24/7
Il capitalismo all’assalto del sonno
Aperto 24 ore su 24, 7 giorni su 7, è il mantra del capitalismo contemporaneo. È l’ideale di una vita senza pause, attiva in qualsiasi momento del giorno o della notte, in una sorta di condizione di veglia globale. Viviamo in un non tempo interminabile che offusca ogni separazione tra un intenso e ubiquo consumismo e le strategie di controllo e sorveglianza. “24/7” delinea questo processo di erosione del tempo: un adulto di oggi dorme sei ore e mezzo per notte in media, contro le otto della generazione precedente e le dieci dei primi anni del XX secolo. Sembra impossibile non lavorare, mangiare, giocare, chattare o twittare lungo l’intero arco della giornata, non c’è momento della vita che sia realmente libero. “24/7” è una riflessione teorica, che combina riferimenti filosofici, analisi di film, opere d’arte, esperimenti scientifico-militari e romanzi, per dar vita ad un’antropologia critica della contemporaneità. La sua conclusione, tanto rivoluzionaria quanto inattesa, si potrebbe riassumere cosi: “Lavoratori di tutto il mondo, Riposatevi!”
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Indice
- Capitolo quarto
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O
pur riduciamo a spauracchio il giorno,
miscuglio e non finita
cosa il mondo.
W. H. AUDEN
Come è noto a chiunque abbia vissuto sulla costa occidentale del Nord America, i volatili delle più varie specie annualmente compiono, su quel versante della piattaforma continentale, vaste migrazioni stagionali, spostandosi su tragitti di lunghezza variabile, da sud a nord e viceversa. Fra gli altri, il passero dalla corona bianca, che in autunno scende dall’Alaska fino al Messico settentrionale, per poi fare ritorno a nord in primavera. Questa particolare specie possiede una capacità decisamente insolita che la distingue dalla maggioranza degli altri uccelli, quella di rimanere in stato di veglia per un’intera settimana durante la migrazione. Grazie a questo comportamento stagionale, di notte il passero dalla corona bianca è in grado di volare seguendo la rotta, mentre di giorno può dedicarsi alla ricerca del cibo, senza alcun bisogno di riposarsi. Nell’ultimo lustro, il Dipartimento della Difesa americano ha investito notevoli somme di denaro nello studio di queste singolari creature. Molti ricercatori di varie università, in particolare quella di Madison, nel Wisconsin, grazie ai finanziamenti governativi hanno analizzato l’attività cerebrale di questi volatili durante i loro lunghi periodi di insonnia, sperando di ricavarne conoscenze applicabili agli esseri umani. Scopo della ricerca è scoprire in che modo sia possibile un’astensione completa dal sonno e al contempo un funzionamento produttivo ed efficiente. Il primo obiettivo sarebbe niente meno che la creazione di un nuovo prototipo di soldato libero dal bisogno di dormire, per cui la ricerca sul passero dalla corona bianca non è che una parte del più ampio tentativo in atto da parte delle forze armate di ottenere una forma di controllo, per quanto limitato, sul sonno umano. Seguendo l’iniziativa dell’Agenzia per le ricerche avanzate del Pentagono (la DARPA) [1], i ricercatori di varie accademie stanno attualmente conducendo test sperimentali su una varietà di tecniche antisonno, che spaziano dagli interventi neurochimici alla terapia genica alla stimolazione magnetica transcranica. Si intende mettere a punto nel breve termine un metodo che consenta ai soldati in azione un’astensione dal sonno della durata minima di una settimana e, a lungo termine, di quindici giorni, senza con ciò pregiudicare i livelli di prestazione mentale e fisica. I mezzi oggi in uso per procurarsi uno stato di insonnia efficiente comportano invariabilmente sintomi collaterali dannosi sul piano sia cognitivo che psichico (a cominciare da una diminuzione dei livelli di vigilanza mentale). Se ne è avuto ampio riscontro nell’utilizzo assai diffuso di anfetamine in quasi tutti i conflitti bellici del XX secolo e, in quelle più recenti, di sostanze come il Provigil. La ricerca scientifica attuale non ha più come obiettivo solo la stimolazione di uno stato di veglia, quanto piuttosto LA RIDUZIONE DEL SONNO COME BISOGNO NATURALE DEL CORPO UMANO.
Per
oltre due decenni, nelle forze armate americane è prevalsa la
scelta strategica e organizzativa di eliminare l’intervento
umano in molti settori del sistema di comando, controllo ed
esecuzione. Voci di spesa che non compaiono nei bilanci ufficiali, di
molti miliardi di dollari, vengono dedicate allo sviluppo di nuovi
sistemi elettronici di puntamento e di altri mezzi telecomandati,
utilizzati nei modi più sconcertanti in Pakistan, in
Afghanistan e in altri paesi. Comunque, malgrado gli sperticati elogi
per questi nuovi modelli di armi e l’idea ormai radicata negli
analisti militari per cui il soggetto umano è un’anomalia,
ovvero il “collo di bottiglia”, nell’operatività
dei sistemi più avanzati, il bisogno da parte delle forze
armate di grandi masse di uomini non è certo destinato a venir
meno in nessuno degli scenari ipotizzabili per il prossimo futuro.
Gli studi sull’insonnia efficiente si inseriscono quindi
in un programma che mira alla creazione di un nuovo genere di
soldato, le cui capacità fisiche dovranno adeguarsi in misura
sempre maggiore al funzionamento di un’organizzazione retta da
reti e apparati non umani. È in atto uno sforzo cospicuo, in
ambito scientifico-militare, per ottenere forme di “cognizione
aumentata”, in grado di migliorare in diversi modi
l’interazione uomo-macchina.
Nello stesso tempo, la
Difesa ha finanziato molti altri progetti di ricerca nel campo delle
neuroscienze, per esempio lo sviluppo di un farmaco che potrebbe
inibire la reazione emotiva della paura. Nelle circostanze in cui
l’opzione del drone armato di missili non fosse attuabile,
l’idea è quella di ricorrere a squadroni della morte,
composti da incursori resistenti al sonno e immuni alla paura, pronti
a missioni dalla durata indefinita. È nel contesto di questa
sperimentazione che i passeri dalla corona bianca sono stati
prelevati dall’ecosistema della costa del Pacifico, dove
compiono i consueti percorsi stagionali, affinché diano il
loro contributo al tentativo di imporre al corpo umano schemi
artificiali di temporalità e di prestazione efficiente. Come
la storia insegna, le innovazioni in campo militare vengono poi
inevitabilmente assimilate in una sfera sociale più ampia, per
cui il soldato a prova di sonno è l’antesignano del
lavoratore o del consumatore immuni al sonno. I farmaci contro il
sonno, opportunamente presentati attraverso martellanti campagne
pubblicitarie, diventerebbero in prima battuta un’opzione
legata a un particolare stile di vita per poi tramutarsi, infine, in
un’esigenza imprescindibile per grandi masse di persone.
I sistemi di mercato 24/7 e un’infrastruttura globale concepita per forme di produzione e consumo senza limiti sono già una realtà da tempo, ma ora si tratta di costruire un soggetto umano che possa adeguarvisi in modo sempre più completo.
Verso
la fine degli anni Novanta, è stato abbozzato un progetto da
parte di un consorzio Russia – Unione Europea, che prevedeva
l’allestimento e la messa in orbita di stazioni spaziali capaci
di deviare la luce del sole verso il suolo terrestre. L’idea
era quella di far viaggiare un’intera catena di satelliti in
orbite sincronizzate con il sole, a 17.000 metri di quota, dotandoli
di riflettori parabolici pieghevoli, fatti di materiale ultrasottile.
Una volta raggiunta la piena estensione, pari a 200 metri di
diametro, ogni satellite-specchio sarebbe stato in grado di
illuminare un’area della Terra di sedici chilometri quadrati,
con un’intensità quasi cento volte superiore a quella
del chiaro di luna. La motivazione iniziale del progetto era quella
di fornire l’illuminazione necessaria allo sfruttamento di
risorse naturali e industriali situate in zone remote, nelle lunghe
notti polari della Siberia e della Russia occidentale, affinché
si potesse evitare di interrompere la produzione a cielo aperto.
L’impresa, però, in seguito ha ampliato il progetto,
offrendo la possibilità di illuminare intere aree urbane.
Considerando che grazie a questa ipotesi sarebbe possibile ridurre i
costi energetici dovuti all’uso della luce elettrica, l’impresa
ha lanciato i propri servizi con lo slogan: “La luce del
giorno, tutta la notte”.
Il progetto ha ricevuto un’aspra
contestazione, immediata e generalizzata. La comunità
scientifica vi si è opposta per via delle eventuali
conseguenze sull’osservazione astronomica da terra. Studiosi e
ambientalisti hanno segnalato i possibili danni fisiologici sia sugli
animali sia sugli esseri umani, dal momento che la scomparsa di una
regolare alternanza fra la notte e il giorno causerebbe disturbi ai
vari cicli metabolici, compreso quello del sonno. Dure obiezioni sono
state sollevate anche da associazioni di ispirazione filosofica e
umanitaria, per le quali la visione del cielo notturno è un
bene comune, che non può venir negato ad alcun essere umano, e
la libertà di esperire il buoi e osservare le stelle
rappresenta un diritto umano fondamentale che nessuna azienda può
violare. In ogni caso, sia esso un diritto oppure un privilegio, di
fatto viene già violato, per oltre metà della
popolazione mondiale, in città che sono pervase da una mezza
luce perenne, un misto di smog e di illuminazione ad alta intensità.
La replica dei sostenitori del progetto, tuttavia, è stata che
di notte una tecnologia come questa permetterebbe un consumo di gran
lunga inferiore di elettricità e che la perdita del cielo
stellato nel buoi notturno non sarebbe che un piccolo prezzo da
pagare a fronte di una riduzione del consumo globale di energia.
Comunque, un’iniziativa simile, rivelatasi in fin dei conti
irrealizzabile, ci offre un significativo esempio dell’immaginario
contemporaneo in cui uno stato di illuminazione permanente è
inseparabile dal funzionamento incessante dello scambio e della
circolazione globali. Nel suo eccesso imprenditoriale, il progetto è
l’espressione iperbolica di un’intolleranza istituzionale
per qualunque tentativo di oscurare o impedire un condizione di
visibilità automatica e infinita.
La privazione del sonno è stata una delle forme di tortura inflitte alle numerose vittime di cattura e trasferimento extragiudiziale e ad altre persone arrestate a partire dal 2001. I fatti occorsi a un singolo detenuto sono diventati di pubblico dominio, ma il trattamento riservatogli non è diverso dalla sorte patita da centinaia di altri, i cui casi sono meno noti. Mohammed al-Qahtani è stato torturato in base alle istruzioni dettagliate di quel che oggi conosciamo come il “First Special Interrogation Plan” del Pentagono, autorizzato da Donald Rumsfeld (segretario della Difesa statunitense sotto la presidenza di George W. Bush). Egli è stato privato quasi totalmente del sonno in un arco di tempo di due mesi ed è stato sottoposto ad interrogatori che duravano spesso venti ore ciascuno. Rinchiuso in una minuscola cella, è stato costretto a rimanere sempre in piedi alla luce di lampade ad alta intensità, mentre veniva riprodotta musica a volume estremamente alto. Nella comunità dell’intelligence militare mentre i luoghi di detenzione come questo sono denominati “Dark Sites”, sebbene uno di quelli in cui è stato trasferito al-Qahtani fosse noto in codice come “Camp Bright Lights”. Non è la prima volta che la privazione del sonno viene usata dagli americani o dalle forze che li sostengono. In qualche modo, può risultare fuorviante mettere in risalto questa pratica specifica perché, per Mohammed al-Qahtani e molti altri, la privazione del sonno non era che una piccola parte di una trafila più ampia, che prevedeva percosse, umiliazioni di vario genere, periodi di segregazione e annegamenti simulati. Molti di questi “programmi” per prigionieri extragiudiziali erano il frutto di una progettazione ad hoc da gruppi di psicologi esperti e consulenti di scienze del comportamento, in base alle fragilità psicofisiche individuali effettuate.
La
pratica della privazione del sonno come strumento di tortura è
antica, ma il suo utilizzo sistematico comincia a partire dal momento
storico in cui è sorta la disponibilità
dell’illuminazione elettrica e dei sistemi di amplificazione
del suono. Praticata abitualmente dalla polizia di Stalin negli anni
Trenta, la privazione del sonno di solito era la prima parte di
quello che i torturatori della NKVD (polizia segreta dell’Unione
Sovietica) chiamavano il “nastro trasportatore”, una
sequela strutturata di atrocità e violenze gratuite atte a
provocare nelle vittime danni permanenti. Il primo effetto, dopo un
periodo di tempo relativamente breve, è la psicosi; dopo molte
settimane si presentavano gravi danni neurologici. Perché
sopraggiunga la morte, nel caso delle cavie da laboratorio sono
sufficienti quindici o venti giorni di insonnia. La vittima si
trovava in una condizione di totale impotenza e di completa
sottomissione, per cui diventa impossibile ottenerne informazioni
attendibili, dal momento che si sarà disposti a confessare o a
inventarsi qualsiasi cosa. La negazione del sonno diventa allora un
attacco violento all’integrità psicofisica di una
persona da parte di una forza esterna, una vera e propria distruzione
calcolata della sua personalità.
Sicuramente gli Stati
Uniti sono stati a lungo coinvolti nella pratica della tortura, sia
in prima persona che attraverso regimi clientelari, ma è
particolarmente degna di nota, nella nostra epoca post-11 settembre,
la sua acritica ricollocazione, in piena luce, sulla pubblica
ribalta, come se fosse un argomento di cui vagliare i pro e i contro
al pari di qualunque altro. Numerosi sondaggi indicano che in
relazione a determinate situazioni la maggioranza dei cittadini
americani si esprime a favore della tortura. Nelle discussioni sui
principali media viene regolarmente negato che il concetto della
privazione del sonno sia una forma di tortura. Essa diventa,
piuttosto, un particolare caso di pressione psicologica, accettabile
agli occhi di molti quanto può esserlo l’alimentazione
forzata per i detenuti in sciopero della fame. Come riportato nel
libro di Jane Mayer, “The Dark Side”, la cinica
motivazione nei documenti del Pentagono è che gli uomini delle
unità speciali della Marina americana sono spesso impegnati in
missioni simulate in cui è richiesto loro di non dormire per
due giorni di fila [2]. va notato come il trattamento dei cosiddetti
“detenuti di alto livello” a Guantanamo e in altri siti
sia basato sulla combinazione tra forme di tortura vere e proprie e
un totale controllo sull’esperienza sensoriale e percettiva. I
detenuti sono obbligati a vivere in celle illuminate esclusivamente
da luce artificiale costantemente accesa, con bende sugli occhi e
tappi nelle orecchie, che impediscono loro di vedere e di udire
alcunché in caso vengano scortati all’esterno, affinché
sia loro impossibile formarsi una nozione del giorno e della notte o
avere un indizio qualsiasi sull’ambiente circostante. Questo
regime di deprivazione sensoriale spesso include i normali contatti
quotidiani con i soldati di guardia, che vestono in assetto completo,
con tanto di guanti ed elmetti provvisti di visori schermati, in modo
che al detenuto sia negato il benché minimo contatto visivo
con un volto o con porzioni di pelle esposta di un altro essere
umano. Si tratta di tecniche e procedure concepite per creare
un’umiliante condizione di asservimento e ciò accade, a
un certo livello, attraverso la costruzione di una realtà che
esclude nel modo più completo la possibilità di
usufruire della benché minima forma di attenzione, di
protezione o di conforto.
Questa
particolare costellazione di eventi ci offre una prospettiva
privilegiata, come in un prisma, su alcuni dei numerosi effetti sia
della globalizzazione neoliberista, sia di altri processi, di più
lunga durata, messi in atto dalla modernizzazione del mondo
occidentale. Non voglio assegnare a questo insieme alcun particolare
valore esplicativo; esso costituisce piuttosto un introduzione
provvisoria ad alcuni paradossi che segnano il mondo della vita in
continua e illimitata espansione del capitalismo del XXI secolo.
Paradossi che sono strettamente collegati alle mutevoli
configurazioni del sonno e della veglia, dell’illuminazione e
dell’oscurità, della giustizia e del terrore, nonché
a diverse forme di esposizione, di inerme disponibilità e
fragilità. Si potrebbe obiettare che i fenomeni cui facciamo
cenno siano eccezionali o estremi ma, se anche così fosse, non
sono del tutto estranei a quelle che sono diventate traiettorie
normative e condizioni di vita osservabili anche in altri contesti.
Una di tali condizioni può essere caratterizzata come
l’inquadramento generalizzato della vita umana in una durata
senza interruzioni, contraddistinta da un principio di operatività
incessante. Si tratta di un tempo che, avendo superato i limiti del
tempo orario, è in effetti diventato immobile.
Dietro
la vacuità del facile slogan, il 24/7 rappresenta una forma di
sovrabbondanza statica che rinnega ogni legame con il tessuto di
ritmi e scansioni periodiche dell’esistenza umana. È
basato su uno schema rigido e arbitrario – quello della singola
settimana – utilizzato a prescindere da qualsiasi idea di
svolgimento vitale o progressivo dell’esperienza.
Un’espressione come “24/365”, per esempio, non
riveste il medesimo significato, dato che implica lo scomodo
riferimento a una temporalità prolungata, in cui un
cambiamento in effetti potrebbe accadere e alcunché di
imprevisto potrebbe aver luogo. Come si è detto all’inizio,
molte istituzioni del mondo sviluppato sono già operative 24/7
ormai da alcuni decenni. È solo di recente, invece, che vi è
stata una riorganizzazione dei modi in cui avviene la costruzione
dell’identità personale e sociale di ciascuno, al fine
di ottenere un adeguamento completo alle attività incessanti
dei mercati, delle reti informatiche e dei sistemi consimili. Un
ambiente 24/7 ha solo le sembianze di una società vera e
propria, ma in realtà rappresenta un modello non sociale di
performance automatiche e una sospensione dell’esistenza che
dissimula i costi umani necessari a sostenerne il funzionamento. Esso
va nettamente distinto da ciò che, all’inizio del XX
secolo, Lukàcs e altri autori identificavano come il tempo
desolatamente omogeneo della modernità, ovvero il tempo
rigidamente scandito dall’agenda degli Stati o dal mondo
finanziario e industriale, da cui era bandita ogni possibilità
per le speranze e per i progetti dei singoli individui. La sua
particolarità è l’abbandono definitivo della
pretesa che il corso del tempo sia legato a una qualsiasi iniziativa
a lungo termine, anche all’illusione stessa di “progresso”
o di sviluppo.
Il 24/7 rappresenta il tempo
dell’indifferenziato, davanti al quale la fragilità
della vita umana non ha difese e in cui il sonno non ha una propria
necessità o inevitabilità. Per quanto riguarda il
lavoro, diventa plausibile – se non normale – l’idea
di un impegno ininterrotto, al di là di ogni limite.
L’espressione si adatta a qualcosa che è senza vita,
totalmente inerte, immune da ogni processo di invecchiamento. Con la
baldanza di un’esortazione pubblicitaria, essa proclama
l’offerta di una disponibilità assoluta e quindi
l’insorgere incessante di sempre nuovi bisogni e la loro
continua sollecitazione, ma anche la perenne impossibilità di
un loro completo e definitivo appagamento. La mancanza di qualsiasi
vincolo ai consumi non riguarda semplicemente l’ordine
temporale. È ormai trascorsa l’epoca in cui contava
soprattutto l’accumulazione di oggetti. Ora i nostri corpi e le
nostre personalità assimilano soprattutto una mole in continua
espansione di servizi, immagini, procedure, sostanze chimiche, fino a
livelli di tossicità che spesso si rivelano fatali. La
sopravvivenza a lungo termine del singolo individuo è sempre
sacrificabile in caso debba comportare, anche indirettamente, la
possibilità che gli acquisti o la loro promozione vengano
interrotti. Allo stesso modo, il 24/7 è strettamente
correlato alla catastrofe ambientale, nel suo appello alla spesa
permanente e all’incessante spreco funzionale al suo
sostentamento, nella sua mortale distruzione dei cicli naturali e
della stagionalità da cui dipende l’equilibrio degli
ecosistemi.
Del tutto inutile ed essenzialmente passivo, con
tutte le incalcolabili perdite che comporta nei tempi di produzione,
di circolazione e di consumo, il sonno è destinato a entrare
in netto contrasto con le esigenze di un universo 24/7. L’enorme
quantità di tempo che trascorriamo dormendo, affrancati da
quella paludosa congerie di bisogni artefatti, rappresenta uno dei
grandi atti di oltraggiosa resistenza dagli esseri umani alla
voracità del capitalismo contemporaneo. Il sonno interrompe
risolutamente il furto di tempo che il sistema capitalistico compie
ai nostri danni. La maggior parte delle necessità
apparentemente fondamentali della vita umana – dalla fame alla
sete all’impulso sessuale, al bisogno, più recente, di
amicizia – sono state riproposte in versioni mercificate o
finanziarizzate. Il sonno pone il problema di un bisogno umano che si
può soddisfare solo in un certo intervallo di tempo e non può
quindi essere asservito e aggiogato a una macchina per fare profitti,
offrendosi così come un’incongrua eccezione, una vera e
propria area di crisi nell’ambito dell’attuale
globalizzazione. Malgrado tutta la ricerca scientifica svolta nel
settore, rimane una realtà che confonde e vanifica qualunque
ipotesi di sfruttamento o di ristrutturazione strategica nei suoi
confronti. Per quanto sconvolgente e inconcepibile sia, la verità
è che non se ne può estrarre alcunché di valore.
Non desta meraviglia che nella nostra epoca, in ogni parte del mondo, a causa dei livelli assai elevati di competizione economica, sia in atto una vera e propria erosione del tempo dedicato al sonno. Nel corso del XX secolo, l’offensiva è stata costante, dal momento che, a fronte delle (oggi inconcepibili) dieci ore di sonno dei primi del Novecento e delle otto di qualche decennio fa, oggi un americano medio in età adulta dorme in media circa sei ore e mezzo per notte. Alla metà del secolo scorso, il detto corrente che “un terzo della vita si dorme”, la cui evidenza sembrava inattaccabile, viene costantemente messo in discussione. Il sonno è una traccia, per quanto invisibile, onnipervasiva delle condizioni di vita premoderne – l’universo del mondo agricolo – mai del tutto superate e che ormai da quattro secoli sono in via di sparizione. La sua scandalosa presenza si deve al fatto che la nostra vita è radicalmente condizionata dalla periodica alternanza fra il buoi della notte e la luce del sole, fra le nostre attività diurne e il momento del riposo, fra le ore lavorative e quelle del recupero, un’alternanza che altrove è stata cancellata o neutralizzata. Quella del sonno è naturalmente una storia complessa, come quella di qualunque altro fenomeno solo in apparenza esclusivamente naturale. Non si è mai trattato di una realtà prova di sfaccettature o eternamente identica a se stessa, poiché nel corso dei secoli e dei millenni ha assunto le forme più diverse a seconda del modello culturale di riferimento. Negli anni Trenta, Marcel Mauss includeva sia il sonno che la veglia nei suoi studi sulle “tecniche del corpo”, in cui metteva in risalto come diverse modalità di comportamento, apparentemente istintive, in realtà sono frutto di un apprendimento attuato in un’immensa varietà di modi, per imitazione oppure per educazione. Si può comunque affermare che, nel panorama delle società agricole premoderne, per quanto vasto ed eterogeneo, il modo di vivere il sonno era contraddistinto da caratteristiche fondamentali comuni.
Alla
metà del XVII secolo, il sonno cominciò a sganciarsi
dalla solida posizione che aveva occupato nel contesto ormai
anacronistico della cultura aristotelico-rinascimentale. Il suo
attrito con le nozioni moderne di produttività e razionalità
risultò per la prima volta evidente, tanto che Cartesio, Hume
e Locke erano solo alcuni dei filosofi che tendevano a screditarlo
per la sua irrilevanza nel funzionamento del pensiero o nella ricerca
della conoscenza. La sua svalutazione andava di pari passo con la
scelta di privilegiare le dimensioni della coscienza e della volontà,
nonché i principi dell’utilità, dell’obiettività
e dell’autodeterminazione del soggetto. Per Locke, il sonno,
per quanto indispensabile, rappresenta una deplorevole eccezione
nello sviluppo delle attitudini principali che Dio ha assegnato agli
uomini: l’operosità e la razionalità.
Nell’incipit del Trattato sulla natura umana di
Hume, il sonno viene accostato alla febbre e alla follia come un
esempio fra gli altri dei possibili ostacoli che impediscono la vera
conoscenza. A metà del XIX secolo, la relazione asimmetrica
tra il sonno e la veglia cominciò a essere strutturata in una
gerarchia concettuale, per cui il sonno rappresentava la regressione
a una condizione inferiore e primitiva, in cui l’attività
cerebrale più elevata e più complessa risultava
inibita. Schopenhauer è uno dei pochi pensatori che,
capovolgendo lo schema, abbiano invece ritenuto che nel sonno risieda
il “nocciolo” dell’esistenza umana.
Il
problema dello status del sonno è stato ricollegato in
vari modi alla particolare dinamica della modernità che ha
vanificato ogni organizzazione del mondo costruita su
contrapposizioni binarie. La spinta verso l’omologazione da
parte del capitalismo entra in contrasto con qualunque struttura
preesistente di differenziazione: sacro-profano,
carnevalesco-quotidiano, naturale-culturale, meccanico-organico, e
così via. Perciò, qualunque concezione del sonno come
fenomeno in qualche misura naturale diventa inammissibile.
Ovviamente, non sarà negata del tutto la possibilità di
dormire e persino le megalopoli più tentacolari avranno ancora
intervalli notturni di relativa inattività. Quella del sonno,
tuttavia, è ormai un’esperienza svincolata dalle nozioni
di necessità o di natura. Alla stregua di molte altre realtà,
invece, viene riconcettualizzata come funzione mutevole ma
amministrabile, la cui definizione può essere soltanto
strumentale e fisiologica. Secondo le più recenti statistiche,
il numero delle persone che si svegliano una o più volte a
notte per controllare la casella di posta elettronica o i propri dati
va aumentando in maniera esponenziale. Un’immagine
dall’apparenza incongrua ma comune è quella evocata
dall’espressione tecnologica della modalità di
sospensione del funzionamento indicata come “sleep mode”.
L’idea di un dispositivo in stato di utilizzabilità a
bassa energia attribuisce alla nozione più ampia di sonno il
significato di un’operatività o accessibilità
semplicemente differita o ridotta. Sostituisce l’alternativa
tra On e Off, di modo che nulla sia del tutto Off e non vi sia quindi
in alcuna occasione uno stato di riposo vero e proprio.
Il sonno rappresenta l’affermazione irrazionale e scandalosa che possono esserci dei limiti alla compatibilità degli esseri umani con le forze apparentemente irresistibili della modernizzazione. Uno dei luoghi comuni più consolidati del pensiero critico attuale è che non esistano dati naturali inalterabili (neppure la morte, secondo quanti prevedono, in un prossimo futuro, la possibilità di effettuare un download delle nostre menti nella dimensione dell’immortalità digitale). La credenza che gli esseri viventi siano diversi dalle macchine in virtù di particolari caratteristiche essenziali è – secondo gli studiosi più autorevoli – ingenua e illusoria. Perché mai essere contrari – per esempio – a nuove sostanze che potrebbero metterci in grado di lavorare fino a cento ore di seguito? Tempi più flessibili e ridotti da dedicare al sonno non potrebbero offrire una maggiore libertà personale, la capacità di gestire la propria vita con maggiore autonomia, secondo i propri bisogni e desideri? Dormire di meno non potrebbe dare maggiori occasioni di “vivere al massimo”? La replica più verosimile è che gli esseri umani sono fatti per dormire la notte, che il nostro corpo è adattato alla rotazione diurna del nostro pianeta e che il comportamento di quasi tutti gli organismi è condizionato dal ritmo del sole e da quello delle stagioni. A questo punto si verrebbe accusati di affermare deliranti sciocchezze New Age o, persino peggio, di indulgere nel cupo vagheggiamento di una “radicatezza” alla terra di stampo heideggeriano. Ma, soprattutto, secondo il modello della globalizzazione neoliberista, chi dorme è un perdente.
Nel XIX secolo, dopo una prima fase dell’industrializzazione in Europa in cui si erano verificati gli abusi più gravi ai danni dei lavoratori, i capi delle fabbriche giunsero alla conclusione che la scelta di concedere ai propri dipendenti un minimo di tempo al riposo, per metterli in grado di diventare produttori più efficienti e più longevi, avrebbe comportato una maggiore redditività, come sottolinea Anson Rabinbach nella sua opera sulla scienza del lavoro. Negli ultimi decenni del XX secolo e all’inizio del XXI, tuttavia, con il collasso dei modelli di capitalismo controllato o mitigato negli Stati Uniti e in Europa, è venuta meno ogni giustificazione interna dell’inattività e della quiete come componenti della crescita economica e della redditività. Il tempo del riposo umano che consente ala lavoratore di ristorare la proprie forze è diventato semplicemente troppo costoso per poter essere contemplato nella struttura del capitalismo contemporaneo. Teresa Brennan ha coniato il termine bioderegulation per descrivere il brutale divario tra il funzionamento istantaneo dei mercati deregolati e le intrinseche limitazioni fisiche degli esseri umani cui viene richiesto di conformarsi alle loro esigenze [3].
La progressiva perdita di importanza del lavoro umano nel lungo periodo non incoraggia affatto l’inserimento del riposo e della salvaguardia della salute fra le priorità economiche, come i più recenti dibattiti in tema di assistenza sanitaria dimostrano. Sono rimasti davvero pochi gli intervalli significativi dell’esistenza umana – con l’enorme eccezione del sonno – che non siano stati assoggettati e annessi al tempo lavorativo, al tempo dedicato ai consumi o a quello impegnato da operazioni di acquisto e di vendita. Nella loro analisi del capitalismo contemporaneo, Luc Boltanski ed Eve Chiapello hanno messo in risalto la tendenza diffusa per cui viene tenuto in alta considerazione chiunque sia costantemente impegnato a muoversi, in un qualsiasi ambiente digitale, tra interfacce, interazioni, scambi comunicativi ed elaborazioni di dati di ogni genere. Nelle zone più ricche del mondo, il fenomeno si è verificato, secondo gli autori, nel contesto della quasi totale dissoluzione di ogni barriera in passato frapposta tra il tempo lavorativo e quello privato, fra il momento della produzione e quello del consumo. Nell’ambito del nuovo paradigma connettivista, ciò che più conta è l’attività fine a se stessa, ovvero “fare, muoversi, cambiare senza mai fermarsi: ecco quel che ci dà maggior lustro, a differenza della stabilità che spesso è sinonimo di inazione” [4]. Questo modello culturale non deriva in alcun modo dall’etica del lavoro che costituiva il paradigma delle generazioni precedenti, ma rappresenta da un lato un nuovo ideale di vita, dall’altro un sistema che richiede una strutturazione temporale 24/7 per la sua realizzazione.
Tornando
al progetto spaziale cui si è fatto cenno: l’idea di
lanciare in orbita giganteschi riflettori da utilizzare come specchi
che permettano alla luce del sole di dissipare il buio della notte ha
in sé qualcosa di grottesco, quasi che fosse la riviviscenza a
bassa tecnologia di un prototipo del tutto meccanico, appena uscito
dalla fantasia di Jules Verne o di un qualsiasi altro classico della
fantascienza ai suoi albori. I primi lanci sperimentali, in effetti,
si sono mostrati sostanzialmente fallimentari: l’imperfetto
posizionamento dei riflettori in un caso, la presenza di una fitta
cortina di nubi sulla città scelta come campione nell’altro
hanno impedito la dimostrazione effettiva delle potenzialità
previste. Le ambizioni alla base i un simile progetto sembrano in
qualche modo ricollegarsi a quell’ampia varietà di
pratiche panottiche che hanno conosciuto un fiorente sviluppo negli
ultimi due secoli. Siamo così condotti a riconsiderare
l’importanza dell’illuminazione nel modello originale del
Panopticon in Bentham, laddove fondamentale era il requisito
di un utilizzo pervasivo della luce che cancellasse ogni ombra dal
luogo sottoposto a sorveglianza, al fine di realizzare effetti di
controllo attraverso una condizione di completa osservabilità.
Per diversi decenni, però, satelliti di altro genere hanno
eseguito in modo assai più sofisticato quelle che altro non
sono se non operazioni di sorveglianza (anche di massa) e raccolta
dati. Un genere di panotticismo più moderno ha saputo
aggiungere a quella visibile della luce ulteriori lunghezze d’onda
dello spettro elettromagnetico, per non parlare dell’ampia
varietà degli scanners non ottici, di quelli termici e
dei biosensori. Il senso del programma satellitare forse diventa più
chiaro se inteso come niente altro che il prolungamento di alcune
pratiche utilitaristiche teorizzate fin dal XIX secolo. Wolfgang
Schivelbusch, nella sua storia delle tecniche di illuminazione,
mostra come l’ampia diffusione dei lampioni stradali nelle
città di tutto il mondo, avvenuta a partire all’incirca
dal 1880, abbia permesso di ottenere due scopi: ha fatto in modo che
si attenuasse la paura ancestrale per i possibili pericoli associati
al buio della notte e ha ampliato l’arco temporale di molte
attività economiche [5]. L’illuminazione notturna fu la
dimostrazione simbolica di quel che gli apologeti del capitalismo
erano andati promettendo lungo tutto il XIX secolo: avrebbe offerto
una doppia garanzia, da un lato di sicurezza, dall’altro di
maggiori occasioni di successo economico e quindi, secondo le
apparenze, avrebbe migliorato l’esistenza di tutti e l’intero
complesso sociale. In tal senso, il celebrato avvento di un mondo
24/7 rappresenta la realizzazione completa di quel progetto iniziale,
comportando vantaggi e benefici, però, quasi esclusivamente
per un potente élite globale.
Il 24/7 mina
costantemente le tradizionali distinzioni tra il giorno e la notte,
tra la luce e il buio, e tra lo stato di attività e quello di
riposo. Inaugura una dimensione in cui regnano la mancanza di
sensibilità e di memoria, e dove ogni possibilità di
costruire la propria esperienza risulta vanificata. Per parafrasare
Maurice Blanchot, evoca sia il disastro che le sue conseguenze: un
cielo vuoto, in cui non vi è traccia di stelle, tutti i punti
di riferimento sono scomparsi ed è diventato impossibile
ritrovare un orientamento [6]. Usando un’immagine più
diretta, potremmo paragonare questa condizione a un’emergenza,
in cui, nel cuore della notte, viene improvvisamente accesa una file
di riflettori, come misura estrema, senza che però nessuno
venga mai a spegnerli, per cui ci si abitua a essi man mano che la
situazione diventa permanente. L’intero pianeta viene
riprogettato come luogo di lavoro perennemente in attività o
come centro commerciale che non chiude mai, capace di garantire
un’infinita varietà di offerte, di funzioni, di scelte e
di alternative. L’assenza di sonno è lo stato che
permette al processo della produzione, del consumo e della creazione
di rifiuti di non avere mai fine, accelerando lo svuotamento
dell’esistenza umana e l’esaurimento delle risorse
naturali.
In quanto maggior ostacolo rimasto – in effetti, l’ultima di quelle che Marx definisce le “barriere naturali” – alla definitiva realizzazione del capitalismo 24/7, il sonno non può essere eliminato. Può d’altronde essere in parte demolito e depauperato, e, come risulta evidente dai nostri esempi, i metodi e le motivazioni per compiere questa demolizione sono decisamente all’opera. L’attacco al sonno è strettamente collegato allo smantellamento in atto dei sistemi di protezione sociale in altri ambiti. Come la possibilità di accesso universale all’acqua è stata programmaticamente annullata in ogni parte del mondo dall’inquinamento e dalle privatizzazioni, con la conseguente riduzione a merce dell’acqua imbottigliata, così è possibile riscontrare una costruzione di scarsità non molto diversa nei riguardi del sonno. I continui sconfinamenti ai suoi danni creano condizioni di insonnia tali per cui il sonno diventa un bene acquistabile tra gli altri (anche se si tratta di un surrogato ottenuto chimicamente). I dati relativi al consumo sempre più elevato di sostanze ipnotiche indicano che, nel 2010, i cittadini americani cui sono stati prescritti farmaci come Ambien o Lunesta sono stati circa cinquanta milioni, mentre diversi altri milioni di persone hanno acquistato prodotti da banco simili. D’altra parte, non è credibile l’ipotesi di un miglioramento delle condizioni attuali per cui la gente possa tornare a sperimentare i benefici di un sonno profondo e ristoratore. Al punto cui si è giunti, neppure una effettiva attenuazione dei livelli di oppressività nell’organizzazione mondiale sarebbe in grado di eliminare l’insonnia. Quest’ultima comincia a rivestire il proprio significato storico e la propria specifica consistenza affettiva soltanto in relazione alle esperienze collettive accanto alle quali ha luogo cosicchè essa oggi è strettamente collegata ad altre forme di espropriazione e di degrado sociale che si manifestano su scala globale. Come privazione che tocca la natura dell’individuo nella nostra epoca, è in continuità con una condizione generalizzata di astensione dal mondo.
Il
filosofo Emmanuel Levinas è uno dei numerosi pensatori che
hanno cercato di collegare i vari significati dell’insonnia al
contesto della storia più recente [7]. L’insonnia, egli
afferma, è un modo di rappresentarsi la situazione
estremamente difficile in cui si trova la responsabilità
individuale di fronte alle catastrofi della nostra epoca.
L’onnipresente possibilità di vedere immagini riferite a
una violenza priva di qualsiasi giustificazione e le sofferenze che
ne risultano fa parte della modernità che viviamo. Questa
continua visibilità, nella sua svariata mescolanza di forme, è
un bagliore che dovrebbe disturbare senza posa qualunque
compiacimento e precludere il riposante oblio del sonno. L’insonnia
corrisponde all’esigenza di vigilare, al rifiuto di dimenticare
l’orrore e l’ingiustizia che pervadono il mondo. Essa
rappresenta l’inquietudine provocata dallo sforzo di
un’attenzione intensa per il dolore dell’altro, ma anche
dalla scoraggiante impotenza dell’etica della vigilanza; un
atto di testimonianza monotono e prolungato può diventare
semplicemente un modo per rassegnarsi alla notte, al disastro. È
una condizione che non può definirsi né pubblica né
del tutto privata. Per Levinas, l’insonnia oscilla sempre tra
una implosione dell’Io in se stesso e una spersonalizzazione
radicale; non esclude l’attenzione per l’altro, ma non
offre con chiarezza la sensazione di uno spazio dedicato alla sua
presenza. È la dimensione in cui si possono intravvedere i
confini della propria vita, oltre i quali essa smette di essere
umana. L’insonnia va distinta da uno stato di veglia colmo di
sconforto, con livelli di attenzione quasi insostenibili per le
sofferenze altrui e il conseguente senso di responsabilità
infinita che ne deriva.
Un sistema in ui regna il 24/7 è
un mondo disincantato nella sua eliminazione delle ombre e del buio
così come di ogni possibile temporalità alternativa. Si
tratta di una realtà sempre uguale a se stessa, che non ha la
densità di un passato stratificato alle sue spalle e quindi,
in teoria, senza possibilità alcune di ospitarne gli spettri.
La completa omogeneità del presente, però, dipende dal
potere ingannevole di una luce così diffusa da ritenersi in
grado di raggiungere ogni dove, tanto da contrastare ogni possibile
mistero o realtà ignota. Il 24/7 istituisce una discutibile
equivalenza tra quel che risulta immediatamente disponibile,
accessibile o utilizzabile e ciò che esiste. Lo spettrale è,
in qualche modo, l’interruzione o l’intrusione nel
presente di realtà extratemporali e dei fantasmi di ciò
che la modernità non riesce a cancellare, delle vittime che
non saranno dimenticate, della emancipazione non ancora ottenuta. Le
routine del 24/7 sono in grado di neutralizzare o di assorbire molte
di quelle provocatorie esperienze di ritorno
che
in teoria potrebbero minare la sostanzialità e l’identità
del presente e la sua apparente autosufficienza. Uno dei confronti
più premonitori con quella che è la collocazione più
spettrale in un mondo perennemente illuminato emerge nel film di
Andrej Tarkovskij del 1972, Solaris.
La vicenda narra di una missione spaziale in cui alcuni scienziati si
trovano su una stazione orbitante intorno a un pianeta misterioso,
impegnati nell’osservazione di certi strani fenomeni che
sembrano in contrasto con la teoria scientifica corrente. Per gli
abitatori di quell’ambiente artificiale tanto intensamente
illuminato che è la stazione spaziale, l’insonnia è
una condizione cronica. In questo luogo, del tutto ostile al riposo e
in cui si vive perennemente esposti ed esternalizzati, avviene un
esaurimento del controllo cognitivo. In tali condizioni estreme, i
personaggi del film vengono sorpresi non da attacchi allucinatori, ma
dall’apparizione di fantasmi, che vengono chiamati
“visitatori”. La deprivazione sensoriale dell’ambiente
artificiale e l’alterazione dei ritmi circadiani allentano la
presa di ciascuno su un presente stabile, facendo sì che i
sogni, veri e propri messaggeri della memoria, si introducano nel
tempo della veglia. Per Tarkovskij, questa prossimità dello
spettrale e la forza vivente del ricordo permettono la conservazione
della propria umanità in un mondo che non ha nulla di umano e
rendono l’insonnia e l’esposizione sopportabili.
Emergendo da contesti aperti alla sperimentazione culturale,
nell’Unione Sovietica degli anni Settanta, Solaris
fa
vedere come la scelta di riconoscere e rappresentare simili ritorni
fantasmatici, malgrado le loro ripetute negazioni e repressioni, sia
l’indicazione di una strada verso un dimensione in cui la
libertà o la felicità sono possibili.
Secondo
una corrente della teoria politica contemporanea l’esposizione
è una caratteristica fondamentale o metastorica dell’identità
essenziale e immutabile del soggetto umano. La natura degli individui
risulta comprensibile non tanto rispetto alla propria autonomia o
autosufficienza, quanto in base alla relazione che essi intrattengono
con il mondo esterno, con l’alterità con cui si
confrontano [8]. Solo una riflessione su questa condizione di
vulnerabilità può offrire uno sbocco su quelle forme di
dipendenza su cui la società poggia le proprie fondamenta.
Comunque, ci troviamo in una situazione storica in cui questa
caratteristica di esposizione inerme è stata svincolata da
quei legami comunitari che, quantomeno in via provvisoria , hanno
offerto una qualche forma di tutela o protezione. Di particolare
importanza, riguardo a questi problemi, è l’approfondimento
che ne ha dato Hannah Arendt nella sua opera filosofica. Per molti
anni, la Arendt si è valsa di immagini riferite alla luce e
alla visibilità, nelle sue descrizioni della caratteristiche
essenziali per lo svolgimento di una vita politica vera e propria.
Affinché un individuo possa essere efficace dal punto di vista
politico, occorre raggiunga un equilibrio fra i due estremi
dell’essere esposto alla luce così pungente della sfera
pubblica e la tendenza al ripiegamento nella zona accuratamente
schermata della vita domestica o privata, nella “oscurità
di un’esistenza protetta”. In altre pagine Arendt si
riferisce alla “penombra che rischiara le nostre vite private e
intime”. In assenza di uno spazio o di un tempo dedicato alla
privacy,
lontano dalla “luce intensa e implacabile della presenza
costante di altri sulla scena pubblica”, non vi sarebbe alcuna
possibilità di alimentare la singolarità dell’Io,
un Io il cui contributo si rivela essenziale in quei confronti da cui
scaturisce la realizzazione del bene comune.
Per la Arendt, la
sfera del privato non va intesa come dimensione in cui l’individuo
si impegna nella ricerca della felicità materiale, per cui
l’Io si riduce alla volontà di possesso e alla quantità
di beni che riesce a consumare. In Vita
activa,
l’alternativa fra le due realtà contrapposte viene
rielaborata nei termini di un equilibro periodico fra esaurimento e
rigenerazione, che si determinano rispettivamente l’uno per la
via del lavoro o dell’agire nel mondo, l’altro grazie al
quotidiano ritorno alla penombra di una vita domestica inaccessibile
e protetta. La Arendt era sicuramente consapevole che un simile
modello di complementarietà fra vita pubblica e vita privata
ben di rado si è effettivamente realizzato. Con altrettanta
chiarezza d’altra parte ha intuito che le possibilità
d’attuazione di un equilibrio simile sono gravemente minacciate
dal sorgere di una economia in cui “le cose devono essere
divorate ed eliminate con la stessa rapidità con cui sono
state prodotte”, che rende impossibile accedere a una coscienza
condivisa riguardo i propri interessi o scopi comuni. Scrivendo a
metà degli anni Cinquanta, all’apice della guerra
fredda, osservava con acume e perspicacia: se “non non fossimo
che membri di una società di consumo, non vivremmo più
nemmeno in un mondo, ma saremmo semplicemente guidati da un processo
in cui le cose appaiono e scompaiono in cicli sempre ricorrenti”
[9]. Allo stesso modo, era consapevole del fatto che la vita pubblica
e la sfera lavorativa erano già diventate, per la maggior
parte delle persone, vere e proprie esperienze di straniamento.
Si
possono citare numerosi altri brani, ben noti, che si ricollegano
allo stesso tema: “possa Dio preservarci / dalla visione unica
e dal sonno di Newton” (William Blake); “le nostre
facoltà più nobili vengono sempre più sommerse
da un sonno pieno di incubi” (Thomas Carlyle); “il sonno
indugia per tutta la nostra vita intorno ai nostri occhi”
(Ralph W. Emerson); “attraverso lo spettacolo la società
[…] non esprime altro che il proprio desiderio di dormire”
(Guy Debord). Non sarebbe difficile enumerare centinaia di altri
esempi simili di descrizioni capovolte dal lato illuminato
dell’esperienza sociale della modernità. Immagini di una
società di dormienti vengono dalla sinistra e dalla destra,
dalla cultura alta e da quella bassa e sono state una caratteristica
costante nella storia del cinema, dal Gabinetto
del dottor Caligari a
Matrix.
Comune a tutte queste rappresentazioni in cui viene evocato una sorta
di sonnambulismo di massa è il riferimento a capacità
percettive compromesse o ridotte, associate a un comportamento
ripetitivo e costante, a volte simile a una trance.
Secondo le teorie sociologiche più consolidate, gli individui,
nella modernità, vivono e operano, più o meno
stabilmente, in condizioni marcatamente dissimili dal sonno ovvero in
uno stato di piena autoconsapevolezza in cui si è in grado di
valutare eventi e informazioni in veste di partecipanti razionali e
obiettivi alla vita pubblica e civile. Qualunque posizione
alternativa che consideri le persone come individui deprivati della
capacità di agire, come automi passivi e disponibili ad ogni
tipo di manipolazione o di controllo comportamentale, solitamente
viene tacciata di riduttivismo o di irresponsabilità etica.
Nello stesso tempo, anche la maggior parte dei riferimenti a
qualunque tipo di risveglio politico vengono giudicati inaccettabili,
dal momento che implicano un processo improvviso e irrazionale,
paragonabile a una conversione religiosa. Basti ricordare il
principale slogan elettorale del partito nazista nei primi anni
Trenta: “Deuthschland,
erwache! (Germania,
svegliati!)” o, per risalire a tempi più antichi, la
Lettera
ai Romani di
san Paolo: “E questo voi farete, consapevoli del momento: è
ormai tempo di svegliarvi dal sonno […] gettiamo via le opere
delle tenebre e indossiamo le armi della luce” (13,11-12)
oppure, ancora, l’appello più recente – e più
scontato – della ribellione a Ceausescu del 1989: “Romeni,
svegliatevi dal sonno profondo della tirannia”. I risvegli di
natura politica e religiosa solitamente vengono espressi in termini
percettivi come la ritrovata capacità di riconoscere la realtà
delle cose al di là del velo che le nascondeva, di distinguere
il mondo vero dalla sua visione degradata o capovolta oppure di
recuperare una verità perduta che rappresenta l’opposto
di quella condizione, quale che sia, da cui ci si dovrebbe destare.
Poiché interrompe, quasi come un’epifania, il torpore di
un’esistenza vuota e ripetitiva, il risveglio si presenta come
il recupero dell’autenticità, in contrapposizione al
sonno inteso come disposizione stolidamente inerte. In questo senso,
esso diventa una sorta di decisionismo: l’esperienza di un
momento di redenzione che sembra arrestare il tempo storico, per cui
si subisce una trasformazione profonda nell’incontro con una
prospettiva sul futuro prima del tutto ignota. Tutto questo insieme
di immagini e metafore, d’altra parte, è ormai
inadeguato per un sistema globale che non dorme mai, quasi a garanzia
del fatto che nessun risveglio dal potenziale dirompente sia
necessario o importante. Se qualcosa sopravvive dell’iconografia
dell’alba e del tramonto, ha a che fare con la richiesta, che
Nietzsche attribuiva a Socrate, di “stabilire in permanenza […]
la luce diurna dalla ragione” [10]. Dai tempi di Nietzsche,
però, la “ragione” umana è stata sostituita
in modo onnipervasivo e irreversibile dalle procedure informatiche
delle reti 24 /7 e dalla trasmissione infinita della luce negli
intricati circuiti delle fibre ottiche.
Paradossalmente il
sonno può rappresentare una soggettività su cui il
potere opera senza trovare la minima resistenza politica, ma anche,
nello stesso tempo, una condizione che in ultima analisi non può
essere strumentalizzata o controllata dall’esterno, che è
in grado di sottrarsi o di vanificare le istanze della società
del consumo globale. Apparirà quindi ormai quasi del tutto
ovvio che molti luoghi comuni del dibattito socioculturale corrente
dipendono da una valutazione univoca o banale della realtà del
sonno. Maurice Blanchot, Maurice Merleau-Ponty e Walter Benjamin sono
solo alcuni fra i pensatori del XX secolo che hanno meditato sulla
profonda ambiguità del sonno e sulla impossibilità di
collocarlo in un qualsiasi schema binario. Esso va sicuramente
compreso in riferimento alle distinzioni tra la dimensione privata e
quella pubblica, tra quella individuale e quella collettiva, senza
trascurare del resto la permeabilità reciproca e la prossimità
fra i termini in gioco. Ciò che la mia argomentazione vorrebbe
indicare, in prima istanza, è che, nel contesto attuale,
l’esperienza del sonno può diventare un’immagine
significativa della capacità di resistenza della vita sociale,
in analogia con altre situazioni marginali che la società
potrebbe utilizzare come linee di protezione o di difesa. Dal momento
che non vi è condizione più intima e più
vulnerabile ed è comune a tutti, il sonno non può
assolutamente prescindere dal sostegno della società intera.
Hobbes,
nel suo Leviatano, per dimostrare nel modo più efficace
l’incertezza dello stato di natura, si rifà al caso di
coloro che, dormendo, si trovano isolati e alla mercé di tutti
quei pericoli e malfattori che la notte porta con sé. Una
delle funzioni primarie dello Stato, dunque, è quella di
offrire a coloro che dormono un’adeguata protezione, non solo
dalle minacce reali, ma anche – cosa non meno importante –
da quelle soltanto percepite a causa della paura. Ciò accade
all’interno di una più ampia ridefinizione del legame
fra il sonno e la sicurezza dell’ordine sociale. All’inizio
del XVII secolo, è ancora possibile ritrovare gli ultimi resti
di quella mentalità gerarchica per cui il signore o il sovrano
godeva di capacità diverse dai comuni mortali e quindi di una
onniscienza che, almeno sul piano ideale, lo rendeva immune alle
condizioni invalidanti del sonno, a differenza degli uomini e delle
donne comuni costretti alla fatica del lavoro e perciò
dominati da bassi istinti corporei. Comunque, nell’Enrico
V di
Shakespeare e nel Don
Chisciotte di
Cervantes si trovano sia l’affermazione sia l’esaurimento
di questo modello gerarchico. Per re Enrico, non è tanto tra
il sonno e la veglia che occorre marcare la differenza, quanto tra il
profondo torpore adatto al “cervello vuoto” dei contadini
e dei servi e lo stato di continua allerta percettiva che accompagna
il sovrano nelle sue “lunghe veglie notturne”. Da una
prospettiva diversa, il mondo si divide, per Sancio Panza, fra coloro
che, come lui, sono nati per dormire e coloro che, invece, come il
suo padrone, sono nati per vegliare. In entrambi i testi si può
riscontrare, malgrado il perdurante ossequio formale alle
tradizionali norme sociali, una analoga consapevolezza riguardo la
perdita di valore e la persistenza meramente esteriore di quel
modello paternalistico di comportamento vigile.
L’opera
di Hobbes documenta in modo significativo l’avvio di un
mutamento sia per quanto riguarda la garanzia della sicurezza sociale
sia per quanto riguarda le esigenze dei dormienti. Un nuovo genere di
pericoli ha preso il posto di quelli che occupavano l’attenzione
di Enrico e del padrone di Sancio Panza, tali da richiedere una
contrattazione che esclude un’esistenza dell’ordine
naturale basato su una gerarchia fissa ed eternamente valida. Lo
Stato borghese ai suoi inizi, come quello immaginato da Hobbes, era
essenzialmente concepito per soddisfare le esigenze della classi
possidenti. Pertanto, la guardia notturna che esso offre è
mirata ad assicurare non tanto l’incolumità fisica
dell’individuo, quanto piuttosto la protezione delle sue
proprietà e dei suoi beni mentre dorme. Inoltre, la potenziale
minaccia al sonno pacifico della classe proprietaria proviene dai
poveri e dagli indigenti, mentre la classe più bassa, tra cui
anche i “miserabili schiavi”, viene pienamente inclusa
tra i dormienti su cui re Enrico era obbligato a mantenersi vigile.
Lo stretto legame fra il diritto alla proprietà e il diritto –
o il privilegio – a godere di un sonno ristoratore ha le sue
origini nel XVII secolo ed è ancora attuale nelle città
del XXI. Gli spazi pubblici oggigiorno sono progettati fin nei minimi
particolari per dissuadere dal sonno, a partire non di rado –
con intima perfidia – dal profilo seghettato delle panchine e
di altre superfici elevate atte a impedire che un corpo umano vi si
adagi sopra. La realtà tanto capillarmente diffusa quanto
socialmente ignorata dei senzatetto comporta molte privazioni, eppure
poche sono gravi come quelle che implicano la mancanza di un riparo
notturno contro pericoli di ogni genere.
Da
tempo, comunque, il contratto che sembrava dovesse offrire protezione
a tutti, possidenti o meno, è stato cancellato, in senso lato.
Nell’opera di Kafka, quella condizione che per la Arendt era
caratterizzata dall’assenza di spazi o tempi in cui vi possano
essere riposo e rigenerazione è onnipresente. Il
castello,
La
tana e
altri testi rappresentano con insistenza atmosfere in cui regna
quella sensazione di insonnia costante e di veglia forzata che
accompagna le moderne forme dell’isolamento e dello
straniamento. Nel Castello
avviene
un capovolgimento dell’antico modello di protezione sovrana:
qui la vigilanza saltuaria e la veglia snervante dell’Agrimensore
segnano la sua inferiorità e irrilevanza nei confronti dei
sonnolenti funzionari della burocrazia del castello. La tana di
Kafka, il racconto di un’esistenza creaturale ridotta alla
ricerca ossessiva e ansiosa di autoconservazione, è una delle
più cupe descrizioni letterarie del destino umano concepito
come solitudine deprivata di una qualsiasi forma di reciprocità.
È una tetra rappresentazione di quel che è la vita
umana in assenza di una comunità o di una società
civile, a uno stadio estremo di rimozione di quelle forme di vita
collettiva sperimentate per esempio nei kibbutz, di recente
costruzione all’epoca, da quali Kafka era così attratto.
La realtà devastante dell’assenza di protezione o
sicurezza per coloro che più ne avrebbero bisogno è
emersa con terribile evidenza nel disastro dell’impianto
chimico di Bhopal , in India, nel 1984. Poco dopo mezzanotte, una
fuoriuscita di gas altamente tossico da un serbatoio di stoccaggio
guasto provocò la morte di decine di migliaia di persone che
abitavano in prossimità dell’impianto, quasi tutte
mentre dormivano. Altre migliaia morirono nelle settimane e nei mesi
successivi, mentre il numero dei ferite e delle persone che rimasero
invalide fu ancora più elevato. Il disastro di Bhopal
rappresenta una brusca rivelazione del contrasto in atto tra la
globalizzazione delle multinazionali e le istanze di sicurezza e
sostenibilità della comunità umane. Nei
decenni successivi al 1984, il continuo rifiuto della Union Carbide
di assumersi alcuna responsabilità o di rendere giustizia alle
vittime conferma che il disastro stesso non può essere
presentato come un incidente e che, nel contesto delle operazioni
delle multinazionali, la presenza di vittime è qualcosa che in
sé non riveste la minima importanza.
Certamente,
le conseguenze dell’incidente sarebbero state ugualmente
terribili anche nel caso in cui fosse accaduto nelle ore diurne, ma
il fatto che sia accaduto di notte sottolinea la particolare
vulnerabilità del dormiente in un mondo in cui le protezioni
sociali più durature sono state indebolite o sono venute del
tutto meno. Il tema del sonno si ricollega a numerosi presupposti
fondamentali della coesione sociale, nella relazione di reciprocità
che intercorre tra vulnerabilità e fiducia, tra esposizione e
protezione. Centrale è il concetto di dipendenza dalla
responsabilità altrui perché sia possibile la serenità
ristoratrice del sonno, in quell’intervallo di tempo in cui si
è liberi dalle paure e si può provare una temporanea
“amnesia del male” [11]. Mentre l’erosione del
tempo dedicato al sonno aumenta, può risultare più
chiaro adesso il fatto che l’atteggiamento di sollecitudine
necessariamente dovuto al dormiente non è diverso, sul piano
qualitativo, da quella sicurezza che viene richiesta nel caso di
forme di sofferenza sociale maggiormente acute e urgenti.
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Il 24 /7 è l’annuncio di un tempo senza divenire, sottratto a qualunque delimitazione concreta o riconoscibile, un tempo senza ritmo sequenziale o ricorrente. Nel suo carattere perentoriamente riduttivo, è la celebrazione di un presente allucinato, di un inalterabile permanenza fatta di operazioni incessanti, senza attrito. È una conseguenza della trasformazione della vita sociale in realtà tecnicamente manipolabile. Inoltre suona – in modo indiretto ma efficace – come una sorta di ingiunzione o – come usano dire alcuni – come “parola d’ordine”. Deleuze e Guattari definiscono il mot d’ordre come quel comando o strumentalizzazione del linguaggio che mira a preservare o a creare la realtà sociale e il cui effetto finale è di provocare la paura [1]. A parte l’inconsistenza e l’astrattezza dello slogan, ciò che di implacabile vi è nel 24 /7 si deve alla sua temporalità impossibile. È una sentenza di rimprovero e condanna che viene costantemente mossa alla fragilità e all’inadeguatezza del tempo umano, con le sue strutture confuse e indefinite. Annulla il valore o la rilevanza di qualsiasi pausa o possibilità di variazione. Dietro il suo annuncio di una accessibilità comoda in quanto perpetua, cela la dissoluzione di un ritmo di vita periodico che ha dato forma alla maggioranza delle culture umane nel corso dei millenni, ovvero l’alternanza giornaliera di sonno e veglia nonché quella, più lunga, fra una serie di giorni dedicati al lavoro e un unico giorno consacrato alla preghiera o al riposo, che per le natiche popolazioni mesopotamiche, quella ebraica e altre ancora era la settimana, costituita appunto da sette giorni. In diverse culture antiche, dagli egiziani ai romani, la settimana era costituita da otto o dieci giorni, organizzata in base ai giorni di mercato o alle fasi della luna. Il weekend rappresenta ciò che è rimasto nell’epoca moderna di quei sistemi così durevoli, ma persino questa impalcatura della scansione temporale tende a venir meno con l’imposizione dell’omogeneità 24 /7. Naturalmente, quelle antiche distinzioni (i giorni della settimana, la vacanza, la stagione) persistono, ma il loro significato e la loro leggibilità sono stati cancellati dal monotono livellamento del 24 /7.
Se l’espressione 24 /7 può essere provvisoriamente concettualizzata come parola d’ordine, la sua forza non è quella di una vera e propria richiesta di sottomissione o di obbedienza alla sua forma apodittica. La sua efficacia consiste piuttosto nell’incompatibilità o discrepanza che rivela tra il mondo della vita degli esseri umani e l’evocazione di un universo perennemente ON, in cui la modalità OFF non è assolutamente prevista. Naturalmente, nessuno è davvero in grado di fare acquisti, giocare, lavorare, bloggare, scaricare files o inviare sms per una durata 24 /7. Comunque, poiché oggigiorno non esiste alcun momento, luogo o situazione in cui non sia possibile fare acquisti o consumare e sfruttare le risorse in rete, è in corso un attacco inesorabile da parte del non tempo 24 /7 contro ogni aspetto della vita sociale o individuale. Si può dire che attualmente quasi non esistano, per esempio, circostanza che non possano essere registrate o archiviate in immagini o informazioni digitali. La promozione e l’adozione delle tecnologie wireless e il loro annullamento dell’unicità di luogo ed evento non sono altro che una ripercussione delle nuove esigenze istituzionali. Nella sua spoliazione delle ricche tessiture e dell’ineffabilità del tempo umano, il 24 /7 suscita una identificazione nel contempo impossibile e autodistruttiva con le sue esigenze fantasmatiche; sollecita un investimento illimitato ma perennemente incompiuto in tutti quei prodotti che sono concepiti per agevolare questa identificazione. Non elimina esperienze esterne oppure indipendenti da questo processo, ma ne smorza l’intensità e ne sminuisce l’importanza. Gli esempi dei modi in cui strumenti e dispositivi comunemente usati hanno un impatto su varie forme di socialità in scala ridotta (il momento del pasto, una conversazione o una lezione scolastica) sono ormai dei luoghi comuni, ma il danno cumulativo che provocano non è per questo meno significativo. Nel mondo in cui viviamo, le nozioni più profondamente radicate di come deve essere un’esperienza condivisa si atrofizzano ma, d’altra parte, non si ottengono mai realmente le gratificazioni o i premi ventilati dalle opzioni tecnologiche più recenti. Malgrado le sbandierate e insistenti assicurazioni circa la compatibilità, persino l’armonizzazione, fra il tempo umano e le temporalità dei sistemi telematici, la realtà vissuta di questa relazione è fatta di disgiunzioni, di fratture di un continuo squilibrio.
Deleuze
e Guattari sono arrivati al punto di paragonare la parola d’ordine
a una “sentenza di morte”. Da un punto di vista sia
storico che retorico, parte di questo significato originale potrebbe
essere andato perso, ma un giudizio così enunciato continua a
operare all’interno di un sistema in cui è in atto un
esercizio di potere sul corpo. Essi osservano anche che la parola
d’ordine è nello stesso tempo “un grido di
avvertimento (e) un invito alla fuga”. Annunciando la
propria assoluta invisibilità, il 24 /7 si può cogliere
in tutta la sua ambivalenza. Non funziona soltanto come stimolo sul
soggetto individuale affinché si concentri in modo esclusivo
sulle varie modalità di acquisizione, gestione, gioco, visione
distratta, sperpero e irrisione, ma è pienamente interconnesso
con meccanismi di controllo che mantengono l’inutilità e
l’impotenza del soggetto nei confronti delle proprie esigenze.
L’esternalizzazione dell’individuo in siti dove può
essere sottomesso costantemente a un minuzioso esame e a procedure
regolative è effettivamente coerente con l’organizzazione
del terrore di Stato e il paradigma militare-poliziesco del controllo
a tutto campo.
Per fare un solo esempio, il massiccio
ricorso ai droni, gli aerei comandati a distanza, è stato
possibile grazie a una sistematica raccolta dati di intelligence
che l’aviazione degli Stati Uniti ha chiamato Operazione Gorgon
Stare (Sguardo della Gorgone). Si tratta di un sistema che si avvale
di diversi strumenti di sorveglianza e analisi dei dati per “vedere”
ininterrottamente, 24 /7, chiunque si trovi a terra, a prescindere
dall’ora del giorno e della notte o dal tempo atmosferico, e
rivolge agli esseri umani su cui opera uno sguardo totalmente –
e mortalmente – indifferente. Il terrorismo 24 /7 si manifesta
non solo negli attacchi dei droni, ma anche nella pratica diffusa dei
raids notturni delle forze speciali, in Iraq, Afghanistan e in
altri paesi. Provvisti di dati satellitari forniti da Gordon Stare,
muniti di equipaggiamento avanzato per la visione notturna e lanciati
senza preavviso da silenziosi elicotteri stealth, i commando
americani sferrano attacchi notturni su villaggi e insediamenti
umani, ufficialmente allo scopo di compiere uccisioni mirate. Queste
operazioni hanno scatenato la furia della popolazione afghana, non
soltanto per i loro esiti mortali, ma anche perché distruggono
deliberatamente l’alternanza fra il giorno e la notte. Parte
delle strategia più ampia, nel contesto delle culture tribali
dell’Afghanistan, prevede l’eliminazione dell’intervallo
del sonno, condiviso a livello comunitario, e la sua sostituzione con
un inevitabile stato di tensione permanente. È un’applicazione
delle stesse tecniche psicologiche impiegate ad Abu Ghraib e a
Guntanamo, in questo caso su una popolazione più ampia, che
sfruttano la vulnerabilità del sonno e i modelli sociali a
esso collegate come forme meccanizzate di terrore.
Benché
più volte abbiamo evocato immagini di illuminazione perpetua
per caratterizzare il 24 /7, va sottolineato che la loro utilità
è ridotta, se la prendiamo alla lettera; il 24 /7, così
come si riferisce all’estinzione del buio e all’oscurità,
indica anche l’impossibilità del giorno. Sopprimendo
tutte le condizioni di luce che non siano legate a precise
funzionalità, il 24 /7 fa parte di un’immensa
compromissione dell’esperienza visiva. Corrisponde a un campo
onnipresente, in cui si è esposti a operazioni guidate da
determinate aspettative, in cui l’attività ottica
individuale viene costantemente osservata e organizzata. All’interno
di questo campo, le caratteristiche di contingenza e variabilità
del mondo visibile non sono più accessibili.
Le recenti
innovazioni più significative riguardano non tanto nuove forme
meccaniche di visualizzazione, ma le diverse modalità in cui
si è verificata una disintegrazione delle capacità
umane di vedere, specialmente in quella capacità che permette
di collegare le discriminazioni visive a valutazioni morali e
sociali. All’interno di un infinito supermarket fatto di
stimoli e attrazioni costantemente disponibili, il 24 /7 compromette
la visione attraverso processi di omogeneizzazione, ridondanza e
accelerazione. Contrariamente alle opinioni più diffuse, è
in atto un progressivo calo delle capacità percettive e
cognitive, piuttosto che una loro espansione o rimodulazione. I nuovi
assetti della vita sociale sono paragonabili al bagliore di una
illuminazione ad alta intensità oppure a condizioni di
white-out, in cui vi è una scarsa differenziazione di
tonalità che non permette una conoscenza percettiva distinta e
un orientamento temporale condiviso. Il bagliore, in questo caso, non
è un fenomeno luminoso in senso letterale, ma ha a che fare
piuttosto con la ininterrotta asprezza di una monotona stimolazione,
in cui una più ampia varietà di possibili risposte
rimane congelata o neutralizzata.
In Eloge de l’amour
di Jean-Luc Godard (2001), una voce fuoricampo pone la seguente
domanda: “Quando è avvenuta la fine dello sguardo?”
(“Quand est-ce-que le regard a basculè?”) e
prosegue: “È stato dieci anni fa? Quindici o anche
cinquant’anni fa, prima delle televisione?”. Nessuna
risposta precisa viene data, poiché in questo e in altri film
più recenti Godard spiega il fatto che la crisi
dell’osservatore e dell’immagine è cumulativa, con
radici storiche sovrapposte, a prescindere da qualsiasi nuova
tecnologia. Eloge de l’amour è una meditazione di Godard
sulla memoria, sulla resistenza e sulla responsabilità
intergenerazionale, in cui egli chiarisce che qualcosa di
fondamentale è cambiato nel modo in cui vediamo oppure non
vediamo più il mondo. Parte di questo fallimento, egli
suggerisce, deriva da un legame compromesso con il passato e con la
memoria. Siamo sommersi da immagini e informazioni relative alla
storia e alle sue catastrofi più recenti, ma vi è anche
una crescente incapacità di mettere in gioco queste tracce in
modo che diventi possibile un effettivo superamento di quelle
esperienze, nell’interesse di un futuro comune.
Nel
cuore dell’amnesia di massa in cui siamo sospinti dalla cultura
del capitalismo globale, le immagini sono diventate uno dei molti
elementi depotenziati e disponibili che, nella loro intrinseca
archiviabilità, finiscono per non essere mai scartati,
contribuendo alla creazione di un presente sempre più
congelato e senza futuro. A volte, Godard sembra ottimista
riguardo alla possibilità di immagini che siano completamente
inutili per il capitalismo ma, come chiunque altro, non sopravvaluta
mai l’immunità delle immagini al loro recupero e alla
loro neutralizzazione.
Secondo
uno dei presupposti più comuni e inconsistenti del dibattito
corrente a proposito di cultura e nuove tecnologie, vi sarebbe stato
un mutamento epocale in tempi relativamente brevi, per cui i nuovi
mezzi informatici della comunicazione avrebbero soppiantato tutta una
varietà di forme espressive della cultura precedente. Questo
mutamento storico viene descritto e teorizzato in modi diversi, come
un passaggio dalla produzione industriale all’economia dei
servizi oppure dei media analogici a quelli digitali oppure, ancora,
da una cultura basata sulla stampa a una società globale
unificata grazie alla circolazione istantanea dei dati e delle
informazioni. Più spesso, tali periodizzazioni dipendono dal
confronto con epoche precedenti, definite a loro volta da innovazioni
tecnologiche specifiche. All’asserzione quindi che siamo
entrati in un’epoca del tutto nuova si usa aggiungere
l’inevitabile e rassicurante paragone con “l’era
Gutenberg”, per esempio, oppure con la “rivoluzione
industriale”. In altri termini, la descrizione di un momento di
rottura radicale è nel contempo l’affermazione della
continuità con modelli e sequenze di più lunga durata
rispetto al cambiamento e alle innovazioni tecnologiche.
Si fa
spesso riferimento al fatto che ci troviamo in un momento
transitorio, nel passaggio da “un’era” a quella
successiva, quindi in un periodo di adattamento, individuale e
collettivo, che potrebbe durare anche un paio di generazioni, prima
che possa dirsi davvero avviata una nuova epoca di relativa
stabilità. La scelta di rappresentare la fase attuale della
globalizzazione come una nuova era tecnologica comporta che venga
conferito un carattere di storica inevitabilità agli esiti del
cambiamento sperimentato negli sviluppi economici su ampia scala e
nei microfenomeni della vita quotidiana più recenti. L’idea
che il cambiamento tecnologico sia quasi autonomo, come se fosse
guidato da un qualche processo di autopoiesis o di
autorganizzazione, fa si che molti aspetti della realtà
sociale contemporanea siano accettati come circostanze necessarie e
immutabili, sul modello dei fatti naturali. Parallelamente
all’erronea scelta di collocare i prodotti e gli strumenti oggi
più diffusi sulla stessa linea cronologica che include la
ruota, l’arco a sesto acuto, i caratteri mobili e così
via, c’è stato l’occultamento delle tecnologie più
importanti che siano apparse negli ultimi centocinquant’anni: i
vari sistemi per la gestione e il controllo degli esseri umani.
Questa
definizione pseudostorica del presente come inizio di un’era
digitale, apparentemente paragonabile all’ “età
del bronzo” o a quella “industriale”, permette di
fissare e unificare in caratteristiche illusoriamente coerenti e
durevoli i diversi e incommensurabili fattori che costituiscono
l’esperienza contemporanea. L’esempio più chiaro,
fra le molte versioni di questa illusione, si può trovare
nelle opere propagandistiche e di scarso valore intellettuale di
futurologi come Nicholas Negroponte, Esther Dyson, Kevin Kelly e
Raymond Kurzweil. Uno dei motivi più ricorrenti, in questi
luoghi comuni, è l’idea che i bambini e gli adolescenti
di oggi vivano i loro ambienti ipertecnologici, così
amichevoli nella loro completa intelligibilità e costantemente
presenti, con la massima spontaneità e naturalezza. Questa
descrizione sembrerebbe confermare il fatto che a questa generazione
debba seguire, nel giro di qualche decennio o anche meno, una volta
compiuta la fase transitoria, un’epoca in cui vi saranno
miliardi di persone provviste delle stesse conoscenze di base e
dotate delle stesse competenze tecnologiche. Con un nuovo paradigma
in vigore, vi sarà “innovazione”, ma in questo
scenario essa si attuerà all’interno dei parametri
concettuali e funzionali ormai stabili e durevoli della nostra epoca
“digitale”.
Tuttavia la realtà molto diversa
del nostro tempo è il mantenimento deliberato di un costante
stato di transizione. Non è assolutamente previsto un punto di
arrivo né sul piano individuale né su quello
collettivo, dal momento che le esigenze tecnologiche sono in costante
divenire. Per la stragrande maggioranza delle persone,
l’atteggiamento percettivo e cognitivo nei confronti delle
nuove tecnologie della comunicazione continuerà a essere
straniato e depotenziato a causa della rapidità con cui
emergono sempre nuovi prodotti e avvengono arbitrarie
riconfigurazioni di interi sistemi. Un ritmo così accelerato
impedisce in effetti di abituarsi a qualsiasi cambiamento. Alcuni
studiosi dei mutamenti culturali sostengono che in condizioni simili
possono manifestarsi le premesse per neutralizzare il potere delle
istituzioni, ma le prove a sostegno di questa tesi sono di fatto
inesistenti.
A
un livello profondo, questa situazione non è del tutto nuova.
La logica della modernizzazione economica in atto oggi si può
far risalire alla metà del XIX secolo. Marx fu uno dei primi a
comprendere la sostanziale incompatibilità del capitalismo con
qualsiasi sistema sociale stabile o durevole, e la storia degli
ultimi centocinquant’anni è strettamente correlata con
la “rivoluzione permanente” delle forme di produzione, di
circolazione, di comunicazione e di produzione delle immagini. In
questo arco di tempo, tuttavia, in particolari settori della vita
economica e culturale, vi sono stati numerosi intervalli di stabilità
apparente, in cui alcuni sistemi e istituzioni sono sembrati
permanenti o comunque durevoli. Il cinema, per esempio, da un punto
di vista tecnologico è parso assumere alcune caratteristiche
proprie in modo stabile, dalla fine degli anni Venti agli anni
Sessanta o anche fino ai primi anni Settanta. Come si vedrà
nel capitolo terzo, la televisione, negli Stati Uniti, ha segnato
apparentemente sia la vita quotidiana sia l’esperienza
condivisa, fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta. Questi periodi
storici, in cui certe particolari caratteristiche sembravano
costanti, permettevano ai critici di formulare teorie sul cinema,
sulla televisione o sui video basate sul presupposto che queste forme
o sistei fossero costituiti da terminati elementi essenziali. In
retrospettiva, quelle definizioni in apparenza così solide si
basavano su tratti passeggeri di più ampie costellazioni, i
cui ritmi di cambiamento erano variabili e imprevedibili.
In
modo del tutto analogo, dagli anni Novanta in poi, sono state
elaborate riflessioni ambiziose per fissare le manifestazioni
essenziali o intrinseche dei “nuovi media”. Anche i
tentativi più brillanti in questo senso risultano spesso
limitati dal loro presupposto implicito, che già era alla base
degli studi sulle epoche precedenti, per cui l’obiettivo
principale sarebbe necessariamente quello di delineare e analizzare
un nuovo paradigma o un nuovo sistema tecnologico/discorsivo e, cosa
ancora più importante, che tale nuovo sistema sarebbe
derivabile dagli strumenti, dalle reti, dai dispositivi, dai codici e
dalle architettura globali attualmente in funzione. Va però
sottolineato il fatto che, a differenza di quanto sostenuto da tali
studi, in realtà non stiamo semplicemente passando da un
assetto o sistema tecnico/discorsivo a un altro. Il fatto che gli
scritti sui nuovi media pubblicati solo cinque anni fa siano già
sorpassati è particolarmente significativo e anche una sola
pagina scritta oggi sull’argomento risulterà inattuale
in tempi anche molto più brevi. Una particolare prestazione o
un particolare effetto realizzato da un nuovo strumento o da una
nuova rete ha un’importanza assai minore rispetto ai odi in cui
i ritmi, i livelli di velocità e le formule del consumo
potenziato e accelerato stanno rinnovando l’esperienza e la
percezione comune.
Per citare un solo esempio, tratto dalla
letteratura più recente: molti anni or sono, un teorico
tedesco dei media ha affermato che il cellulare dotato di display
visuale rappresentava una svolta “rivoluzionaria”
rispetto alle tecnologie precedenti, inclusi tutti i tipi di
cellulari fino ad allora realizzati. Egli riteneva che, per via della
sua mobilità, della miniaturizzazione dello schermo e della
possibilità di visualizzare sia dati che immagini, si
trattasse di un’ “innovazione davvero fondamentale”.
Anche volendo considerare la storia della tecnologia come una
successione di invenzioni e scoperte, non ci si può nascondere
che l’importanza di questo dispositivo particolare risulterà
sicuramente effimera. Sarà più utile intendere uno
strumento simile come uno fra i tanti elementi di un flusso mutevole,
in cui prodotti tanti indispensabili quanto provvisori non fanno che
avvicendarsi. Stanno già per essere introdotti sul mercato
tipi di display ancora più sofisticati, alcuni montati anche
in particolari caschi, provvisti di interfacce trasparenti, che danno
accesso alla “realtà aumentata”, con perfetta
coincidenza fra schermo virtuale e campo visivo. Inoltre, si vanno
realizzando computer a comandi gestuali in cui, anziché
utilizzare il clic, sarà sufficiente, per interagire
con il computer, fare un gesto, un semplice cenno o un movimento
oculare. In un prossimo futuro, queste nuove apparecchiature saranno
certamente in grado di sostituirsi a tutti quegli strumenti provvisti
di tastiera o di schermo touch che, essendo onnipresenti, oggi
appaiono imprescindibili, e quindi vanificare qualsiasi giudizio
storico circa la loro presunta rilevanza. Nel momento in cui tali
strumenti fossero introdotti nel mercato (con la rituale etichetta di
“rivoluzionari”), non faranno altro che agevolare il
perpetuarsi degli stessi prevedibili meccanismi di consumo non
stop, di isolamento sociale e di impotenza politica, piuttosto
che porsi come punto di svolta davvero rilevante da un punto di vista
storico. Anche essi, inoltre, occuperanno soltanto un breve spazio di
tempo nell’attualità, prima della loro inevitabile
sostituzione e accantonamento nel cumulo di rifiuti della
tecnospazzatura globale. L’unico elemento che fornisca un senso
coerente al continuo avvicendarsi di prodotti e servizi di consumo
apparentemente privo di ordine consiste nell’integrazione
sempre più stretta del proprio tempo e delle proprie attività
all’interno dei parametri del sistema di scambio elettronico.
Ogni anno vengono spesi miliardi di dollari per cercare di ridurre il
tempo occupato dai processi decisionali ed eliminare del tutto il
tempo inutile della riflessione e della contemplazione. Sono queste
le modalità in cui si realizza il progresso nell’epoca
contemporanea, attraverso il tentativo inesorabile di imbrigliare e
sottoporre a stretto controllo sia il tempo che l’esperienza
degli esseri umani.
Come è stato notato da più
parti, l’innovazione nel mondo capitalistico assume l’aspetto
di un’incessante simulazione del nuovo, mentre le relazioni di
potere e di controllo esistenti permangono identiche a se stesse. Per
gran parte del XX secolo, la produzione del nuovo, benché in
effetti frusta e ripetitiva, è stata spesso presentata sul
mercato in modo tale che si adeguasse alla prefigurazione collettiva
di un futuro più avanzato o comunque diverso dal presente. Nel
quadro dell’ottimismo avveniristico tipico degli anni Cinquanta
del XX secolo, i prodotti che si acquistavano ed entravano a far
parte della vita sembravano in qualche modo ricollegarsi a
suggestioni popolari di una prosperità globale definitiva, in
cui il lavoro umano viene benignamente sostituito dall’automazione,
l’umanità si accinge alla trionfale esplorazione dello
spazio, la criminalità e le malattie vengono debellate una
volta per tutte e così via. Per quanto fallace, la fiducia
nella tecnologia come mezzo per risolvere i problemi sociali più
complessi non veniva messa in discussione. Oggi, invece, il tempo
accelerato di un cambiamento apparente rende impossibile qualunque
riferimento a un quadro più ampio, condiviso collettivamente,
che possa reggere un’anticipazione anche soltanto vaga di un
futuro diverso dalla realtà contemporanea. Il 24 /7 è
costruito intorno ai valori individuali della competitività,
della crescita, della tendenza all’accumulo, della sicurezza
personale e della comodità a spese altrui. Poiché il
futuro è continuamente a portata di mano, diventa concepibile
soltanto come continuità dell’impegno per u ulteriore
vantaggio individuale o per la propria sopravvivenza in un tempo
presente che non potrebbe essere più vacuo.
Il
mio ragionamento segue due diversi fili conduttori che si trovano in
apparente contrasto. In primo luogo, sto affermando, come altri
autori, che la cultura tecnologica contemporanea corrisponde ancora,
nelle sue manifestazioni, alla logica della modernizzazione avviata
alla fine del XIX secolo, per cui vi sono alcune caratteristiche
essenziali del capitalismo degli inizi del XXI secolo che possono
essere ricondotte in qualche modo ai piani industriali di personaggi
come Werner Siemens, Thomas Edison e George Eastman. I loro nomi
possono rappresentare in modo emblematico lo sviluppo degli imperi
delle multinazionali strutturate in modo verticistico, che hanno dato
una nuova forma ad aspetti fondamentali del comportamento sociale. Le
loro ambizioni di precursori furono realizzate attraverso (1) una
concezione dei bisogni umani per cui essi sono sempre mutevoli e
ampliabili, (2) un’idea embrionale della merce intesa come
elemento potenzialmente convertibile in flussi astratti, che siano di
immagini, di musica o di energia, (3) l’adozione di sistemi più
efficaci per diminuire il tempo di circolazione e (4) nel caso di
Eastman e Edison, una precoce ma chiara visione delle reciprocità
economiche che intercorrono fra l’hardware e il software. Le
conseguenze di questi modelli del XIX secolo, specialmente
l’agevolazione e la massimizzazione della distribuzione di
contenuti, si sono largamente imposte sulla vita umana per tutto il
XX secolo.
In secondo luogo, in alcuni momenti del tardo XX
secolo, è possibile identificare, nella successione delle
diverse fasi della modernizzazione, una costellazione di forze e di
entità distinte da quelle del XIX secolo. Alla fine degli anni
Novanta, le organizzazioni a carattere verticistico hanno subito una
profonda trasformazione, come risulta dagli esempi più noti
della Microsoft, di Google e altri, benché alcuni residui
delle strutture gerarchiche precedenti persistessero accanto ai nuovi
modelli, più flessibili e capillari, di implementazione e
controllo. Il tale contesto ormai mutato, il consumo tecnologico
coincide – tanto da confondersi completamente – con
strategie ed effetti di potere. Certamente, per gran parte del XX
secolo, l’organizzazione della società dei consumi non è
mai stata disgiunta da forme di assoggettamento e di controllo
sociale, ma ora la gestione del comportamento economico è
diventata un sistema atto a formare e perpetuare individui docili e
consenzienti.
Non ha cessato di rimanere in atto la logica
precedente dell’obsolescenza pianificata, continuando ad
alimentare la richiesta di sostituzione o di miglioramento. In ogni
caso, anche se la dinamica che determina l’innovazione dei
prodotti continua ad essere collegata all’incremento dei
profitti o alla competizione fra le aziende per il dominio nel
proprio settore, il maggior spazio di tempo occupato da sistemi,
modelli e piattaforme “migliorate” o riconfigurate
contribuisce in modo fondamentale alla ricostruzione del soggetto
individuale e all’intensificazione del controllo sociale. Un
atteggiamento passivo e una condizione di isolamento non sono
sottoprodotti occasionali di un sistema economico globale
finanziarizzato, ma sono alcune delle sue principali finalità.
Vi è un nesso anche più stretto fra i bisogni
individuali e i piani funzionali e ideologici di cui ogni nuovo
prodotto è inscritto. Lungi dall’essere quasi mai
soltanto concreti strumenti o apparecchiature, inoltre, i “prodotti”
sono in realtà servizi e interconnessioni di vario genere che
assumono rapidamente il valore di modelli ontologici dominanti o
esclusivi nella realtà sociale di ciascun individuo.
Ma
questo fenomeno contemporaneo di accelerazione continua non si
manifesta come una semplice successione lineare di innovazioni, per
cui ogni nuovo prodotto si sostituisce a un altro che non è
più di moda. A ogni sostituzione si accompagna una crescita
esponenziale delle scelte e delle opzioni possibili. Si tratta di un
processo inarrestabile di ampliamento ed espansione, che accade in
modo simultaneo su livelli e in sedi diverse, per cui vi è una
moltiplicazione delle fasce temporali e degli ambiti esperienziali
annessi alle operazioni e alle necessità delle nuove
tecnologie. La dinamica della dislocazione (o obsolescenza) costante
si sposa a un aumento e una diversificazione dei processi e dei
flussi con cui ogni individuo viene collegato in maniera sempre più
efficace. Ogni tecnologia apparentemente nuova rappresenta anche una
dilatazione qualitativa nell’adattamento di ciascuno alla
dipendenza del 24/7 e dalle sue routine; costituisce un’occasione
ulteriore nello sviluppo del processo per cui l’individuo viene
trasformato in un’applicazione di nuovi sistemi di
controllo e imprese.
Va
detto però che, attualmente, è possibile sperimentare i
vari tipi di funzionamento di un sistema economico globale in
un’ampia varietà di modi. Nelle aree più
multiculturali del pianeta, le strategie di depotenziamento degli
individui, basate sull’imposizione di tecniche di
personalizzazione digitale e di autoamministrazione, si espandono
anche nei gruppi a reddito molto basso. Vi sono, poi,
contemporaneamente, grandi masse di persone che si trovano a livello
di mera sussistenza o anche al di sotto, che non possono essere
integrate in relazione alle nuove esigenze dei mercati e diventano
quindi irrilevanti e sacrificabili. La morte, per molti versi, è
uno dei sottoprodotti del capitalismo: nel momento in cui una persona
è stata privata di tutto, dalla sua forza lavoro alle sue
risorse di ogni genere, essa diventa semplicemente inutile. D’altra
parte, l’attuale crescita di fenomeni come la schiavitù
sessuale e il traffico di organi e altre parti del corpo induce a
pensare che il limite estremo di utilizzabilità di un essere
umano potrebbe anche venire spostato, al fine di soddisfare le
esigenze di nuovi settori di mercato.
Questo inarrestabile
accrescimento dei consumi tecnologici, in corso da almeno due o tre
decenni, non permette in alcun caso un intervallo di tempo abbastanza
lungo da far sì che l’uso di un certo prodotto o la
combinazione di diverse apparecchiature possa diventare tanto
familiare da venire relegato fra gl elementi di sfondo della propria
vita. L’importanza delle funzionalità operative e delle
prestazioni supera di gran lunga l’interesse di ciò che
un tempo sarebbe stato presentato come “contenuto”. Il
dispositivo non è più il mezzo per conseguire un certo
insieme di risultati, ma è diventato fine a se stesso. La sua
finalità principale è quella di condurre il proprio
utente a svolgere in modo sempre più efficiente i propri
compiti e la propria funzione nella quotidianità. Non è
prevista a livello sistemico la possibilità che vi sia
un’interruzione o una pausa nella quale si apra un quadro
temporale di più lungo respiro, in cui facciano la loro
comparsa forme di impegno e progettualità sovraindividuali. La
durata assai breve del ciclo vitale di un determinato dispositivo o
apparecchiatura giustifica la sensazione di piacere e l’aura di
prestigio associati al suo possesso ma comporta anche, nel contempo,
la consapevolezza che l’oggetto in quanto tale è segnato
da un destino di impermanenza e di caducità. I tempi di
sostituzione una volta erano abbastanza lunghi da permettere che
l’illusione volontaria della semipermanenza si instaurasse
almeno per un certo lasso di tempo. Oggi, il fatto che sia
sufficiente una durata così breve perché un sofisticato
prodotto tecnologico si trasformi in niente altro che spazzatura
richiede fin dall’inizio la compresenza di due disposizioni
mentali contraddittorie: da una parte, il bisogno e/o il desiderio
dell’oggetto, dall’altra, l’accettazione positiva
della sua appartenenza a un processo di inesorabile cancellazione e
sostituzione. Le incalzanti immissioni nel mercato di prodotti sempre
nuovi provocano una disabilitazione della memoria collettiva e
implicano il fatto che lo svuotamento della conoscenza storica non
debba più essere realizzato come imposizione dall’alto.
Le condizioni di accesso al flusso delle informazioni e della
comunicazione su base quotidiana assicurano la cancellazione
sistematica del passato come parte della costruzione fantasmatica del
presente.
Inevitabilmente, cicli tanto brevi potranno
suscitare, almeno in alcuni, il timore di essere fuori moda e altre
frustrazioni del genere. Per tutti diventa importante, in ogni caso,
saper riconoscere gli stimoli capaci di maggiore attrazione, al fine
di adattarsi a una sequenza in continua evoluzione, fondata sulla
promessa di funzionalità sempre migliori, benché
l’offerta di concreti benefici venga in realtà sempre
differita. Attualmente, il desiderio di accumulare oggetti conta meno
rispetto alla ricerca di una conferma chela propria vita sia conforme
a quelle applicazioni, quegli strumenti o quelle reti che, in ogni
singolo istante, vengono offerte e promosse con grande clamore. Da
questo punto di vista, i ritmi accelerati di acquisizione ed
eliminazione non sono sentiti come qualcosa di negativo ma, anzi,
come un segno tangibile della propria capacità di accedere ai
flussi e alle funzionalità più richieste. Come
osservano Boltanski e Chiapello, i fenomeni sociali caratterizzati da
stasi apparenti o da bassi ritmi di cambiamento vengono sospinti ai
margini e destituiti di valore o desiderabilità. Si avverte
attualmente una tendenza più o meno forte a rifuggire
qualsiasi impegno o attività che non preveda l’uso di
una sofisticata interfaccia con molteplici collegamenti.
La
soggezione nei confronti di queste configurazioni finisce per
diventare ineluttabile, per timore dei presagi di fallimento sociale
ed economico, per paura di restare indietro o di essere ritenuti
fuori moda. I ritmi incalzanti del consumo di nuove tecnologie sono
strettamente correlati all’esigenza di un’autoamministrazione
permanente. Ogni nuovo prodotto o servizio viene presentato come un
aiuto fondamentale alla gestione burocratica dell’esistenza e
vi è un numero in costante crescita di routine e di operazioni
che vanno a popolare la nostra vita senza che nessuno le abbia
davvero scelte. Il livello di privatizzazione e compartimentazione
raggiunto nelle attività di ciascuno in questa sfera tende a
rafforzare l’illusione che si possa “ingannare il
sistema” e riuscire ad assumere un atteggiamento di personale
superiorità, di maggiore intraprendenza o di minore
compromissione, in apparenza, rispetto a quei compiti. Il mito
dell’hacker solitario perpetua la fantasia che la
relazione asimmetrica dell’individuo nei confronti della rete
possa essere interpretata dal primo in modo creativo, a proprio
favore. Nella vita contemporanea, il lavoro di autogestione cui siamo
costretti ha i tratti inevitabili di una omogeneità imposta.
L’illusione della scelta e dell’autonomia è uno
dei fondamenti di questo sistema globale di autoregolazione. Non è
raro imbattersi ancora nell’idea che gli assetti tecnologici
contemporanei siano un insieme essenzialmente neutrale di strumenti
che possono essere utilizzati in molti modi, anche al servizio di una
politica emancipativa. Il filosofo Giorgio Agamben ha respinto ogni
possibile affermazione di questo genere, replicando che “oggi
non vi è neppure un singolo istante in cui la vita degli
individui non sia modellata, contaminata o controllata da un qualche
dispositivo”. Egli afferma in modo assai persuasivo che “è
del tutto impossibile che il soggetto del dispositivo lo usi ‘nel
modo giusto’. Coloro che tengono simili discorsi sono, del
resto, a loro volta il risultato del dispositivo mediatico in cui
sono catturati” [2].
Concentrare l’attenzione sulle
proprietà estetiche delle immagini digitali, come accade a
molti teorici e critici, significa dimenticare la subordinazione
dell’immagina a un’ampia gamma di operazioni e di
esigenze non visive. La maggior parte delle immagini oggi sono
prodotte allo scopo di massimizzare la quantità di tempo
trascorso in forme quotidiane di autogestione e autoregolazione
individuale. Secondo Fredric Jameson, con il venir meno di quei
confini che per consuetudine erano sentiti come invalicabili tra la
sfera lavorativa e quella del tempo libero, l’impegnativo di
guardare le immagini è diventato di fondamentale importanza
per ciò che concerne il funzionamento delle istituzioni
dominanti nell’epoca attuale. Egli sottolinea il fatto che le
immagini della cultura di massa, fino alla metà del XX secolo,
rappresentavano spesso un modo per aggirare gli opprimenti divieti
del Super-Io [3]. Ora, in una sorta di capovolgimento, le perentorie
istanze di perpetua immersione 24 /7 nel flusso dei contenuti visivi
diventano di fatto una nuova forma di Super-Io istituzionale.
Naturalmente, vengono guardate o anche solo viste molte più
immagini e di maggiore varietà di quanto non sia mai stato
possibile fino a oggi, ma ciò avviene nell’ambito di
quella che Foucault ha definito come una “rete di osservazione
permanente”. La maggior parte delle accezioni che, di volta in
volta, il termine “osservatore” ha assunto nel corso
della storia risultano stravolte nelle condizioni attuali, nel
momento in cui, cioè, gli atti individuali della visione sono
costantemente sollecitati per essere trasformati in informazioni, non
soltanto al fine di potenziare le tecnologie del controllo, ma
anche per diventare una specie di plusvalore, in un mercato che
risulta possibile fondamentalmente in base all’accumulazione
dei dati relativi al comportamento degli utenti. Il rovesciamento dei
presupposti risulta ancora più significativo se consideriamo
la posizione e la capacità di agire di un osservatore in
quella svariata e sempre più ampia serie di mezzi tecnici che
sono in grado di trasformare gli stessi atti della visione in oggetti
di osservazione.
I
sistemi di sorveglianza e di analisi dei dati più avanzati, in
uso presso le agenzie di intelligence, sono
diventati indispensabili, oggi, anche nelle strategie di marketing
delle grandi imprese. Assai diffusi sono per esempio gli schermi o
altri tipi di display capaci di trasformare i movimenti oculari, così
come la durata e i punti di interesse visivo, in sequenze o flussi di
dati graficamente rappresentati. Lo spoglio casuale, a opera di
chiunque, di una pagina web, può diventare oggetto di analisi
particolareggiate e di precise misurazioni rispetto ai modi in cui
procede lo sguardo, ciò che esamina, in quali punti e per
quanto tempo si ferma e quali elementi considera con attenzione
prioritaria. Anche nei corridoi e nei reperti dei grandi
supermercati, possono esserci in funzione lettori di movimenti
oculari capaci di fornire informazioni dettagliate riguardo al
comportamento individuale, per esempio, per quanto tempo ci si è
soffermati a osservare gli articoli che non si
sono poi scelti. È stata anche finanziata in modo assai
sostanzioso, in un particolare caso, una ricerca applicativa
sull’ergonomia ottica. Siamo chiamati a collaborare in modo
passivo e non di rado anche volontario alla sorveglianza e
all’estrazione di dati dalle nostre azioni. Di qui lo sviluppo
vertiginoso di sistemi sempre più raffinati, capaci di
intervenire sia sul comportamento individuale sia su quello
collettivo.
Nello stesso tempo, le immagini sono
strettamente collegate con quella varietà di informazioni non
visive che occupano la nostra attenzione regolarmente. La percezione
sensoriale strumentalizzata è un aspetto meramente accessorio
in relazione a quell’insieme cumulativo di attività che
vanno dall’accesso all’archiviazione, dalla formattazione
alla manipolazione, alla circolazione, allo scambio. I pervasivi
flussi di immagini 24 /7 sono immensi, ma ciò che anzitutto
risulta assolutamente impegnativo è la gestione delle
condizioni tecniche che li riguarda: tutte le operazioni in continuo
aumento di esecuzione e trasmissione, creazione e archiviazione,
aggiornamento e introduzione di nuovi accessori.
Ci si imbatte costantemente nella convinzione follemente presuntuosa che modelli sistemici come questi siano “definitivi” e che livelli di consumo tecnologico così elevati possano estendersi a una popolazione planetaria di sette miliardi di persone, che presto diventeranno dieci. Molti di coloro che celebrano le potenzialità di trasformazione delle reti informatiche dimenticano le forme oppressive del lavoro umano e la distruzione ambientale strettamente connessa con le loro fantasie di virtualità e dematerializzazione. Anche in molti di coloro secondo cui “un altro mondo è possibile” alberga il comodo equivoco che la giustizia economica, la riduzione dei cambiamenti climatici e l’uguaglianza dei rapporti sociali possano in qualche modo realizzarsi nello stesso mondo in cui continuano a esistere multinazionali come Google, Apple e General Electric. Ogni ipotetico contrasto nei confronti di simili illusioni deve fare i conti con forme di sorveglianza intellettuale di molti tipi. Pesa un vero e proprio divieto non solo sulla critica del consumismo tecnologico coatto, ma anche sulla proposta di riorientare le funzionalità e i presupposti tecnici esistenti, affinché siano messi al servizio dei bisogni degli esseri umani e della società, anziché delle esigenze dell’impero capitalistico. L’insieme limitato e vincolato dai monopoli dei prodotti e dei servizi elettronici disponibili in un particolare momento viene mascherato come l’onnicomprensivo fenomeno della “tecnologia”. Anche un parziale rifiuto dell’offerta promossa tanto intensamente sul mercato da parte delle multinazionali viene interpretato come avversione per la tecnologia in quanto tale. L’intento di attribuire agli assetti odierni, di fatto improponibili e insostenibili, caratteri anche solo lievemente diversi dall’inevitabilità e dall’immutabilità, è una vera e propria eresia, nella cultura contemporanea. È diventata inammissibile l’idea stessa che esistano opzioni di vita credibili o visibili al di fuori di quanto richiesto dal sistema di comunicazione e consumo 24 /7. Qualsiasi tentativo di discutere o screditare quelli che attualmente sono i mezzi più idonei per ottenere un atteggiamento docile e quiescente e promuovere l’interesse individuale come unica raison d’etre di ogni attività sociale, viene rigorosamente emarginato. La scelta di elaborare progetti di vita in cui la tecnologia sia svincolata da una logica di avidità, accumulazione e spoliazione ambientale si guadagna perentorie forme di condanna istituzionale. In particolare, dell’applicazione di una simile politica si incarica quella classe di accademici e di critici che Paul Nizan ha chiamato “les chiens de garde”: oggi i cani da guardia sono quegli intellettuali e scrittori tecnofili ansiosi di darsi lustro sulla ribalta dei media e in cerca di ricompense e riconoscimento da parte di coloro che detengono il potere. Naturalmente, non sono soltanto questi gli ardui ostacoli che l’immaginazione collettiva deve superare per concepire un rapporto creativo fra tecnologia e realtà sociale.
Il
filosofo Bernard Stiegler ha elaborato a fondo le conseguenze di
quella che egli definisce come l’omogeneizzazione
dell’esperienza percettiva nella cultura contemporanea [4]. Il
maggiore interesse della sua ricerca è la circolazione globale
degli “oggetti temporali” prodotti in serie che
comprenderebbero film, programmi televisivi, musica popolare e
videoclip. Stiegler considera l’avvento dell’ampia
diffusione di internet, nella prima metà degli anni Novanta
(per la precisione, il 1992 come momento chiave), un punto di svolta
decisivo nella storia degli audiovisivi industriali e del loro
impatto sociale. Negli ultimi due decenni, secondo lui, essi sono
stati responsabili di una “sincronizzazione di massa”
della coscienza e della memoria. La standardizzazione dell’esperienza
su vasta scala, sostiene, implica una perdita di identità
soggettiva e di singolarità; conduce anche alla catastrofica
scomparsa della creatività e della partecipazione individuale
alla produzione dei simboli che vengono scambiati e condivisi da
tutti. La sua nozione di sincronizzazione è radicalmente
diversa da quelle che più sopra abbiamo definito temporalità
condivise, in cui la compresenza di differenze e di alterità
potrebbe fungere da base per collettività o comunità
provvisorie. Stiegler conclude che è in corso una distruzione
di quel “narcisismo primordiale” che è
fondamentale affinché un essere umano si prenda cura di se
stesso o di altri e ravvisa nei numerosi episodi di suicidio/omicidio
di massa le infauste conseguenze di questo danno psichico ed
esistenziale così diffuso [5]. Egli invoca con urgenza la
creazione di prodotti alternativi che possano reintrodurre la
singolarità nell’esperienza culturale e in qualche modo
separino il desiderio dagli imperativi del consumo.
L’opera
di Stiegler rappresenta un’attenuazione dei toni trionfalistici
che caratterizzavano a metà degli anni Novanta le versioni più
comuni del rapporto fra globalizzazione e nuove tecnologie. In molti
all’epoca prevedevano l’avvento di una società
multiculturale, di razionalità locali, di un pluralismo
disperso e senza centro, radicato in una sfera pubblica fatta di
tante comunità virtuali. Secondo Stiegler, l’auspicio di
simili sviluppi era viziato da un equivoco di fondo riguardo alla
direzione di diversi processi della globalizzazione. L’epoca
che comincia con gli anni Novanta non è tanto un’era
postindustriale, quanto piuttosto un’era iperindustriale, in
cui la logica della produzione di massa è stata in pochissimo
tempo affiancata da tecniche capaci di organizzare in modi del tutto
nuovi la fabbricazione, la distribuzione e la soggettivazione su
scala mondiale.
Benché gran parte del ragionamento di
Stiegler sia convincente, la questione degli “oggetti
temporali”, a mio parere, è di secondaria importanza
rispetto alla colonizzazione sistemica dell’esperienza
individuale, ben più significativa, che abbiamo trattato in
queste pagine. Il tema più importante ora non è la
cattura dell’attenzione da parte di un singolo oggetto –
che sia un film, un programma televisivo o un brano musicale –
il cui effetto sulle masse sembra rivestire il maggiore interesse per
Stiegler, quanto piuttosto riportare l’attenzione sulla
capacità di compiere operazioni e formulare risposte che si
sovrappongono continuamente ad atti del vedere o dell’ascoltare.
Le condizioni di separazione, isolamento e neutralizzazione degli
individui, più che dall’omogeneità dei prodotti
mediatici, viene perpetuata dagli assetti più ampi e
inevitabili all’interno dei quali quegli elementi e molti altri
diventano oggetto di consumo. Il “contenuto” audiovisivo
molto spesso è solo materiale effimero, intercambiabile che,
in aggiunta al suo status di merce, ha lo scopo
di circolare per consolidare e confermare il pieno e totale
adeguamento di ciascuno alle esigenze del capitalismo del XXI secolo.
Stiegler tende a caratterizzare i media audiovisivi come modello di
ricezione relativamente passiva, ispirato in questo senso, per certi
aspetti, dal fenomeno della trasmissione televisiva. Uno degli esempi
più significativi cui si richiama è la finale della
Coppa del mondo di calcio, momento in cui le medesime immagini sono
viste da miliardi di persone in tv nel medesimo momento. Una simile
idea di ricezione, tuttavia, trascura le caratteristiche essenziali
dei prodotti mediatici attuali, che sono interpretati come risorse da
manipolare, gestire, scambiare, rivedere, archiviare, consigliare e
“seguire” attivamente. Qualsiasi atto del vedere risulta
stratificato con opzioni che prevedono azioni simultanee, tali da
potersi interrompere a vicenda, scelte alternative ed effetti di
retroazione. L’idea di lunghi segmenti temporali trascorsi
esclusivamente da spettatori è superata. Si tratta di tempo
fin troppo prezioso per non essere sfruttato abilmente con molteplici
fonti di stimoli e opzioni che consentono di massimizzare le proprie
possibilità di rendimento economico e di fornire
ininterrottamente sempre più dati e informazioni sulla propria
utenza.
È importante considerare anche altre industrie elettroniche onnipresenti, per quanto i loro effetti siano più indefiniti e indeterminati, produttrici di quegli oggetti temporali online che sono le scommesse, la pornografia e i videogiochi in rete. Gli impulsi e gli appetiti in gioco, in tal caso, con le conseguenti illusioni di bravura, vincita e possesso, rappresentano modelli fondamentali per l’intensificazione del consumismo 24 /7. Un esame più approfondito di generi come questo, che hanno caratteristiche più volatili, probabilmente renderebbe più ardue le conclusioni di Stiegler sulla cattura del desiderio o il crollo del narcisismo primordiale. Per sua stessa ammissione, il postulato di Stiegler che esista una sincronizzazione di massa è in realtà pieno di sfumature e può essere solo con grande difficoltà ricondotto all’idea di una totalità di persone che abbiano in mente la stessa cosa o agiscano nello stesso modo. Esso è basato inoltre su una fenomenologia forzata, per non dire artificiosa, degli atti di ritenzione o di memoria. Tuttavia, all’idea dell’omogeneizzazione industriale della coscienza e dei suoi flussi, si può contrapporre il concetto di parcellizzazione e frammentazione delle aree condivise dell’esperienza in microcosmi artificiali fatti di immagini e di simboli affettivi. La quantità insondabile delle informazioni accessibili può essere dispiegata e organizzata al servizio di qualsiasi intento, personale o politico, che rientri o meno nella normalità. Attraverso le possibilità illimitate della selezione e della personalizzazione, gli individui, per quanto uniti da una stretta prossimità fisica, possono abitare universi incommensurabili e non comunicanti. Comunque, nella stragrande maggioranza questi microcosmi, malgrado i contenuti evidentemente più disparati, sono caratterizzati da strutture e segmentazioni temporali totalmente e inevitabilmente identiche.
Vi
sono altre forme di sincronizzazione di massa tipiche dell’età
contemporanea che non sono strettamente collegate ai sistemi di
comunicazione delle reti informatiche. Un esempio significativo è
la situazione creata dal traffico globale delle droghe psicoattive,
da quelle legali a quelle che non lo sono a tutta quella zona
indistinta compresa nel mezzo (antidolorifici, tranquillanti,
anfetamine e così via). Quelle centinaia di milioni di
persone, che assumono nuovi preparati per la depressione, i disturbi
bipolari, l’iperattività e molti altri sintomi
variamente denominati, formano diversi aggregati di individui il cui
sistema nervoso ha subito modificazioni simili. Si potrebbe
ovviamente dire lo stesso a proposito degli enormi bacini di persone,
in ogni continente, che acquistano e utilizzano sostanze illegali,
oppiacee o derivate dalla coca, oppure droghe sintetiche, il cui
numero è in costante crescita. Perciò, da una parte,
abbiamo una gamma di reazioni e di comportamenti piuttosto uniforme
fra gli assuntori di un determinato prodotto farmaceutico;
dall’altra, invece, vi è una varietà assai
composita a livello globale di popolazioni che usano droghe di ogni
tipo, spesso simili sul piano molecolare, ma dagli effetti più
diversi, sia per quanto riguarda gli stati di ebbrezza che per i
danni correlati che provocano. Con le droghe abbiamo lo stesso
problema che si riscontrava in relazione agli oggetti mediatici
ovvero l’impossibilità – nonché
l’irrilevanza – della scelta di assegnare ad un singolo
elemento specifico il ruolo di fattore dell’alterazione della
coscienza. Vi sono insiemi compositi di elementi, mutevoli e
indistinti, sia nella ricezione dei flussi informatici sia
nell’ingestione delle sostanze neurochimiche.
Non è
mia intenzione affrontare il vasto argomento dei rapporti fra media e
droghe né mettere alla prova l’assunto assai diffuso che
ogni medium sia una droga e viceversa. Vorrei piuttosto sottolineare
il fatto che i modelli di consumo generati dai media e dagli attuali
prodotti della comunicazione sono presenti anche in altri mercati
globali in via di espansione, come quelli controllati dai colossi
delle multinazionali farmaceutiche. Anche in essi vi è
un’accelerazione del tempo, per cui vengono presentati prodotti
sempre nuovi e apparentemente aggiornati. Frattanto, sono in continuo
aumento gli stati fisici o psichici per i quali vengono sviluppate e
promosse sempre nuove sostanze, presentate come trattamento efficace
e necessario. Come nel caso delle apparecchiature e dei servizi
digitali, vi è una continua produzione di “pseudobisogni”
o di esigenze per cui le nuove merci diventano l’unica
soluzione possibile. L’azione dell’industria
farmaceutica, con il sostegno delle neuroscienze, rappresenta inoltre
un esempio efficace dei processi di finanziarizzazione e di
esternalizzazione che oggi interessano quella realtà un tempo
nota come “vita interiore”. Negli ultimi due decenni, una
gamma crescente di stati emotivi è stata annessa alla
patologia per aprire nuovi e ampi mercati a prodotti di cui prima non
si sentiva il minimo bisogno. Le tonalità mutevoli degli
affetti e delle emozioni umane, espresse nel modo più sommario
dalle nozioni di timidezza, di ansia, di calo del desiderio sessuale,
di distrazione o di tristezza, sono ingannevolmente ridotte a
disturbi clinici, su cui farmaci portatori di enormi profitti sono
pronti a intervenire.
Fra i molti parallelismi che si possono
ravvisare tra l’uso delle sostanze psicotrope e gli strumenti
della comunicazione, uno è sicuramente la produzione, in
entrambi i casi, di atteggiamenti di acquiescenza sociale. Attribuire
importanza soltanto agli effetti sedativi e tranquillanti, però,
significa trascurare lo spirito di iniziativa l’ingegno
organizzativo che ispirano anche i mercati che propongono queste
categorie di prodotti. Per esempio, il consumo ormai ampiamente
diffuso fra gli adulti di farmaci per l’A.D.H.D. (disturbo da
deficit di attenzione e iperattività) spesso è
determinato dall’aspettativa di aumentare la propria efficienza
e capacità di competizione sul lavoro. Peggio ancora, non è
raro che il fenomeno della dipendenza dalle anfetamine si ricolleghi
all’illusione distruttiva di dover primeggiare sempre e
comunque nelle proprie prestazioni, con fini di autoesaltazione. Sono
le dimensioni globali di questi mercati e la loro dipendenza da
scelte coerenti o prevedibili a determinare l’inevitabile
risultato di una condizione di omologazione generalizzata.
Quest’ultima non viene conseguita attraverso la progettazione
di individui simili tra loro, come affermavano un tempo le teorie
della società di massa, ma con la riduzione o l’eliminazione
delle differenze, in modo tale da restringere la gamma di
comportamenti che possono funzionare in modo efficace o con successo
nella maggior parte dei contesti istituzionali contemporanei. Perciò,
si diffonde ovunque una certa piattezza, divenuta normale a causa di
un consumismo dai ritmi sempre più accelerati, non solo in
alcuni ceti professionali o gruppi di età, ma anche in fasce
di reddito relativamente basso. Paul Valéry previde simili
sviluppi fin dagli anni Venti, comprendendo che la civiltà
tecnocratica avrebbe infine cancellato qualsiasi altra forma di vita
che non si inquadrasse o risultasse incommensurabile rispetto alle
sue modalità di funzionamento [6]. Piatto significa anche “dai
tratti morbidi, cedevoli”, a differenza di quelli del calco o
dello stampo, spesso impliciti nella nozione di “conformità”.
Le deviazioni vengono appiattite o cancellate, con il risultato di
produrre ciò che – come da vocabolario – non è
“né aggressivo né fortificante”. Questo
fenomeno ha assunto la massima evidenza, in particolare, nell’ultimo
decennio circa, con la scomparsa o l’addomesticamento di quella
che una volta costituiva una varietà assai più ampia
dei contrassegni tipici della marginalità culturale o della
condizione di outsider. L’onnipresenza di ambienti 24 /7 è
una delle condizioni di questo appiattimento, anche se il 24 /7 non
va inteso semplicemente come tempo omogeneo e uniforme, ma piuttosto
come una diacronia compromessa e svilita. Continuano ad esserci,
sicuramente, tempi differenziati, ma l’ampiezza e la profondità
delle caratteristiche per cui si distinguono fra loro si riduce e una
sostituibilità senza vincoli di sorta fra i diversi tempi
diventa la norma. Le tradizionali unità temporali persistono
(come “alle cinque meno dieci” o “da lunedì
a venerdì”), ma sovrapposte a esse vi sono tutte le
pratiche di gestione del tempo individuale rese possibili dalle reti
e dai mercati 24 /7.
Molti
tipi di lavoro alienante del passato, per quanto monotoni e gravosi,
non escludevano motivi di una soddisfazione dovuta alla propria
particolare abilitò o efficienza nell’utilizzo degli
strumenti o del macchinario in dotazione. Come fanno notare alcuni
storici, i moderni sistemi lavorativi non avrebbero potuto prosperare
senza una preventiva introduzione di nuovi valori, nel corso
dell’industrializzazione, al posto di quelli che avevano
promosso le abilità e la produzione artigianale. La
possibilità di sentirsi realizzati almeno in qualche prodotto
finale del proprio lavoro è diventata sempre meno plausibile
nelle condizioni di vita della grande fabbrica. Al contrario, è
stata incoraggiata in molti modi una vera e propria identificazione
con gli stessi processi meccanici. In parte, la cultura della
modernità si è affermata anche nel concetto, espresso
in vari modi, che il tentativo di emulare i ritmi scanditi,
l’efficienza e il dinamismo delle macchine sarebbe stato
gratificante. Comunque, quelle che spesso erano compensazioni
ambivalenti o meramente simboliche nei secoli XIX e XX sono diventate
un insieme più ricco di soddisfazioni, reali o immaginarie che
siano. A causa della permeabilità reciproca, se non della
confusione, fra tempo lavorativo e tempo libero, le abilità e
le azioni che una volta sarebbero state confinate all’ambiente
di lavoro appartengono ora universalmente al tessuto 24/7
dell’esistenza elettronica di ciascuno. La presenza costante in
ogni luogo di schermi e interfacce spinge inevitabilmente gli utenti
a impegnarsi per ottenere una prontezza e una perizia sempre
maggiori. La competenza che si acquisisce nei riguardi di ogni
particolare applicazione o strumento, tuttavia, rappresenta
effettivamente un livello di adeguamento più elevato
all’esigenza intrinsecamente funzionale di ridurre sempre più
la durata di ogni procedura o interazione. I dispositivi stimolano
una gestione apparentemente senza attrito, capacità e abilità
tecniche che sono fonte di autosoddisfazione e che possono anche
impressionare gli altri, in quanto superiorità nel fare un uso
efficiente e gratificante delle risorse tecnologiche a disposizione.
Una certa ingenuità potrebbe suggerire la convinzione
temporanea che si è dalla parte vincente del sistema, in
qualche modo in anticipo su altri; ma alla fine avviene un
livellamento generalizzato di tutti gli utenti in oggetti
intercambiabili, funzionali alla stessa espropriazione di massa del
tempo e della praxis.
L’adeguamento individuale a
queste temporalità ha determinato conseguenze sociali e
ambientali devastanti e ha prodotto una normalizzazione collettiva di
questa dinamica incessante di spostamento ed eliminazione. Poiché
si creano continuamente nuove perdite, esse cessano di essere
riconoscibili dal momento che la facoltà della memoria risulta
atrofizzata. L’autonarrazione più elementare della
propria vita modifica la propria composizione fondamentale. Invece di
una sequenza scontata di luoghi ed eventi collegati ai rapporti
famigliari, al lavoro e alle proprie relazioni sociali, il filo
conduttore principale nella storia della propria vita ora diventano
le merci e i media elettronici attraverso i quali tutta l’esperienza
è stata filtrata, registrata o costruita. Dal momento che è
scomparsa la possibilità di un lavoro per tutta la vita,
l’unica vita lavorativa durevole a disposizione per la maggior
parte delle persone è diventata l’elaborazione del
proprio rapporto con i dispositivi elettronici. Tutto ciò che
una volta veniva considerato vagamente “personale” viene
ora riconfigurato in modo da agevolare la ricostruzione di se stessi
in un miscuglio di identità che esistono solo come effetti di
assetti tecnologici transitori.
I
quadri di riferimento all’interno dei quali il mondo diventa
comprensibile continuano ad essere impoveriti di complessità,
spogliati di qualunque elemento non pianificato o non previsto. In
questo modo, tante forme antiche e polivalenti di scambio sociale
sono state trasformate in sequenze ricorrenti di stimolo e risposta.
Nello stesso tempo, le risposte possibili rientrano in quella che è
una serie scontata e, nella maggior parte dei casi, limitata a un
repertorio ridotto di azioni possibili. Poiché il proprio
conto bancario e le proprie amicizie possono ora venir gestite
attraverso le stesse operazioni e gesti meccanici, vi è in
atto una omogeneizzazione sempre maggiore di quelle che erano aree
dell’esperienza completamente separate fra loro. Nel contempo,
qualunque momento residuo della vita quotidiana non sia rivolto a
fini qualitativi o acquisitivi, o non possa essere adattato alla
partecipazione telematica, tende a perdere valore e desiderabilità.
Le attività della vita reale che non abbiano un correlativo on
line cominciano ad atrofizzarsi o smettono di avere
importanza. Vi è un’insormontabile asimmetria che
peggiora qualsiasi evento o scambio locale. A causa dell’abbondanza
senza limiti dell’offerta a disposizione 24/7, sarà
sempre possibile sperimentare on line contenuti più
interessanti, più sorprendenti, più piacevoli, più
impressionanti di tutto ciò che potremmo reperire
nell’immediatezza della realtà che ci circonda.
Rappresenta ormai un dato di fatto la consapevolezza che una
disponibilità senza limiti di informazioni o di immagini può
sorpassare o annullare qualsiasi comunicazione o riflessione svolte
con mezzi meramente umani.
Secondo il collettivo Tiqqun,
siamo diventati cittadini innocui e accomodanti delle società
urbane globali [7]. Anche in assenza di una qualche costrizione
esplicita, eseguiamo tutte le scelte che ci vengono proposte;
permettiamo la gestione dei nostri corpi, delle nostre idee, del
ostro intrattenimento e accettiamo che tutti i bisogni relativi al
nostro immaginario ci vengano imposti dall’esterno. Acquistiamo
prodotti che ci sono stati raccomandati attraverso il monitoraggio
delle nostre esistenze elettroniche e poi, volontariamente, lasciamo
traccia per gli altri riguardo a quello che abbiamo acquistato. Siamo
il soggetto arrendevole che si lascia sottoporre ad ogni tipo di
intrusione biometrica e di sorveglianza, ingerisce cibo e acqua
tossici e vive in prossimità di reattori nucleari senza
protestare. La nostra assoluta abdicazione a ogni responsabilità
nella vita ci viene ricordata dai titoli di quelle guide i cima alle
classifiche di vendita che ci dicono con tono lugubre e fatale, i
1000 film, le 100 destinazioni turistiche, i 500 libri che non
possiamo non consumare prima di morire.
-
Una precoce e significativa anticipazione della temporalità 24/7 fin qui discussa fu elaborata in una famosa opera d’arte. L’artista britannico Joseph Wright of Derby, intorno al 1782, eseguì un dipinto intitolato “Il cotonificio Arkwright di notte”. Questo quadro è stato riprodotto in molti libri di storia dell’industrializzazione per illustrate – spesso in modo discutibile – l’impatto della produzione di fabbrica sull’Inghilterra rurale dell’epoca (un impatto che non fu percepito nella su reale portata ancora per molti decenni). La particolarità del dipinto deriva in parte dall’inserimento piuttosto stridente, per quanto attenuato, di un edificio in mattoni di sei o sette piani in una campagna boscosa incontaminata. Come hanno osservato gli storici, si tratta di strutture architettoniche che non hanno precedenti nella tradizione inglese. Decisamente inquietante, comunque, è l’idea di una scena notturna in cui il plenilunio che rischiara un cielo ammantato di nuvole coesiste con i particolari di finestre illuminate dall’interno con lampade a petrolio. L’illuminazione artificiale delle fabbriche annuncia lo sviluppo razionalizzato di una relazione astratta fra tempo e lavoro, disgiunta dal tempo ciclico dei movimenti lunari e solari. La novità dei cotonifici Arkwright non risiede in un particolare fattore meccanico, come nel caso della macchina a vapore o dei filatoi di recente concezione (dal momento che erano azionati esclusivamente ad acqua). Consiste piuttosto in una radicale ridefinizione dei rapporti fra il lavoro e il tempo: si introduce l’idea di un sistema in cui le operazioni produttive non si fermano mai, di un lavoro che, per diventare più redditizio, funziona appunto 24/7. In particolare, nel sito raffigurato nel dipinto, una forza lavoro umana, che non escludeva un gran numero di minori, era adibita al lavoro alle macchine per turni ininterrotti di dodici ore ciascuno. Marx comprese il fatto che l’instaurazione del capitalismo era strettamente correlata a questa riorganizzazione del tempo, in particolare del tempo del lavoro vivo, come modo per creare plusvalore, citando per sottolineare il concetto, Andrew Ure, il patrocinatore scozzese della razionalizzazione industriale: si trattava della “disciplina necessaria per far rinunziare agli uomini alle loro abitudini irregolari nel lavoro, e per farli identificare con la regolarità invariabile di un grande automa. Inventare e mettere in vigore un codice di disciplina manifatturiera, conveniente ai bisogni e alla celerità del sistema automatico, ecco invece un’impresa degna di Ercole; ed ecco appunt la nobile fatica di Arkwright” [1].
PAGINA IN CONTINUO AGGIORNAMENTO.
ULTIMO
AGGIORNAMENTO: 10-07-2020