SESTO POTERE

Sorveglianza e controllo
nella modernità liquida



La sorveglianza è una dimensione chiave del nostro mondo: siamo costantemente controllati, messi alla prova, valutati, giudicati nei più piccoli dettagli della vita quotidiana. E il paradosso è che siamo proprio noi – i sorvegliati – a fornire il più grande volume di informazioni personali, caricando contenuti sui social network, usando la nostra carta di credito, facendo acquisti e ricerche on line. Questo perché il bisogno di salvaguardare la nostra solitudine ha ceduto il posto alla speranza di non essere mai più soli e la gioia di essere notati ha avuto la meglio sulla paura di essere scoperti e incasellati. “Oggi i professionisti del controllo sono molto diversi dai sorveglianti vecchio stile che vigilavano sulla monotonia di una routine vincolante. Piuttosto, si dedicano a dare la caccia agli schemi estremamente volatili dei desideri e dei comportamenti ispirati da quei desideri.” La collaborazione volontaria, anzi entusiastica, dei manipolati è la loro grande risorsa. Gli autori si confrontano con un tema che ogni giorno di più acquista potere sulle nostre vite: cosa significa essere osservati e di continuo osservare e con quali conseguenze politiche e morali.



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Opera pubblicata nel 2013, prima della pandemia globale del Coronavirus CoVid-19

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Indice

- Prefazione

- Introduzione
- - Sorveglianza liquida?
- - Pensa liquido!
- - La nostra conversazione

- 1. Droni e “social media”

- 2. La sorveglianza liquida come sistema post-panottico

- 3. Distanza, distacco e automazione

- 4. (In)sicurezza e sorveglianza

- 5. Consumismo, nuovi “media” e selezione sociale

- 6. La sorveglianza al vaglio dell’etica

- 7. Slancio d’azione e speranza


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Prefazione

La sorveglianza fa sempre più spesso notizia, e ciò rispecchia la sua rapida ascesa in molti ambiti di vita. Ma in realtà essa si espande silenziosamente da decenni ed è una caratteristica fondamentale del mondo moderno. Poiché quel mondo si trasforma da una generazione all’altra, anche la fisionomia della sorveglianza cambia costantemente. Oggi le società moderne appaiono talmente fluide che si può dire si trovino in una fase “liquida”. Cittadini, lavoratori, consumatori e viaggiatori odierni, sempre in moto ma spesso privi di certezze e legami durevoli, apprendono che i loro movimenti sono controllati, filmati, monitorizzati, tracciati e localizzati. Anche la sorveglianza scivola a poco a poco in uno stato liquido.
In questo volume analizziamo, in forma di conversazione, fino a che punto la nozione di sorveglianza liquida possa essere di aiuto nel cogliere ciò che sta avvenendo in quel mondo di monitoraggio, tracciamento, pedinamento, selezione, controllo e sistematica osservazione che chiamiamo
sorveglianza. È questo il principale filo conduttore della nostra conversazione. Essa si confronta sia con i dibattiti storici sulla progettazione di sistemi panottici sia con gli sviluppi contemporanei di uno sguardo globalizzato che sembra non lasciare luoghi in cui nascondersi, e nello stesso tempo viene accolto con favore in quanto tale. Ma il nostro dialogo – cui diamo un contributo sostanzialmente paritario – si spinge a toccare grandi questioni che a volte vengono ignorate dai dibattiti sulla sorveglianza.

È dalla fine degli anni Settanta (o dall’inizio degli Ottanta, nessuno di noi due lo ricorda con esattezza) che siamo in contatto e occasionalmente discutiamo di nuove tecnologie, sorveglianza, sociologia e teoria sociale. Bauman ha continuato a utilizzare nell’ambito della sua opera la critica del Panopticon e dintorni, e ha incoraggiato Lyon a proseguire nella sua analisi della sorveglianza. Più recentemente, nel 2008, abbiamo preparato in modo coordinato due relazioni al convegno biennale della Surveillance Studies Network. L’intervento di Lyon è stato pubblicato nel numero di dicembre 2010 di “International Political Sociology” con il titolo Liquid surveillance: the contribution of Zygmunt Bauman’s work to surveillance studies, mentre quello di Bauman è inedito.
La nostra conversazione è avvenuta via email tra settembre e novembre 2011.



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Introduzione



La sorveglianza è una dimensione-chiave del mondo moderno, e nella maggior parte dei paesi le persone sono più che consapevoli della sua influenza. Nei luoghi pubblici le videocamere sono una presenza familiare, a Londra e New York come a New Delhi, Shangai e Rio de Janeiro. Chi viaggia in aereo, ovunque si trovi, sa di dover affrontare non solo il controllo passaporti tipico del secolo scorso ma anche nuovi congegni, come i bodyscanner e i rilevatori biometrici, moltiplicatisi a dismisura dopo l’11 settembre. Ma se queste apparecchiature hanno a che fare con la “sicurezza”, anche altri tipi di sorveglianza, collegati ad acquisti banali e di routine oppure all’accesso online o alla partecipazione ai social media, stanno diventando onnipresenti. Sono moltissimi i contesti – dagli acquisti via Internet all’accesso agli edifici – in cui dobbiamo mostrare documenti d’identità, inserire password e usare controlli in codice. E ogni giorno Google (come tutti gli altri motori di ricerca) prende nota delle nostre ricerche, che suggeriscono strategie di marketing personalizzate.

Che cosa significa tutto ciò in termini sociali, culturali, politici? Se partiamo semplicemente dalle nuove tecnologie o dagli aspetti normativi potremo farci forse un’idea della portata del fenomeno; ma riusciremo davvero a comprenderlo? Certamente, farsi un’idea dell’ampiezza e della rapida diffusione dell’elaborazione dei dati è essenziale se si vuole comprendere la portata della esasperazione della sorveglianza per quello che essa è, e scoprire chi ne subisce l’influenza in termini di possibilità e opportunità di vita stimolerà gli sforzi per imbrigliarla. Ma questa conversazione aspira a fare di più, a scavare più a fondo, a scandagliare le origini storiche – occidentali – della sorveglianza odierna e a porre interrogativi etici e politici sulla sua espansione.
La sorveglianza è da decenni un tema costante dell’opera di Zygmunt Bauman, e molte delle sue osservazioni sono, a mio avviso, di grande interesse per chi oggi intende capire il fenomeno e a reagire a quanto sta accadendo. Nel primo decennio del ventunesimo secolo la notorietà di Bauman è stata legata soprattutto alle sua riflessioni sull’avvento della “modernità liquida”, e qui esploriamo in che misura questa cornice possa aiutare a far luce sul ruolo contemporaneo della sorveglianza. Ma l’altro motivo conduttore dell’analisi di Bauman è l’attenzione per l’etica, soprattutto l’etica dell’Altro. Fino a che punto ci offre un limite di riferimento critico sulla sorveglianza odierna?

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Sorveglianza liquida?

L’espressione “sorveglianza liquida”, più che una definizione esauriente della sorveglianza, è soprattutto un orientamento, un modo di contestualizzarne gli sviluppi nella modernità fluida e inquietante di oggi. La sorveglianza tende a farsi liquida soprattutto nella sfera dei consumi. Nel momento in cui frammenti di dati personali estratti per un determinato scopo divengono facilmente utilizzabili per altri scopi, gli antichi punti di riferimento vengono meno. La sorveglianza si diffonde in modi fino ad ora impensabili, reagendo alla liquidità e contribuendo allo stesso tempo a riprodurla. Priva di un contenitore stabile, ma sballottata dalle esigenze di “sicurezza” e sollecitata con discrezione dal marketing insistente dei produttori di tecnologie, la sorveglianza dilaga ovunque. La nozione di modernità liquida di Bauman offre nuovi modi per inquadrarla, intuizioni acute e sorprendenti sui motivi per cui si sviluppa in queste direzioni e, al tempo stesso, idee proficue su come affrontarne e contrastarne gli effetti peggiori. Naturalmente questa è la mia visione della situazione. Come la pensi Bauman si chiarisce progressivamente nel corso delle nostre conversazioni.

Che la sorveglianza sia una dimensione centrale della modernità liquida è ampiamente assodato. Ma la modernità non conosce sosta. E dobbiamo anche porci una domanda: che genere di modernità? L’attuale situazione si può definire di “tarda” modernità, “post”-modernità o, come espressione più colorita, modernità “liquida”. Zygmunt Bauman sostiene che la modernità si sia liquefatta in modo nuovi e diversi (andando oltre l’intuizione di Marx ed Engels, risalente agli albori della modernità, secondo cui “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”). A tale riguardo due sono le caratteristiche che spiccano particolarmente.

Come primo punto, tutte le forme sociali si fondono in un tempo più breve di quello che occorre per forgiarne di nuove. Se esse non riescono a conservare le proprie sembianze o a solidificarsi in schemi di riferimento utili all’azione o alle strategie di vita umane, è perché hanno una data di scadenza ravvicinata. Ciò vale anche per la sorveglianza? Numerosi teorici hanno osservato come la sorveglianza, che un tempo appariva solida e stabile, sia diventata flessibile e mobile, diffondendosi e penetrando in molti ambiti di vita in cui in passato aveva un’influenza marginale.
È stato Gilles Deleuze a introdurre la nozione di “società del controllo”, in cui la sorveglianza non cresce come un albero – rigidamente, in senso verticale, come il Panopticon -, ma striscia come un’erba infestante [1]. Come osservando a tale proposito Haggerty ed Ericson, “l’assemblaggio sorvegliante” intercetta i flussi di quelli che si possono definire dati corporei, trasformandoli in data doubles (“sosia costituiti da dati”) estremamente fluidi e instabili [2]. Anche William Staples nota che la sorveglianza oggi si affaccia in culture “caratterizzate dalla frammentazione e dall’incertezza , visto che molti significati, simboli e istituzioni della vita moderna un-tempo-dati-per-scontati si dissolvono davanti ai nostri occhi” [3]. Ciò che è circoscritto, strutturato e stabile finisce così per liquefarsi.
Bauman concorda che il Panopticon era di fondamentale importanza come mezzo di controllo, impedendo il movimento tra i detenuti e favorendolo tra i loro custodi. Ma questi ultimi non potevano fare a meno di essere presenti e, inoltre, il progetto Panopticon era costoso. Esso mirava a facilitare il controllo attraverso una disposizione a semicerchio dei blocchi di celle, per consentire all’ “ispettore”, situato al centro e celato dietro uno schermo, di guardare in ogni cella rimanendo invisibile ai detenuti. Il mondo di oggi, dice Bauman, è post-panottico [4]. Gli ispettori possono essere sfuggenti e rifugiarsi in ambiti irraggiungibili. L’epoca del “reciproco coinvolgimento” è giunta al termine: ormai si apprezzano la mobilità e il nomadismo (almeno finché non riguardano i poveri o i senzatetto). Piccolo, leggero, veloce sono tutti sintomi di migliore: almeno nel mondo degli iPhone e degli iPad.
Ma il Panopticon non è che uno dei modelli di sorveglianza [5]. L’architettura delle tecnologie elettroniche, usate dalle mutevoli e mobili organizzazioni attuali per affermare il potere, rende in gran parte superflua l’architettura a base di muri e finestre (nonostante “firewall” e “finestre” virtuali) e permette di forme di controllo che mostrano volti diversi: oltre a essere prive di nessi evidenti con l’incarcerazione, hanno spesso le stesse caratteristiche flessibili e divertenti tipiche dell’intrattenimento e del consumismo. Il check-in si può fare con lo smartphone anziché all’aeroporto, ma richiede per sempre uno scambio internazionale di dati, tra cui il fondamentale PNR (Passenger Name Record) attribuito al momento della prenotazione (che potrebbe essere stata fatta essa pure da uno smartphone).
In questa visione disciplina e sicurezza sono davvero collegate, cosa che Foucault non aveva compreso. Egli insistè sulla loro separazione proprio nel momento in cui i loro collegamenti (elettronici) iniziavano a emergere più chiaramente. La sicurezza ha assunto le sembianze di un’attività orientata al futuro – nitidamente colta dal film e romanzo Minority Report (2002) – e si basa sulla sorveglianza, al fine di tenere sotto osservazione, mediante tecniche digitali e analisi statistiche, ciò che accadrà. Come sottolinea Didier Bigo, questa sicurezza opera tenendo traccia di “tutto ciò che si muove” (prodotti, informazioni, capitali, esseri umani) [6]. In tal modo la sorveglianza opera a una distanza che è sia spaziale che temporale e circola con fluidità con – e oltre – gli Stati-nazione, in un regno globalizzato. Rassicurazioni e riconoscimenti accompagnano quei gruppi mobili ai quali tali tecniche sono fatte apparire come “natura”; processi di profilazione e misure di esclusione aspettano invece i gruppi che hanno la “sfortuna” di essere etichettati come “sgraditi”.

Il secondo punto, legato al primo, è che potere e politica si stanno separando. Il potere esiste ormai nello spazio globale ed extraterritoriale, mentre la politica, che un tempo raccordava interessi individuali e pubblici, rimane locale e non è in grado di operare su scala planetaria. Senza controllo politico il potere diventa fonte di grande incertezza, mentre la politica appare irrilevante rispetto ai problemi e alle paure di tante persone. Il potere di sorveglianza esercitato da dipartimenti governativi, agenzie di polizia e aziende private rientra bene in questa descrizione. Persino le frontiere nazionali, che un tempo avevano un’ubicazione geografica (per quanto arbitraria), compaiono ora negli aeroporti, distanti dai “confini” del territorio e, cosa ancora più significativa, in database che potrebbero non trovarsi nemmeno più “nel” paese in questione [7].
Spingendo oltre questo esempio, il tema dei confini mutevoli è per molti fonte di grande incertezza. Sottoporsi ai controlli di sicurezza degli aeroporti è motivo di ansia, non sapendo esattamente in quale giurisdizione ci si trova o dove andranno a finire i propri dettagli personali, e ciò vale a maggior ragione quando si fa parte di una popolazione attenzionata. E se si è tanto “sfortunati” da essere fermati e scoprire che il proprio nome fa parte di una qualche no-fly list è noto quanto sia difficile sapere cosa fare. E al di là di quanto detto, ad esempio, attuare cambiamenti politici volti a semplificare i viaggi necessari è una sfida temeraria.
La liquefazione delle forme sociali e la separazione tra potere e politica sono due caratteristiche-chiave della modernità liquida che hanno evidenti attinenze con la sorveglianza, ma vale la pena di ricordare anche altri due collegamenti. Uno è il rapporto di reciprocità che intercorre tra nuovi media e fluidità delle relazioni. Mentre alcuni additano i nuovi mezzi di comunicazione come causa della frammentazione sociale, Bauman ritiene che sia vero anche il contrario. Egli ipotizza che i social media siano un prodotto della frammentazione sociale, e non solo (o non necessariamente) viceversa. Secondo Bauman il potere, nella modernità liquida, deve essere libro di circolare in modo fluido e (sempre il potere) reputa barriere, recinzioni, confini e posti di controllo come fastidi da superare o da aggirare, e le dense e solide reti di legami sociali, specialmente su base territoriale, come qualcosa che va eliminato. Per Bauman ciò che consente a tale potere di funzionare è soprattutto la fragilità dei legami sociali.
Quest’affermazione, applicata ai social media, appare controversa, perché molti attivisti vedono in tweet e messaggi un grande potenziale di solidarietà sociale e di organizzazione politica. Pensiamo al movimento Occupy Wall Street, alle vaste proteste del cosiddetto 99% contro i privilegi e il potere dell’1% nei paesi ricchi, o alla Primavera araba del 2011. Tuttavia, questa è un’area alla quale guardare con attenzione, non fosse altro per il motivo che è già sorvegliata. I social media dipendono, per la loro stessa esistenza, dal monitoraggio degli utenti e dalla vendita dei dati a terzi. Le possibilità di resistenza che offrono sono attraenti e per certi versi feconde, ma anche limitate, a causa sia della mancanza di risorse per stringere relazioni in un mondo che tende a liquefarsi, sia del fatto che all’interno dei social media il potere di sorveglianza è endemico e consequenziale.
L’ultimo collegamento da evidenziare in questa sede è che i tempi liquidi pongono sfide molto serie a chiunque intenda agire eticamente anche nel mondo della sorveglianza. Per Bauman il problema consiste nel riconoscimento dell’incertezza endemica di un moderno mondo liquido. E il suo atteggiamento preferito, che consiste nel rifiutare regole e norme ormai esanimi, si manifesta nell’accento sull’incontro vissuto con l’Altro. Il punto di partenza di Bauman è la comprensione della responsabilità per l’essere umano che è dinanzi a noi.
Qui l’etica della sorveglianza si trova alle prese con due grandi questioni. Una è l’allarmante tendenza all’ “adiaforizzazione”, come la chiama Bauman, che porta sistemi e processi a sganciarsi da qualsiasi considerazione orale [8]. “Non riguarda il mio dipartimento” è la tipica risposta burocratica alla questione se una valutazione o un giudizio ufficiale siano giusti o no. L’altro tema è che la sorveglianza ottimizza il processo dell’agire a distanza, separando una persona dalle conseguenze di un’azione. È così che, ad esempio, il controllo dei confini riesce ad apparire automatizzato, spassionato, anche quando porta a negare l’ingresso a una persona che chiede asilo perché ha il profilo etnico “sbagliato”, anche se rimandandola nel suo paese la si espone a rischi mortali.
Un’altra prospettiva sull’adiaforizzazione nella sorveglianza è il modo in cui i dati corporei (per esempio i parametri biometrici o il DNA) o attivati dal corpo (come quando si effettua un login, si usa un access card, o si mostrano i documenti d’identità) confluiscono in database per essere elaborati, analizzati e concatenati ad altri dati e poi restituiti sotto forma di data double. Le informazioni che fanno le veci di una persona sono composte da “dati personali” solo nel senso che nascono insieme al corpo di una persona e possono influenzarne le possibilità e le scelte di vita. La tendenza è quella di fidarsi del duplicato di una persona, ricavato pezzo dopo pezzo dai suoi dati, ancor più della persona stessa, che preferisce invece raccontare la propria storia. I progettisti software sostengono che loro non fanno altro che “lavorare con i dati”, svolgendo un ruolo “moralmente neutro”, e definiscono le loro valutazioni e discriminazioni semplicemente “razionali” [9].

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Pensa liquido!

In che misura, dunque, la nozione di modernità liquida – e di sorveglianza liquida – può aiutarci a cogliere ciò che avviene in quel mondo di monitoraggio, tracciamento, pedinamento, selezione, controllo e sistematica osservazione che è la sorveglianza? La risposta più semplice si condensa in una sola parola: “contesto”. È facile interpretare la diffusione della sorveglianza come fenomeno tecnologico o come qualcosa che ha a che fare con il “controllo sociale” e con il “Grande Fratello”. Ma questo scarica tutto il peso sugli strumenti e sui tiranni, e ignora lo spirito che anima la sorveglianza, le ideologie che la sospingono, gli eventi che le offrono un’opportunità e la gente comune che si adegua ad essa, l’esamina e decide che, se non può sconfiggerla, le conviene stare al gioco.
Le interpretazioni più popolari della sorveglianza riconoscono in questi sviluppi la marcia sempre più rapida della tecnologia, che colonizza ambiti sempre nuovi e lascia intatto un numero sempre più piccolo di aree “autoctone” di vita “privata”. È così che dall’onnipresente codice a barre, che individua i tipo e la fabbrica di provenienza di varie categorie di prodotti, arriviamo al chip per l’identificazione a radiofrequenza (Rfid, Radio Frequency Identification) che offrono identificativi unici per ogni singolo prodotto, e non solo. Gli Rfid sono usati anche per i passaporti e per l’abbigliamento, e i dati che emettono possono essere facilmente agganciati a quelli di chi li porta con sé o li indossa. Allo stesso tempo altri dispositivi, come i codici QR (Quick Response), quadratini pieni di simboli che possono essere scansionati con uno smartphone, compaiono su tanti prodotti, cartelli, e, sì, anche capi di abbigliamento (pur essendo nati anch’essi dalla pressione a velocizzare al massimo le catene di distribuzione). Tutto quello che dovete fare è indossare un braccialetto di silicone con un codice QR come se fosse un accessorio alla moda e sussurrare a qualcuno: “Scansionami”. Il codice condurrà a una pagina web con i riferimenti per contattarvi, indirizzo sui social media e tutto il resto: siete diventati degli hyperlink umani.

Chi viveva nel mondo della modernità “solida” avrebbe visto, e forse calorosamente approvato, l’idea di codici a barre come una modalità efficiente per gestire l’inventario. L’avrebbe considerata una razionalizzazione burocratica perfettamente condensata in un congegno tecnologico. Ma la targhetta Rfid parla di un modo in cui non basta dedicare attenzione alla classificazione e alla vendita dei prodotti, ma occorre anche scoprire esattamente dove si trovano in un dato momento, nel quadro di un regime di gestione just-in-time. Un semplice inventario è uno spreco: c’è bisogno di quello che i giapponesi chiamano kanban per verificare se la cosa giusta si trova nel posto giusto al momento giusto. Non sorprende affatto che l’idea si presti tanto bene a essere applicata al mondo della sicurezza!

Ma mentre nel mondo solido-moderno alcuni avrebbero approvato l’idea di conoscere i dettagli personali per garantire che le persone giuste siano al posto giusto nel momento giusto, chi avrebbe mai potuto immaginare (nel mondo solido-moderno) che simili dettagli avrebbero finito per essere volentieri reclamizzati a tutti indistintamente? Mentre l’Rfid si applica in situazioni in cui occorre un flusso continuo di dati, le nuove applicazioni QR si rivolgono a un mondo in cui le persone sono attivamente coinvolte nella condivisione dei dati. L’Rfid controlla ad esempio i flussi di frontiera, filtrandoli per permettere un facile passaggio di alcune merci e persone e non di altre. Il nuovo QR, invece, pur essendo ancora una forma di sorveglianza, si propone di minimizzare gli attriti del consumo condividendo liberamente informazioni su eventi, opportunità e persone. Il suo appeal è un riflesso del contesto liquido-moderno.

Che dire allora della questione del controllo sociale, del “Grande fratello” di George Orwell? Se la sorveglianza non ha soltanto a che vedere con il dominio crescente delle nuove tecnologie, non riguarda forse il modo in cui è distribuito il potere? La metafora-chiave della sorveglianza, almeno nel mondo occidentale, è sicuramente il “Grande fratello”. Questa espressione si riferisce a una situazione in cui la gestione del governo si concentra nelle mani di una sola persona o di un solo partito e usa l’apparato amministrativo, con i suoi archivi e i suoi dati, come mezzo per procurarsi un controllo totale. Come ho affermato in un’altra occasione, in 1984 di Orwell, “che dopo la Seconda guerra mondiale aveva un senso di monito su potenziale totalitario delle democrazie occidentali, lo Stato è ormai patologicamente tutt’uno con il proprio potere ed è intimamente coinvolto nel controllo quotidiano della vita dei suoi cittadini” [10].
Ma, oltre alla metafora, per quanto persuasiva, di Orwell (e al suo impegno a favore della “decenza” umana, che per lui rappresentava l’antidoto), ce ne sono anche altre. La descrizione che Franz Kafka fa delle forze oscure che lasciano nell’incertezza (chi sa cosa di te? Come ti riconoscono? E come ti influenzerà questa conoscenza?) è forse quella che nell’attuale mondo fatto di banche dati più si avvicina al bersaglio (come hanno sostenuto Daniel Solove e altri [11]) ma, a differenza della metafora di Orwell, è ancora concentrata sui poteri statali. Una metafora leggermente più antica si deve al riformatore utilitarista delle carceri inglesi, Jeremy Bentham, e porta il nome di “Panopticon”, ricavato dal greco, che sta per “posto che lascia vedere tutto”. Ma quella di Bentham non era narrativa: era un progetto, un diagramma, un disegno architettonico e, soprattutto, aspirava a diventare “architettura morale”, ricetta per rifare il mondo.
Il postulato del Panopticon è quello che in maniera più profonda rappresenta il collegamento tra il mondo degli studi e la sorveglianza: non solo per via di Bentham, ma anche di Michel Foucault, che a metà del secolo scorso vide nel Panopticon l’elemento centrale di quella che Bauman chiama modernità solida. L’attenzione di Foucault era concentrata sulla disciplina panottica, sull’ “addestramento delle anime” volto a produrre lavoratori compiacenti. Secondo Bauman, Foucault usa il Panopticon come “metafora chiave del potere moderno”. I detenuti che vi erano rinchiusi “non potevano muoversi perché erano sotto stretta osservazione; dovevano restare fermi al posto loro assegnato ventiquattr’ore al giorno perché non sapevano, né avevano modo di sapere, dove si trovassero in un determinato momento i loro custodi, che godevano di piena libertà di movimento” [12]. Oggi però una simile rigida fissità si è dissolta e (a prescindere se questa fase della modernità possa o no essere definita “liquida”) “essa è anche, e forse soprattutto, post-panottica”. Se allora si poteva presumere che l’ispettore del Panopticon da qualche parte fosse presente, nei rapporti di potere di oggi “chi detiene le leve del comando può fuggire in qualsiasi momento e diventare imprendibile” [13].

Sia Bauman che io pensiamo (anche se non necessariamente per gli stessi motivi) che molto dipenda da ciò che ne è stato del Panopticon, e il nostro progetto intende anche evidenziare le implicazioni pratiche più urgenti di quello che a qualcuno potrebbe apparire un astratto dibattito accademico. Come l’espressione “Grande fratello” continua a catturare l’immaginazione di chi è insofferente verso poteri statali dispotici, così la descrizione del Panopticon ci dice molto su come opera la sorveglianza nel ventunesimo secolo. Se Bauman ha ragione, sull’epoca del reciproco coinvolgimento – che vedeva fronteggiarsi gestori e gestiti – è ormai calato il sipario: il nuovo film è un dramma ben più elusivo in cui “il potere può muoversi alla velocità di un segnale elettronico” [14].

Ciò pone sfide enormi. Per dirla in termini semplici, le nuove prassi di sorveglianza che si basano più sull’elaborazione di informazioni che sui discorsi cui pensava Foucault [15], permettono una nuova trasparenza in cui non solo i cittadini ma tutti noi, in tutta la gamma di ruoli che impersoniamo nella nostra vita quotidiana, siamo costantemente controllati, osservati, messi alla prova, soppesati, valutati e giudicati – e tutto questo senza alcuna possibilità di reciprocità. Mentre i dettagli della nostra vita quotidiana diventano trasparenti per le organizzazioni che ci sorvegliano, le loro attività sono sempre più difficili da riconoscere. Nel contesto fluido della modernità liquida il potere si sposta alla velocità dei segnali elettronici, e la trasprenza aumenta per alcuni e nello stesso tempo diminuisce per altri.

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ULTIMO AGGIORNAMENTO: 18-04-2020