, Occidentale moderna tanto per limitare l’elencazione a quelle più conosciute), la civiltà è sempre stata caratterizzata, ovunque e in ogni tempo, dalla presenza di questo minimo comune denominatore: il distacco dell’individuo dalla natura e l’affermazione di un dominio del primo sulla seconda.
Non a caso la nascita della civiltà è fatta coincidere, storicamente, proprio con l’avvento dell’agricoltura: ovvero con la pratica che, sorta circa diecimila anni or sono12 nei territori della cosiddetta Mezzaluna Fertile13 , ha imposto alla terra di essere al servizio forzato dell’essere umano secondo regole, tempi, cicli, rese produttive, imposizioni seminative (qui il grano, lì il mais, là il riso) che non si accordavano più con la natura (intesa appunto come “un tutto inscindibile”) ma la scavalcavano, andando a soddisfare la volontà di coloro che se ne erano distaccati autodichiarandosene proprietari. Con l’agricoltura cambia infatti completamente la prospettiva di riferimento: non è più questione di godere dei frutti spontanei della natura, bensì d’imporre alla natura la produzione forzata di un sempre maggior numero di frutti; non è più la natura che concede, ma è l’essere umano che, divenutone padrone, impone e pretende.
Ovviamente, questa messa-in-produzione della terra non è stata ininfluente sui corsi della vita successiva. Nella misura in cui l’individuo ha cessato di essere partecipe del mondo vivente e ha cominciato ad “usarlo”, il mondo stesso è diventato un oggetto. E per consentire al suo autoinvestito signore di mantenere il proprio ordine di sottomissione, era necessario che quest’oggetto fosse reso domestico: addomesticata la realtà intorno a lui (i campi, appunto; i vegatali, gli animali, i minerali, le energie della Terra); addomesticata la persone umana, la sua dimensione immaginativa, la sua sfera psicologica, la sua esperienza percettiva, la sua vitalità, i suoi rapporti di relazione (con sé stesso, con gli altri, con la natura). Tutto doveva essere posto via via sotto controllo e all’occorrenza trasformato, maneggiato, plasmato in funzione di tale controllo.
In questo senso civiltà ha significato, sin dal suo sorgere, non soltanto una procurata insensibilità verso il mondo circostante, ma anche una precisa volontà di soggezione di ogni suo aspetto esistente. Guardare criticamente a una simile velleità significa guardare alle radici del nostro modo di concepire le cose. La civiltà è, infatti, una precisa concezione del mondo che si basa su determinati valori e li difende: il principio del dominio, appunto, del pensiero astratto logico-razionale che conduce al sapere-come-potere (cultura, scienza, tecnologia); il valore di una visione del mondo utilitaristica, basata sulla pratica dello scambio equivalente e sulla trasformazione di tutto quel che esiste in fattore di produzione; l’idea di una strutturazione accentrata e burocratica della vita sociale, organizzata sul ruolo insostituibile del Terrore, della Paura e del culto del Futuro. Rivolgere uno sguardo critico alle origini del nostro modo di vedere le cose vuol dire dunque cercare di portare allo scoperto la dimensione falsata e oppressa che la vita ha assunto nel mondo moderno. Significa, in breve, cercare di creare occasioni di analisi che aspirino a dar risposta al bisogno, sempre più avvertito oggi, di tentare ci comprendere le cause del nostro costante immiseriamento.

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Letteralmente “civiltà” deriva dal latino civis, e cioè cittadino14. L’etimo nasconde un’innegabile ammissione di verità: quella che riconosce come elemento fondante della civilizzazione il principio della separazione dell’individuo dalla natura. Infatti, anche senza volersi soffermare sulle definizioni di alcune note personalità del mondo Occidentale che hanno posto l’accento proprio sul richiamo a questa separazione (da Rousseau15 a Kant16, dagli estensori dell’Encyclopedie Française17 ad Alfred Weber18; dal sociologo americano Lester Ward19 a Robert MacIver20), civilizzare significa, secondo il suo etimo, cittadinizzare. E cittadino non è forse colui il quale abbandona la campagna, la terra, la natura intesa come entità organica, per rinchiudersi in quella specie di fortezza pseudo-protettiva – la città appunto – ove tutto è riprodotto artificialmente o mediato?
La città, a differenza della natura, non concede viveri che invece si comprano nei negozi; la città, a differenza della natura, non accorda un libero accesso al paesaggio che è invece offuscato da una pianificata architettura del sovraffollamento. La città non riscatta nemmeno l’umano senso del vitale giacché in questa tutto è desolazione: l’arido cemento che la ricopre, l’inquinamento che l’ammanta, la sua forma agglomerata e standardizzata, il suo freddo mercanteggiare in ogni dove, l’indifferenza e la diffidenza che vi serpeggia tra i suoi disincantati abitanti. Attraverso l’inurbamento abbiamo di fatto assistito ad un addensarsi di individui in un contesto ambientale letteralmente strappato alla selva per essere rasato al suolo, pianificato negli spazi, lastricato, edificato, sterilizzato da ogni contatto con la vita e offerto a un’umanità sempre meno umana che vi ha potuto via via smarrire la capacità di sovrintendere autonomamente ai processi della propria sussistenza: procacciarsi cibo genuino, ripararsi autonomamente dalle intemperie, costruirsi utensili, spostarsi in modo assolutamente libero e non condizionato. «Nelle città nessuno è autosufficiente», ha riassunto l’antropologo sociale Jack Goody
21 dando atto dell’orbita di dipendenza cui costringe l’urbanizzazione. Nella città non si hanno rapporti diretti con la natura, ma solo mediati: mediati appunto dalle invenzioni della civiltà (cultura, scienza, tecnologia, politica, economia). Inoltre, come ha sottolineato Aldous Huxley, nelle città «gli individui entrano in rapporto l’uno con l’altro, non come personalità totali, ma come incarnazioni di altrettante funzioni economiche»22.
Mentre la corsa a
cittadinizzare l’universo viene oggi presentata come una necessità impellente (e la fuga dalla natura promossa come una logica conseguenza da accettare con disinvoltura), un numero sempre maggiore di persone scopre invece che quella competizione autodistruttiva che fonda la realtà sociale in cui viviamo può essere fermata.
A dispetto di quanto viene continuamente propagandato da chi ha tutto l’interesse (o ritiene di averlo) a mantenere in piedi questo mostruoso artificio chiamato civiltà, resta innegabile che uno stile di vita non-civilizzato sia capace di garantire la coesistenza armoniosa di tutte le componenti della Terra (umane e non umane) più di quanto non sia in grado di assicurarlo quello eco-distruttivo del mondo incivilito. E ciò non soltanto in condizioni di “pacifica” relazione delle forze naturali, ma anche di fronte alle sferzate calamitose che la natura stessa a volte impone. Ne è stata d’esempio l’onda anomale (tsunami) che, il 26 dicembre 2004, si è abbattuta sul sud-est asiatico mettendo a nudo le debolezze di un sistema civilizzato del tutto incapace di farvi fronte. La morte e la distruzione è stata inevitabile lungo tutti i tratti dell’Asia
turistizzata dalla cultura del saccheggio vacanziero: sia quella sfacciata dei grandi stabilimenti alberghieri dell’ all inclusive e della camera-con-vista, che hanno spazzato via ogni forma di vegetazione protettiva (in particolare mangrovie) per far posto alle “comodità palazzesche” di sua maestà l’Occidentale; sia quella più appartata e assai discreta – perché non è certo bella da mostrare – dei poveri pescatori locali che a stento sopravvivono ai margini della società dello sfarzo.
Eppure, non molto lontano da quelle meravigliose terre così spregiudicatamente depredate dalla devastazione in forma di progresso, in un paradiso tropicale fortunatamente poco conosciuto, esistono ancora diversi popoli non-civilizzati che abitano i più remoti atolli delle Isole Andamane (ad ovest della Thailandia, in pieno Oceano Indiano). Questi popoli (Sentinelesi, Jarawa, Onge, Akabea, Akakede, Aka-bo, Aka-ciari, Oka-giuvoi, ecc.) non hanno capi, ignorano gran parte delle forme di rappresentazione simbolica della realtà (arte, matematica, scrittura, denaro, diritto, religione), non allevano animali domestici, non coltivano la terra e si nutrono dei frutti spontanei della natura e degli animali cacciati (oltre che di quelli ottenuti con la pesca che praticano solo con arco e freccia lungo le coste). Pur trovandosi geograficamente più vicino all’epicentro sismico di quanto non siano state alcune della nazioni ferite a morte (Thailandia, India, Sri Lanka, Indonesia, Repubblica delle Maldive), queste comunità di raccoglitori-cacciatori non hanno subito perdite umane in occasione del maremoto.
Il fatto è che i nativi delle Isole Andamane, il cui declino è iniziato circa 150 anni fa col la colonizzazione britannica e poi con quella dell’India (genocidio, disboscamento delle isole, costruzione di strade, bracconaggio, pesca di frodo e una tentata politica di sedentarizzazione forzata sono stati il benvenuto che la civiltà ha riservato a questi indigeni), hanno preservato una primordiale sintonia con il mondo vivo. Al posto di mirabolanti sistemi tecnologici di prevenzione nazionale delle catastrofi (come quello americano stanziato alle Hawaii che, in occasione dello tsunami, registrò il fenomeno sismico senza comprenderne la portata e diramando al mondo intero l’assenza di pericolo…), gli Andamanesi godono ancora di una prospettiva che la civiltà ha spezzato: quella appunto di un’unità profonda e sentita con la natura. Un’unità che ha consentito loro di mettersi tranquillamente in salvo in occasione del maremoto, esattamente come hanno fatto tutti gli animali liberi della zona colpita dallo tsunami. A contribuire alla salvezza dei nativi delle Andamane, ha riferito Francesca Casella della sede italiana di Survival International, è stata «la loro sofisticata e intima conoscenza dell’oceano e dei suoi movimenti, accumulata in millenni di vita sulle isole e tramandata da generazioni. Sappiamo per esempio che gli Onge sono fuggiti sopra delle alture non appena hanno visto le acque del mare ritirarsi, perché consapevoli del pericolo di inondazione. Pare che a mettere alcuni gruppi in allarme siano stati anche il vento, il volo degli uccelli e il movimento degli animali»
23. Il geologo Mario Tozzi, celebre conduttore televisivo (Gaia Il pianeta che vive, Raitre; La Gaia Scienza, La7), ha recentemente scritto nel suo libro Catastrofi: in occasione dello tsunami del 2004 «nessun “selvaggio” si è fortunatamente estinto. Perché? Si tratta di tribù che vivono a contatto molto stretto con la natura […], non praticano l’agricoltura e conducono un’esistenza molto simile a quella dei nostri antenati diecimila anni fa. Non dispongono di tecnologie […], hanno agito semplicemente secondo natura, tenendo conto della memoria della Terra più di quanto non abbiano saputo fare gli esperti e commentatori […]. Molti degli indigeni che si trovavano sulle spiagge sono scappati immediatamente nella boscaglia non appena hanno capito che quella marea era fuori fase rispetto al ritmo tidale consueto […]. Non sarà che i “primitivi” hanno ragione e qualcun altro sbaglia qualcosa […]?»24.
L’interrogativo di Tozzi pare assai pertinente. In effetti, mentre questi indigeni hanno semplicemente colto i segnali premonitori che la natura manifesta sempre prima di un cataclisma e si sono salvati, gli individui civilizzati non hanno saputo farlo. Persino coloro che abitavano in quelle stesse Isole Andamane, ma che avevano adottato uno stile di vita moderno, non ce l’hanno fatta. L’essere diventati sordi agli avvertimenti del proprio ambiente li ha resi incapaci di comprendere cosa stesse accadendo e, anche per loro, la tragedia è stata inevitabile:
«sulla parte […] civilizzata delle Andamane (il 7 gennaio vi si doveva tenere addirittura il “Festival del Turismo”) i morti sono stati 9.571 e i dispersi 5.801»25. Identica situazione nelle vicine Isole Nicobare: mentre i 380 nativi della comunità Shompèn che vivono di raccolta e di caccia in una zona appartata dell’Isola Grande Nicobar sono rimasti del tutto illesi, gli altri Nicobaresi, che «non sono cacciatori-raccoglitori bensì piccoli coltivatori […] in gran parte convertiti al cristianesimo […], sono stati travolti dalle acque e i morti sono stati numerosi»26.
D’altra parte, quel che è forse ancor più drammatico di tutta questa sciagura è il fatto che il mondo civilizzato non si sia fermato un solo istante a riflettere su quanto è accaduto. Certo, lo sconforto generalizzato non è mancato, né il cordoglio unanime e nemmeno la solidarietà. È mancata però la volontà di guardare alle cause di questo disastro (di questo e di tutti gli altri che nel frattempo l’hanno seguito). Invece di cercare di comprendere cosa è successo, il mondo civilizzato non sente ragioni: la colpa è della natura, le calamità sono inevitabili, tutto è sempre e soltanto l’effetto di una fatale disgrazia. E così, archiviata la pratica dello tsunami come catastrofe “naturale”, la civiltà può proseguire dritto, ottusa e supponente, per la sua strada senza uscita. Gli interrogativi di Mario Tozzi non scompongono le certezze del mondo sviluppato e, lo ha notato Giuseppe Castiglia, osservando il seguito di questa tragedia che in poche ore ha spazzato via dalla faccia della terra oltre 230.000 persone (creando più di due milioni di profughi), tutti vediamo come «la grande macchina delle sottoscrizioni internazionali, globali, sia presa soprattutto dall’ansia di ripristinare al più presto la situazione di prima, di ricreare quei Paradisi artificiali, come se volessimo cancellare e rimuovere un incubo senza farci troppe domande sul perché lo abbiamo vissuto»27. Ciò che l’umanità civilizzata ha smesso di capire, e cioè il suo mondo vivente, e pretende di asservire alla sua conoscenza logico-razionale, fallisce; ciò che l’umanità civilizzata ha smesso di sentire, e cioè il linguaggio dell’universo, e pretende di decifrare con le macchine, fallisce; ciò che l’umanità civilizzata ha smesso di rispettare, e cioè l’armonico procedere della natura, e pretende di trasformare secondo il proprio volere, anche lì fallisce.
Lo spettro di quella presuntuosa ideologia che chiamiamo
civiltà cala sempre più ingombrante sui destini delle persone. Essa ha trasformato l’essere umano in una caricatura di se stesso, lasciandolo in balìa di una natura che ha disimparato a comprendere ma di cui si crede il signore: il più furbo, il più forte, il più intelligente. Tanto più l’umanità continuerà a vestirsi coi tragici panni dell’antropocentrismo, quanto più essa si allontanerà dal proprio mondo; e tanto più l’umanità si allontanerà dalla natura, quanto più quest’ultima finirà per essere considerata ostile, nemica, bruta. Un’ostilità che, a chiusura del cerchio, parrà sanabile soltanto imponendo alla stessa il proprio accanito assetto formale.
Già oggi il processo è in avanzato stato di degradazione. Trasformata la natura in nemica, siamo diventati capaci solo di vedere nemici: il sole brucia le nostre epidermidi abituate agli spazi chiusi, gli stati di affezione si tramutano in minacce incomprensibili alle nostre condizioni di salute, il dolore fisico diventa una maledizione da scongiurare a tutti i costi. Persino la morte non è più concepita come una faccenda naturale. Nell’universo dionisiaco della civiltà, la fine della vita è stata semplicemente bandita, eliminata, tolta di mezzo: oscurata materialmente dagli occhi (attraverso i percorsi obbligati della ospedalizzazione dei decessi e della tumulazione dei cadaveri in appositi luoghi appartati, espulsi dai centri abitati), essa è stata persino soppressa ideologicamente dal cuore (attraverso i miti religiosi della resurrezione, della reincarnazione, della rinascita, dell’eterno ritorno, della trasmigrazione dell’anima, della metempsicosi; oppure attraverso quelli laici dell’immortalità civile: gloria, fama, lustro, celebrità).
Viste con gli occhi di chi ha perduto ogni connessione con i suoi equilibri, le uggiose giornate d’autunno si trasformano in un’insopportabile pisciatoio, la nebbia in un insulso ostacolo alla circolazione veicolare e il vento in un affronto alle nostre costose acconciature per la festa. Nel mondo civilizzato, colpevoli sono sempre le condizioni naturali, non quelle generate da quel contesto alterato e sovrapposto che le ha compresse e stravolte: è sempre l’asfalto ad essere reso viscido dalla pioggia, non la pioggia ad essere imedita nel drenaggio dall’asfalto; è sempre l’età anagrafica ad essere a rischio di malattia (rischio infarto, rischio diabete, rischio osteoporosi), non la malattia ad essere la conseguenza del nostro malsano stile di vita; è sempre il bosco ad essere oscuro e infido, non la nostra disaffezione a vivere in natura. I raccoglitori-cacciatori delle Andamane (come tutte le persone che vivono in comunità primitive) sanno perfettamente che la minaccia alla loro esistenza non proviene dalla natura ma dalla civiltà, e lo hanno manifestato anche in occasione dello tsunami. Quando il governo indiano, passata l’onda travolgente, si è recato con i suoi elicotteri sull’arcipelago per raccogliere cadaveri e offrire ai sopravvissuti il proprio “aiuto” (fatto ovviamente di cibi in scatola, farmaci e quant’altro utile a rendere gli indigeni dipendenti dai rimedi del mondo moderno), non soltanto non ha trovato un nativo morto, non soltanto non ha trovato un popolo spaventoso o bisognoso di soccorso, ma si è imbattuto in una comunità unita e compatta che lungi dal farsi incantare dalle macchine volanti (e dai propositi pseudoassistenziali di chi le guidava), le ha accolte con lanci di frecce fino a far desistere i piloti dall’atterraggio. Come a dire: “Tenetevi tutta la vostra civiltà e andatevene!”.

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Abbiamo smesso di comprendere la natura e questa nostra ignoranza si sta rivoltando contro di noi. Non basterà un dominio sempre più militare del mondo a farci stare tranquilli, non basterà un ordine sempre più rigido e formale a restituirci una serena esistenza in questo ambiente. Anzi, più austero e universale sarà quest’ordine, più ci troveremo esposti a nuove catastrofi che continueremo a chiamare “naturali” solo per liberarci la coscienza dalle responsabilità che sappiamo di avere come sterminatori degli equilibri dell’ecosistema. Non saranno nuove norme di sicurezza, nuove apparecchiature sempre più sofisticate, nuovi interventi di ricostruzione antisismica ad arginare le devastazioni che la civiltà attua a scapito del pianeta con mezzi via via più sofisticati e invasivi.
Come se fosse possibile salvaguardare la salute pubblica contenendo la tossicità dell’aria (invece di ribellarsi alla logica che produce l’inquinamento), ci occupiamo ormai soltanto di limiti, di parametri, di comparazioni, di accettabilità, di riferimenti formali (normativi, scientifici, di produzione economica); come se fosse possibile riconquistare la libertà abbellendo le mura della prigione in cui si è detenuti, cediamo alle lusinghe dei vari secondini-imbianchini che ci promettono ua cella sempre più colorata e adorna. Una galera, per quanto ripulita e tinteggiata di fresco, rimane sempre una galera, esattamente come un mondo avvelenato a norma di legge rimane un mondo avvelenato. Anzi, una prigione abbellita sarà ancor più difficile da demolire posto che la sua estetica ne occulterà ancor meglio la funzione restrittiva; e lo stesso dicasi per l’avvelenamento del pianeta che, una volta legalizzato, diventerà intoccabile.
La società civilizzata sa come rigenerare se stessa anche senza ricorrere alle sole armi brutali della costrizione dichiarata; quelle subliminale della persuasione sono, a volte, molto più efficaci. Traendo forza dalla stessa passività che induce, la civiltà è in grado di espandersi, consolidarsi, affermarsi nella testa, nel corpo e nel cuore di noi tutti prima ancora che nella pratica quotidiana. E dopo aver sterilizzato i “i sogni di libertà” che la parte irriducibile della nostra immaginazione giovanile è capace di elaborare a fronte di una realtà così chiaramente intollerabile, c’insegna che il mondo degli adulti non protesta, non si vergogna, non s’indigna per la condizione in cui è costretto a vivere ogni giorno; e c’insegna, appunto, che l’unica risposta realizzabile alla devastazione di tutto e di tutti è quella di lottare per una devastazione “sostenibile”.


Non è un mondo inquinato a norma di legge l’obiettivo per il quale impegnare le nostre energie, ma un mondo non inquinato; non è una vita costretta in una cella ritinteggiata di nuovo quello che ci farà sentire liberi, ma una vita da godere all’aria aperta. Lasciare che il sistema pervasivo con cui veniamo addomesticati, allontanati gli uni dagli altri e da noi stessi prenda il sopravvento sulla vita, non ci aiuterà a ritrovare il senso di questa nostra esistenza; lasciare che il sistema pervasivo col quale veniamo sradicati dal contesto vivente e posti al servizio della civiltà operi senza alcuna opposizione, non ci aiuterà ad affermare la dignità di una vita che vuole vivere e non semplicemente “farsi vivere”. «Il mondo è da rifare», protestava Vaneigem28: le toppe, i tamponi, le soluzione di ripiego non portano da nessuna parte. Rincorrere l’obiettivo di una degradazione “accettabile”, non ci affrancherà dalla degradazione. Rendere la civiltà un minimo più giusta non ci libererà dalle sue insidie, dalle sue dipendenze, dalle sue gabbie.
Affinché all’aspettativa consolatoria di un domani migliore si sostituisca un oggi vivo e vegeto, occorre dare vigore alla volontà di una vita onnipresente: una vita da sentire addosso, da condurre con creatività, indipendenza, desiderio. Una vita che recuperi appieno la frattura che l’ha troppo a lungo separata e allontanata dalla terra, in un’unità che sia di cooperazione e non di competizione, di libertà e non di disciplina, di rispetto e non di riverenza, di immedesimazione e non di indifferenza, di confronto e non di scontro, di interazione e non di scambio, di contatti reali e non di simulazione, di gioia e non di noia.
Insomma: una vita da vivere, non da gestire.
Far sembrare naturale la civiltà è la principale forma di difesa che la civiltà ha adottato per eternare se stessa. Assolvono allo scopo i suoi paradigmi, le sue consolazioni, le sue verità. Mettere a nudo il carattere deturpante di questi accorgimenti, renderli esposti alla considerazione di tutti, osservarli nella loro funzione di perpetuazione del mondo desolato e tossico in cui siamo stati calati, vuol dire offrirsi l’occasione di guardare alla civiltà senza il suo scettro, senza cioè quell’alone di solenne venerabilità che la rende mitica ai nostri occhi (e dunque inviolabile e inevitabile).
La consapevolezza che l’esistenza civilizzata sia in fonda una generale sconfitta della vita fluisce dentro noi assumendo le forme esteriori dello sconforto. Tutti, probabilmente, almeno una volta, siamo stati pervasi da quel senso di delusione che sgorga dalla constatazione di un’esistenza così qualitativamente scarsa come quella che siamo abituati a condurre oggi. Se vogliamo evitare che il giorno e la notte calino definitivamente sul nostro feretro di esseri resi inerti dalla civiltà, dobbiamo cercare di riprendere in mano la nostra vita. Dobbiamo riuscire a svelare le responsabilità di tutti quei valori che presiedono al nostro malessere quotidiano e che, ottenebrando la realtà di tutti i giorni, fondano e governano quel processo sciagurato che chiamiamo “civilizzazione”. In fin dei conti, se criminale è il terrore, sappiamo chi lo genera; se criminale è la guerra, sappiamo chi la teorizza; se criminale è lo sfruttamento, sappiamo chi ne ha un imprescindibile bisogno per esistere: la civiltà.








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NOTE

1. Cfr. R. VANEIGEM, Trattato di saper vivere ad uso delle giovani generazioni (1967), Vallecchi, Firenze 1973, pag. 74.

2. Cfr. M. VIGNODELLI, Signori della Terra?, Anima Mundi, Cesena 2002, pag. 75.

3. I dati sono tratti da diversi articoli apparsi sull’argomento. Per tutti, si veda: Il suicidio tra i giovani.

4. Cfr. M. FINI, È un progresso da fine del mondo, in “Il Tempo”, 15 gennaio 2001

5. Cfr. È. DURKHEIM, Il suicidio (1897), Rizzoli, Milano 1999, pag. 328

6. Ibidem, pag. 349

7. Ibidem, pagg. 349-350

8. Cfr. M. FINI, È una progresso da fine del mondo, cit.

9. In antropologia si parla di cacciatori-raccoglitori, popolazioni nomadi del Paleolitico, distinte da quelle dei coltivatori-allevatori che comparvero circa 10.000 anni fa, all’inizio del Neolitico, allorchè cominciarono a diffondersi nel mondo le pratiche di coltivazione delle terre e di allevamento degli animali. Recentemente, è stato suggerito di invertire il termine “cacciatori-raccoglitori” in “raccoglitori-cacciatori” (così in Nancy Tanner, Maria Arioti, John Zerzan, Paul Ehrlich ed altri), in considerazione del fatto che la raccolta di frutti spontanei, prima ancora che la caccia, costituì (e costituisce ancora oggi) la prevalente forma di sussistenza dei popoli non-civilizzati.

10. Cfr. K. DUFFY, Children of the forest (1984). Riportato in: J. ZERZAN, Futuro primitivo (1994), Nautilus, Torino 2001, pag. 32.

11. Cfr. F. M. BERGOUNIOUX, Note sulla mentalità dell’uomo preistorico, in: S. L. WASHBURN, Vita sociale dell’uomo preistorico (1961), Rizzoli, Milano 1971, pag. 190.

12. Cfr. J. DIAMOND, “Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi 13000 anni, (1997), Einaudi, Torino, 1998, pag. 74.

13. Si tratta di una vasta zone di terra che si estende a nord degli odierni stati di Israele e Libano fino all’Iraq nord-orientale, passando per la Siria e la Turchi del sud. È la patria delle culture Mesopotamiche.

14. In proposito si veda anche: C. KLUCKHOHN – A. KROEBER, Il concetto di cultura, 1963, Il Mulino, Bologna 1982, pag. 36.

15. Il riferimento è al noto “Discorso sulle origini e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini”. Cfr. J. J. ROUSSEAU, “Origine della disuguaglianza(1754), Feltrinelli, Milano 2004.

16. Kant, nella sua Antropologie, parla del “passaggio dello stato di natura alla civiltà” affermando che “tutti i progressi civili hanno per fine di applicare le conoscenze e le abilità acquistate all’uso del mondo”. Cfr. I. KANT, Antropologia pragmatica (1798), Laterza, Roma-Bari 1969, pag. 222 e pag. 3.

17. G. Arcinegas afferma che una voce dell’Encyclopedie dice: “Civiliser una nation, c’est la faire passer de l’état primitif, naturel, à un état plus évoloé de culture morale, intellectuelle, sociale”. Riportato in C. KLUCKHOHN – A. KROEBER, Il concetto di cultura, cit., pag. 37.

18. La nozone offerta da Alfred Weber è la seguente: “La civiltà è semplicemente un corpo di cognizioni pratiche ed intellettuali ed una collezione di mezzi tecnici per esercitare il controllo sulla natura”. Sempre riportato in: C. KLUCKHOHN – A. KROEBER, Op cit., pag. 42.

19. Scrive Ward nel 1903: “Tale termine [civiltà] indica in sé uno stato di avanzamento superiore allo stato selvaggio o barbaro”. Ulteriormente riportato in: C. KLUCKHOHN – A. KROEBER, Op, cit., pag. 40.

20. “Per civiltà” ha considerato MecIver “intendiamo quindi l’intero meccanismo e l’organizzazione che l’uomo ha escogitato nel tentativo di controllare le condizioni di vita”. Di nuovo riportato in: C. KLUCKHOHN – A. KROEBER, Il concetto di cultura, Op, cit., pag. 41.

21. Cfr. J. GOODY, Capitalismo e modernità. Il grande dibattito (2004), Raffaello Cortina, Milano 2005. citato in “Il Sole 24 Ore, Domenica”, 18 settembre 2005, pag. 29.

22. Cfr. A. HUXLEY, Ritorno al mondo nuovo (1958), in: Il Mondo Nuovo – Ritorno al Mondo Nuovo, Mondadori, Milano 2005, pag. 255.

23. Intervista curata da Franco “il Daddo” Scarpino.

24. Cfr. M. TOZZI, Catastrofi, Rizzoli, Milano 2005, pagg. 27-28.

25. Cfr. G. CASTIGLIA, Lo tsunami e la globalizzazione.

26. Cfr. S. BUSSANI, Popoli sconosciuti. Le tribù che vivono nelle Andamane e Nicobare, travolte dallo tsunami.

27. Cfr. G. CASTIGLIA, Lo tsunami e la globalizzazione, cit.

28. Cfr. R. VANEIGEM, Trattato di saper vivere, cit. Pag. 1



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