24/7
Il capitalismo all’assalto del sonno



Aperto 24 ore su 24, 7 giorni su 7, è il mantra del capitalismo contemporaneo. È l’ideale di una vita senza pause, attiva in qualsiasi momento del giorno o della notte, in una sorta di condizione di veglia globale. Viviamo in un non tempo interminabile che offusca ogni separazione tra un intenso e ubiquo consumismo e le strategie di controllo e sorveglianza. “24/7” delinea questo processo di erosione del tempo: un adulto di oggi dorme sei ore e mezzo per notte in media, contro le otto della generazione precedente e le dieci dei primi anni del XX secolo. Sembra impossibile non lavorare, mangiare, giocare, chattare o twittare lungo l’intero arco della giornata, non c’è momento della vita che sia realmente libero. “24/7” è una riflessione teorica, che combina riferimenti filosofici, analisi di film, opere d’arte, esperimenti scientifico-militari e romanzi, per dar vita ad un’antropologia critica della contemporaneità. La sua conclusione, tanto rivoluzionaria quanto inattesa, si potrebbe riassumere cosi: “Lavoratori di tutto il mondo, Riposatevi!”

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Indice

- Capitolo primo

- Capitolo secondo

- Capitolo terzo

- Capitolo quarto


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Capitolo primo


O pur riduciamo a spauracchio il giorno,
miscuglio e non finita cosa il mondo.
W. H. AUDEN



Come è noto a chiunque abbia vissuto sulla costa occidentale del Nord America, i volatili delle più varie specie annualmente compiono, su quel versante della piattaforma continentale, vaste migrazioni stagionali, spostandosi su tragitti di lunghezza variabile, da sud a nord e viceversa. Fra gli altri, il passero dalla corona bianca, che in autunno scende dall’Alaska fino al Messico settentrionale, per poi fare ritorno a nord in primavera. Questa particolare specie possiede una capacità decisamente insolita che la distingue dalla maggioranza degli altri uccelli, quella di rimanere in stato di veglia per un’intera settimana durante la migrazione. Grazie a questo comportamento stagionale, di notte il passero dalla corona bianca è in grado di volare seguendo la rotta, mentre di giorno può dedicarsi alla ricerca del cibo, senza alcun bisogno di riposarsi. Nell’ultimo lustro, il Dipartimento della Difesa americano ha investito notevoli somme di denaro nello studio di queste singolari creature. Molti ricercatori di varie università, in particolare quella di Madison, nel Wisconsin, grazie ai finanziamenti governativi hanno analizzato l’attività cerebrale di questi volatili durante i loro lunghi periodi di insonnia, sperando di ricavarne conoscenze applicabili agli esseri umani. Scopo della ricerca è scoprire in che modo sia possibile un’astensione completa dal sonno e al contempo un funzionamento produttivo ed efficiente. Il primo obiettivo sarebbe niente meno che la creazione di un nuovo prototipo di soldato libero dal bisogno di dormire, per cui la ricerca sul passero dalla corona bianca non è che una parte del più ampio tentativo in atto da parte delle forze armate di ottenere una forma di controllo, per quanto limitato, sul sonno umano. Seguendo l’iniziativa dell’Agenzia per le ricerche avanzate del Pentagono (la DARPA) [1], i ricercatori di varie accademie stanno attualmente conducendo test sperimentali su una varietà di tecniche antisonno, che spaziano dagli interventi neurochimici alla terapia genica alla stimolazione magnetica transcranica. Si intende mettere a punto nel breve termine un metodo che consenta ai soldati in azione un’astensione dal sonno della durata minima di una settimana e, a lungo termine, di quindici giorni, senza con ciò pregiudicare i livelli di prestazione mentale e fisica. I mezzi oggi in uso per procurarsi uno stato di insonnia efficiente comportano invariabilmente sintomi collaterali dannosi sul piano sia cognitivo che psichico (a cominciare da una diminuzione dei livelli di vigilanza mentale). Se ne è avuto ampio riscontro nell’utilizzo assai diffuso di anfetamine in quasi tutti i conflitti bellici del XX secolo e, in quelle più recenti, di sostanze come il Provigil. La ricerca scientifica attuale non ha più come obiettivo solo la stimolazione di uno stato di veglia, quanto piuttosto LA RIDUZIONE DEL SONNO COME BISOGNO NATURALE DEL CORPO UMANO.

Per oltre due decenni, nelle forze armate americane è prevalsa la scelta strategica e organizzativa di eliminare l’intervento umano in molti settori del sistema di comando, controllo ed esecuzione. Voci di spesa che non compaiono nei bilanci ufficiali, di molti miliardi di dollari, vengono dedicate allo sviluppo di nuovi sistemi elettronici di puntamento e di altri mezzi telecomandati, utilizzati nei modi più sconcertanti in Pakistan, in Afghanistan e in altri paesi. Comunque, malgrado gli sperticati elogi per questi nuovi modelli di armi e l’idea ormai radicata negli analisti militari per cui il soggetto umano è un’anomalia, ovvero il “collo di bottiglia”, nell’operatività dei sistemi più avanzati, il bisogno da parte delle forze armate di grandi masse di uomini non è certo destinato a venir meno in nessuno degli scenari ipotizzabili per il prossimo futuro.
Gli studi sull’insonnia efficiente si inseriscono quindi in un programma che mira alla creazione di un nuovo genere di soldato, le cui capacità fisiche dovranno adeguarsi in misura sempre maggiore al funzionamento di un’organizzazione retta da reti e apparati non umani. È in atto uno sforzo cospicuo, in ambito scientifico-militare, per ottenere forme di “cognizione aumentata”, in grado di migliorare in diversi modi l’interazione uomo-macchina.
Nello stesso tempo, la Difesa ha finanziato molti altri progetti di ricerca nel campo delle neuroscienze, per esempio lo sviluppo di un farmaco che potrebbe inibire la reazione emotiva della paura. Nelle circostanze in cui l’opzione del drone armato di missili non fosse attuabile, l’idea è quella di ricorrere a squadroni della morte, composti da incursori resistenti al sonno e immuni alla paura, pronti a missioni dalla durata indefinita. È nel contesto di questa sperimentazione che i passeri dalla corona bianca sono stati prelevati dall’ecosistema della costa del Pacifico, dove compiono i consueti percorsi stagionali, affinché diano il loro contributo al tentativo di imporre al corpo umano schemi artificiali di temporalità e di prestazione efficiente. Come la storia insegna, le innovazioni in campo militare vengono poi inevitabilmente assimilate in una sfera sociale più ampia, per cui il soldato a prova di sonno è l’antesignano del lavoratore o del consumatore immuni al sonno. I farmaci contro il sonno, opportunamente presentati attraverso martellanti campagne pubblicitarie, diventerebbero in prima battuta un’opzione legata a un particolare stile di vita per poi tramutarsi, infine, in un’esigenza imprescindibile per grandi masse di persone.

I sistemi di mercato 24/7 e un’infrastruttura globale concepita per forme di produzione e consumo senza limiti sono già una realtà da tempo, ma ora si tratta di costruire un soggetto umano che possa adeguarvisi in modo sempre più completo.

Verso la fine degli anni Novanta, è stato abbozzato un progetto da parte di un consorzio Russia – Unione Europea, che prevedeva l’allestimento e la messa in orbita di stazioni spaziali capaci di deviare la luce del sole verso il suolo terrestre. L’idea era quella di far viaggiare un’intera catena di satelliti in orbite sincronizzate con il sole, a 17.000 metri di quota, dotandoli di riflettori parabolici pieghevoli, fatti di materiale ultrasottile. Una volta raggiunta la piena estensione, pari a 200 metri di diametro, ogni satellite-specchio sarebbe stato in grado di illuminare un’area della Terra di sedici chilometri quadrati, con un’intensità quasi cento volte superiore a quella del chiaro di luna. La motivazione iniziale del progetto era quella di fornire l’illuminazione necessaria allo sfruttamento di risorse naturali e industriali situate in zone remote, nelle lunghe notti polari della Siberia e della Russia occidentale, affinché si potesse evitare di interrompere la produzione a cielo aperto. L’impresa, però, in seguito ha ampliato il progetto, offrendo la possibilità di illuminare intere aree urbane. Considerando che grazie a questa ipotesi sarebbe possibile ridurre i costi energetici dovuti all’uso della luce elettrica, l’impresa ha lanciato i propri servizi con lo slogan: “La luce del giorno, tutta la notte”.
Il progetto ha ricevuto un’aspra contestazione, immediata e generalizzata. La comunità scientifica vi si è opposta per via delle eventuali conseguenze sull’osservazione astronomica da terra. Studiosi e ambientalisti hanno segnalato i possibili danni fisiologici sia sugli animali sia sugli esseri umani, dal momento che la scomparsa di una regolare alternanza fra la notte e il giorno causerebbe disturbi ai vari cicli metabolici, compreso quello del sonno. Dure obiezioni sono state sollevate anche da associazioni di ispirazione filosofica e umanitaria, per le quali la visione del cielo notturno è un bene comune, che non può venir negato ad alcun essere umano, e la libertà di esperire il buoi e osservare le stelle rappresenta un diritto umano fondamentale che nessuna azienda può violare. In ogni caso, sia esso un diritto oppure un privilegio, di fatto viene già violato, per oltre metà della popolazione mondiale, in città che sono pervase da una mezza luce perenne, un misto di smog e di illuminazione ad alta intensità. La replica dei sostenitori del progetto, tuttavia, è stata che di notte una tecnologia come questa permetterebbe un consumo di gran lunga inferiore di elettricità e che la perdita del cielo stellato nel buoi notturno non sarebbe che un piccolo prezzo da pagare a fronte di una riduzione del consumo globale di energia. Comunque, un’iniziativa simile, rivelatasi in fin dei conti irrealizzabile, ci offre un significativo esempio dell’immaginario contemporaneo in cui uno stato di illuminazione permanente è inseparabile dal funzionamento incessante dello scambio e della circolazione globali. Nel suo eccesso imprenditoriale, il progetto è l’espressione iperbolica di un’intolleranza istituzionale per qualunque tentativo di oscurare o impedire un condizione di visibilità automatica e infinita.

La privazione del sonno è stata una delle forme di tortura inflitte alle numerose vittime di cattura e trasferimento extragiudiziale e ad altre persone arrestate a partire dal 2001. I fatti occorsi a un singolo detenuto sono diventati di pubblico dominio, ma il trattamento riservatogli non è diverso dalla sorte patita da centinaia di altri, i cui casi sono meno noti. Mohammed al-Qahtani è stato torturato in base alle istruzioni dettagliate di quel che oggi conosciamo come il “First Special Interrogation Plan” del Pentagono, autorizzato da Donald Rumsfeld (segretario della Difesa statunitense sotto la presidenza di George W. Bush). Egli è stato privato quasi totalmente del sonno in un arco di tempo di due mesi ed è stato sottoposto ad interrogatori che duravano spesso venti ore ciascuno. Rinchiuso in una minuscola cella, è stato costretto a rimanere sempre in piedi alla luce di lampade ad alta intensità, mentre veniva riprodotta musica a volume estremamente alto. Nella comunità dell’intelligence militare mentre i luoghi di detenzione come questo sono denominati “Dark Sites”, sebbene uno di quelli in cui è stato trasferito al-Qahtani fosse noto in codice come “Camp Bright Lights”. Non è la prima volta che la privazione del sonno viene usata dagli americani o dalle forze che li sostengono. In qualche modo, può risultare fuorviante mettere in risalto questa pratica specifica perché, per Mohammed al-Qahtani e molti altri, la privazione del sonno non era che una piccola parte di una trafila più ampia, che prevedeva percosse, umiliazioni di vario genere, periodi di segregazione e annegamenti simulati. Molti di questi “programmi” per prigionieri extragiudiziali erano il frutto di una progettazione ad hoc da gruppi di psicologi esperti e consulenti di scienze del comportamento, in base alle fragilità psicofisiche individuali effettuate.

La pratica della privazione del sonno come strumento di tortura è antica, ma il suo utilizzo sistematico comincia a partire dal momento storico in cui è sorta la disponibilità dell’illuminazione elettrica e dei sistemi di amplificazione del suono. Praticata abitualmente dalla polizia di Stalin negli anni Trenta, la privazione del sonno di solito era la prima parte di quello che i torturatori della NKVD (polizia segreta dell’Unione Sovietica) chiamavano il “nastro trasportatore”, una sequela strutturata di atrocità e violenze gratuite atte a provocare nelle vittime danni permanenti. Il primo effetto, dopo un periodo di tempo relativamente breve, è la psicosi; dopo molte settimane si presentavano gravi danni neurologici. Perché sopraggiunga la morte, nel caso delle cavie da laboratorio sono sufficienti quindici o venti giorni di insonnia. La vittima si trovava in una condizione di totale impotenza e di completa sottomissione, per cui diventa impossibile ottenerne informazioni attendibili, dal momento che si sarà disposti a confessare o a inventarsi qualsiasi cosa. La negazione del sonno diventa allora un attacco violento all’integrità psicofisica di una persona da parte di una forza esterna, una vera e propria distruzione calcolata della sua personalità.
Sicuramente gli Stati Uniti sono stati a lungo coinvolti nella pratica della tortura, sia in prima persona che attraverso regimi clientelari, ma è particolarmente degna di nota, nella nostra epoca post-11 settembre, la sua acritica ricollocazione, in piena luce, sulla pubblica ribalta, come se fosse un argomento di cui vagliare i pro e i contro al pari di qualunque altro. Numerosi sondaggi indicano che in relazione a determinate situazioni la maggioranza dei cittadini americani si esprime a favore della tortura. Nelle discussioni sui principali media viene regolarmente negato che il concetto della privazione del sonno sia una forma di tortura. Essa diventa, piuttosto, un particolare caso di pressione psicologica, accettabile agli occhi di molti quanto può esserlo l’alimentazione forzata per i detenuti in sciopero della fame. Come riportato nel libro di Jane Mayer, “The Dark Side”, la cinica motivazione nei documenti del Pentagono è che gli uomini delle unità speciali della Marina americana sono spesso impegnati in missioni simulate in cui è richiesto loro di non dormire per due giorni di fila [2]. va notato come il trattamento dei cosiddetti “detenuti di alto livello” a Guantanamo e in altri siti sia basato sulla combinazione tra forme di tortura vere e proprie e un totale controllo sull’esperienza sensoriale e percettiva. I detenuti sono obbligati a vivere in celle illuminate esclusivamente da luce artificiale costantemente accesa, con bende sugli occhi e tappi nelle orecchie, che impediscono loro di vedere e di udire alcunché in caso vengano scortati all’esterno, affinché sia loro impossibile formarsi una nozione del giorno e della notte o avere un indizio qualsiasi sull’ambiente circostante. Questo regime di deprivazione sensoriale spesso include i normali contatti quotidiani con i soldati di guardia, che vestono in assetto completo, con tanto di guanti ed elmetti provvisti di visori schermati, in modo che al detenuto sia negato il benché minimo contatto visivo con un volto o con porzioni di pelle esposta di un altro essere umano. Si tratta di tecniche e procedure concepite per creare un’umiliante condizione di asservimento e ciò accade, a un certo livello, attraverso la costruzione di una realtà che esclude nel modo più completo la possibilità di usufruire della benché minima forma di attenzione, di protezione o di conforto.

Questa particolare costellazione di eventi ci offre una prospettiva privilegiata, come in un prisma, su alcuni dei numerosi effetti sia della globalizzazione neoliberista, sia di altri processi, di più lunga durata, messi in atto dalla modernizzazione del mondo occidentale. Non voglio assegnare a questo insieme alcun particolare valore esplicativo; esso costituisce piuttosto un introduzione provvisoria ad alcuni paradossi che segnano il mondo della vita in continua e illimitata espansione del capitalismo del XXI secolo. Paradossi che sono strettamente collegati alle mutevoli configurazioni del sonno e della veglia, dell’illuminazione e dell’oscurità, della giustizia e del terrore, nonché a diverse forme di esposizione, di inerme disponibilità e fragilità. Si potrebbe obiettare che i fenomeni cui facciamo cenno siano eccezionali o estremi ma, se anche così fosse, non sono del tutto estranei a quelle che sono diventate traiettorie normative e condizioni di vita osservabili anche in altri contesti.
Una di tali condizioni può essere caratterizzata come l’inquadramento generalizzato della vita umana in una durata senza interruzioni, contraddistinta da un principio di operatività incessante. Si tratta di un tempo che, avendo superato i limiti del tempo orario, è in effetti diventato immobile.

Dietro la vacuità del facile slogan, il 24/7 rappresenta una forma di sovrabbondanza statica che rinnega ogni legame con il tessuto di ritmi e scansioni periodiche dell’esistenza umana. È basato su uno schema rigido e arbitrario – quello della singola settimana – utilizzato a prescindere da qualsiasi idea di svolgimento vitale o progressivo dell’esperienza. Un’espressione come “24/365”, per esempio, non riveste il medesimo significato, dato che implica lo scomodo riferimento a una temporalità prolungata, in cui un cambiamento in effetti potrebbe accadere e alcunché di imprevisto potrebbe aver luogo. Come si è detto all’inizio, molte istituzioni del mondo sviluppato sono già operative 24/7 ormai da alcuni decenni. È solo di recente, invece, che vi è stata una riorganizzazione dei modi in cui avviene la costruzione dell’identità personale e sociale di ciascuno, al fine di ottenere un adeguamento completo alle attività incessanti dei mercati, delle reti informatiche e dei sistemi consimili. Un ambiente 24/7 ha solo le sembianze di una società vera e propria, ma in realtà rappresenta un modello non sociale di performance automatiche e una sospensione dell’esistenza che dissimula i costi umani necessari a sostenerne il funzionamento. Esso va nettamente distinto da ciò che, all’inizio del XX secolo, Lukàcs e altri autori identificavano come il tempo desolatamente omogeneo della modernità, ovvero il tempo rigidamente scandito dall’agenda degli Stati o dal mondo finanziario e industriale, da cui era bandita ogni possibilità per le speranze e per i progetti dei singoli individui. La sua particolarità è l’abbandono definitivo della pretesa che il corso del tempo sia legato a una qualsiasi iniziativa a lungo termine, anche all’illusione stessa di “progresso” o di sviluppo.
Il 24/7 rappresenta il tempo dell’indifferenziato, davanti al quale la fragilità della vita umana non ha difese e in cui il sonno non ha una propria necessità o inevitabilità. Per quanto riguarda il lavoro, diventa plausibile – se non normale – l’idea di un impegno ininterrotto, al di là di ogni limite. L’espressione si adatta a qualcosa che è senza vita, totalmente inerte, immune da ogni processo di invecchiamento. Con la baldanza di un’esortazione pubblicitaria, essa proclama l’offerta di una disponibilità assoluta e quindi l’insorgere incessante di sempre nuovi bisogni e la loro continua sollecitazione, ma anche la perenne impossibilità di un loro completo e definitivo appagamento. La mancanza di qualsiasi vincolo ai consumi non riguarda semplicemente l’ordine temporale. È ormai trascorsa l’epoca in cui contava soprattutto l’accumulazione di oggetti. Ora i nostri corpi e le nostre personalità assimilano soprattutto una mole in continua espansione di servizi, immagini, procedure, sostanze chimiche, fino a livelli di tossicità che spesso si rivelano fatali. La sopravvivenza a lungo termine del singolo individuo è sempre sacrificabile in caso debba comportare, anche indirettamente, la possibilità che gli acquisti o la loro promozione vengano interrotti. Allo stesso modo, il 24/7 è strettamente correlato alla catastrofe ambientale, nel suo appello alla spesa permanente e all’incessante spreco funzionale al suo sostentamento, nella sua mortale distruzione dei cicli naturali e della stagionalità da cui dipende l’equilibrio degli ecosistemi.
Del tutto inutile ed essenzialmente passivo, con tutte le incalcolabili perdite che comporta nei tempi di produzione, di circolazione e di consumo, il sonno è destinato a entrare in netto contrasto con le esigenze di un universo 24/7. L’enorme quantità di tempo che trascorriamo dormendo, affrancati da quella paludosa congerie di bisogni artefatti, rappresenta uno dei grandi atti di oltraggiosa resistenza dagli esseri umani alla voracità del capitalismo contemporaneo. Il sonno interrompe risolutamente il furto di tempo che il sistema capitalistico compie ai nostri danni. La maggior parte delle necessità apparentemente fondamentali della vita umana – dalla fame alla sete all’impulso sessuale, al bisogno, più recente, di amicizia – sono state riproposte in versioni mercificate o finanziarizzate. Il sonno pone il problema di un bisogno umano che si può soddisfare solo in un certo intervallo di tempo e non può quindi essere asservito e aggiogato a una macchina per fare profitti, offrendosi così come un’incongrua eccezione, una vera e propria area di crisi nell’ambito dell’attuale globalizzazione. Malgrado tutta la ricerca scientifica svolta nel settore, rimane una realtà che confonde e vanifica qualunque ipotesi di sfruttamento o di ristrutturazione strategica nei suoi confronti. Per quanto sconvolgente e inconcepibile sia, la verità è che non se ne può estrarre alcunché di valore.

Non desta meraviglia che nella nostra epoca, in ogni parte del mondo, a causa dei livelli assai elevati di competizione economica, sia in atto una vera e propria erosione del tempo dedicato al sonno. Nel corso del XX secolo, l’offensiva è stata costante, dal momento che, a fronte delle (oggi inconcepibili) dieci ore di sonno dei primi del Novecento e delle otto di qualche decennio fa, oggi un americano medio in età adulta dorme in media circa sei ore e mezzo per notte. Alla metà del secolo scorso, il detto corrente che “un terzo della vita si dorme”, la cui evidenza sembrava inattaccabile, viene costantemente messo in discussione. Il sonno è una traccia, per quanto invisibile, onnipervasiva delle condizioni di vita premoderne – l’universo del mondo agricolo – mai del tutto superate e che ormai da quattro secoli sono in via di sparizione. La sua scandalosa presenza si deve al fatto che la nostra vita è radicalmente condizionata dalla periodica alternanza fra il buoi della notte e la luce del sole, fra le nostre attività diurne e il momento del riposo, fra le ore lavorative e quelle del recupero, un’alternanza che altrove è stata cancellata o neutralizzata. Quella del sonno è naturalmente una storia complessa, come quella di qualunque altro fenomeno solo in apparenza esclusivamente naturale. Non si è mai trattato di una realtà prova di sfaccettature o eternamente identica a se stessa, poiché nel corso dei secoli e dei millenni ha assunto le forme più diverse a seconda del modello culturale di riferimento. Negli anni Trenta, Marcel Mauss includeva sia il sonno che la veglia nei suoi studi sulle “tecniche del corpo”, in cui metteva in risalto come diverse modalità di comportamento, apparentemente istintive, in realtà sono frutto di un apprendimento attuato in un’immensa varietà di modi, per imitazione oppure per educazione. Si può comunque affermare che, nel panorama delle società agricole premoderne, per quanto vasto ed eterogeneo, il modo di vivere il sonno era contraddistinto da caratteristiche fondamentali comuni.

Alla metà del XVII secolo, il sonno cominciò a sganciarsi dalla solida posizione che aveva occupato nel contesto ormai anacronistico della cultura aristotelico-rinascimentale. Il suo attrito con le nozioni moderne di produttività e razionalità risultò per la prima volta evidente, tanto che Cartesio, Hume e Locke erano solo alcuni dei filosofi che tendevano a screditarlo per la sua irrilevanza nel funzionamento del pensiero o nella ricerca della conoscenza. La sua svalutazione andava di pari passo con la scelta di privilegiare le dimensioni della coscienza e della volontà, nonché i principi dell’utilità, dell’obiettività e dell’autodeterminazione del soggetto. Per Locke, il sonno, per quanto indispensabile, rappresenta una deplorevole eccezione nello sviluppo delle attitudini principali che Dio ha assegnato agli uomini: l’operosità e la razionalità. Nell’incipit del Trattato sulla natura umana di Hume, il sonno viene accostato alla febbre e alla follia come un esempio fra gli altri dei possibili ostacoli che impediscono la vera conoscenza. A metà del XIX secolo, la relazione asimmetrica tra il sonno e la veglia cominciò a essere strutturata in una gerarchia concettuale, per cui il sonno rappresentava la regressione a una condizione inferiore e primitiva, in cui l’attività cerebrale più elevata e più complessa risultava inibita. Schopenhauer è uno dei pochi pensatori che, capovolgendo lo schema, abbiano invece ritenuto che nel sonno risieda il “nocciolo” dell’esistenza umana.
Il problema dello status del sonno è stato ricollegato in vari modi alla particolare dinamica della modernità che ha vanificato ogni organizzazione del mondo costruita su contrapposizioni binarie. La spinta verso l’omologazione da parte del capitalismo entra in contrasto con qualunque struttura preesistente di differenziazione: sacro-profano, carnevalesco-quotidiano, naturale-culturale, meccanico-organico, e così via. Perciò, qualunque concezione del sonno come fenomeno in qualche misura naturale diventa inammissibile. Ovviamente, non sarà negata del tutto la possibilità di dormire e persino le megalopoli più tentacolari avranno ancora intervalli notturni di relativa inattività. Quella del sonno, tuttavia, è ormai un’esperienza svincolata dalle nozioni di necessità o di natura. Alla stregua di molte altre realtà, invece, viene riconcettualizzata come funzione mutevole ma amministrabile, la cui definizione può essere soltanto strumentale e fisiologica. Secondo le più recenti statistiche, il numero delle persone che si svegliano una o più volte a notte per controllare la casella di posta elettronica o i propri dati va aumentando in maniera esponenziale. Un’immagine dall’apparenza incongrua ma comune è quella evocata dall’espressione tecnologica della modalità di sospensione del funzionamento indicata come “sleep mode”. L’idea di un dispositivo in stato di utilizzabilità a bassa energia attribuisce alla nozione più ampia di sonno il significato di un’operatività o accessibilità semplicemente differita o ridotta. Sostituisce l’alternativa tra On e Off, di modo che nulla sia del tutto Off e non vi sia quindi in alcuna occasione uno stato di riposo vero e proprio.

Il sonno rappresenta l’affermazione irrazionale e scandalosa che possono esserci dei limiti alla compatibilità degli esseri umani con le forze apparentemente irresistibili della modernizzazione. Uno dei luoghi comuni più consolidati del pensiero critico attuale è che non esistano dati naturali inalterabili (neppure la morte, secondo quanti prevedono, in un prossimo futuro, la possibilità di effettuare un download delle nostre menti nella dimensione dell’immortalità digitale). La credenza che gli esseri viventi siano diversi dalle macchine in virtù di particolari caratteristiche essenziali è – secondo gli studiosi più autorevoli – ingenua e illusoria. Perché mai essere contrari – per esempio – a nuove sostanze che potrebbero metterci in grado di lavorare fino a cento ore di seguito? Tempi più flessibili e ridotti da dedicare al sonno non potrebbero offrire una maggiore libertà personale, la capacità di gestire la propria vita con maggiore autonomia, secondo i propri bisogni e desideri? Dormire di meno non potrebbe dare maggiori occasioni di “vivere al massimo”? La replica più verosimile è che gli esseri umani sono fatti per dormire la notte, che il nostro corpo è adattato alla rotazione diurna del nostro pianeta e che il comportamento di quasi tutti gli organismi è condizionato dal ritmo del sole e da quello delle stagioni. A questo punto si verrebbe accusati di affermare deliranti sciocchezze New Age o, persino peggio, di indulgere nel cupo vagheggiamento di una “radicatezza” alla terra di stampo heideggeriano. Ma, soprattutto, secondo il modello della globalizzazione neoliberista, chi dorme è un perdente.

Nel XIX secolo, dopo una prima fase dell’industrializzazione in Europa in cui si erano verificati gli abusi più gravi ai danni dei lavoratori, i capi delle fabbriche giunsero alla conclusione che la scelta di concedere ai propri dipendenti un minimo di tempo al riposo, per metterli in grado di diventare produttori più efficienti e più longevi, avrebbe comportato una maggiore redditività, come sottolinea Anson Rabinbach nella sua opera sulla scienza del lavoro. Negli ultimi decenni del XX secolo e all’inizio del XXI, tuttavia, con il collasso dei modelli di capitalismo controllato o mitigato negli Stati Uniti e in Europa, è venuta meno ogni giustificazione interna dell’inattività e della quiete come componenti della crescita economica e della redditività. Il tempo del riposo umano che consente ala lavoratore di ristorare la proprie forze è diventato semplicemente troppo costoso per poter essere contemplato nella struttura del capitalismo contemporaneo. Teresa Brennan ha coniato il termine bioderegulation per descrivere il brutale divario tra il funzionamento istantaneo dei mercati deregolati e le intrinseche limitazioni fisiche degli esseri umani cui viene richiesto di conformarsi alle loro esigenze [3].

La progressiva perdita di importanza del lavoro umano nel lungo periodo non incoraggia affatto l’inserimento del riposo e della salvaguardia della salute fra le priorità economiche, come i più recenti dibattiti in tema di assistenza sanitaria dimostrano. Sono rimasti davvero pochi gli intervalli significativi dell’esistenza umana – con l’enorme eccezione del sonno – che non siano stati assoggettati e annessi al tempo lavorativo, al tempo dedicato ai consumi o a quello impegnato da operazioni di acquisto e di vendita. Nella loro analisi del capitalismo contemporaneo, Luc Boltanski ed Eve Chiapello hanno messo in risalto la tendenza diffusa per cui viene tenuto in alta considerazione chiunque sia costantemente impegnato a muoversi, in un qualsiasi ambiente digitale, tra interfacce, interazioni, scambi comunicativi ed elaborazioni di dati di ogni genere. Nelle zone più ricche del mondo, il fenomeno si è verificato, secondo gli autori, nel contesto della quasi totale dissoluzione di ogni barriera in passato frapposta tra il tempo lavorativo e quello privato, fra il momento della produzione e quello del consumo. Nell’ambito del nuovo paradigma connettivista, ciò che più conta è l’attività fine a se stessa, ovvero “fare, muoversi, cambiare senza mai fermarsi: ecco quel che ci dà maggior lustro, a differenza della stabilità che spesso è sinonimo di inazione” [4]. Questo modello culturale non deriva in alcun modo dall’etica del lavoro che costituiva il paradigma delle generazioni precedenti, ma rappresenta da un lato un nuovo ideale di vita, dall’altro un sistema che richiede una strutturazione temporale 24/7 per la sua realizzazione.

Tornando al progetto spaziale cui si è fatto cenno: l’idea di lanciare in orbita giganteschi riflettori da utilizzare come specchi che permettano alla luce del sole di dissipare il buio della notte ha in sé qualcosa di grottesco, quasi che fosse la riviviscenza a bassa tecnologia di un prototipo del tutto meccanico, appena uscito dalla fantasia di Jules Verne o di un qualsiasi altro classico della fantascienza ai suoi albori. I primi lanci sperimentali, in effetti, si sono mostrati sostanzialmente fallimentari: l’imperfetto posizionamento dei riflettori in un caso, la presenza di una fitta cortina di nubi sulla città scelta come campione nell’altro hanno impedito la dimostrazione effettiva delle potenzialità previste. Le ambizioni alla base i un simile progetto sembrano in qualche modo ricollegarsi a quell’ampia varietà di pratiche panottiche che hanno conosciuto un fiorente sviluppo negli ultimi due secoli. Siamo così condotti a riconsiderare l’importanza dell’illuminazione nel modello originale del Panopticon in Bentham, laddove fondamentale era il requisito di un utilizzo pervasivo della luce che cancellasse ogni ombra dal luogo sottoposto a sorveglianza, al fine di realizzare effetti di controllo attraverso una condizione di completa osservabilità. Per diversi decenni, però, satelliti di altro genere hanno eseguito in modo assai più sofisticato quelle che altro non sono se non operazioni di sorveglianza (anche di massa) e raccolta dati. Un genere di panotticismo più moderno ha saputo aggiungere a quella visibile della luce ulteriori lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico, per non parlare dell’ampia varietà degli scanners non ottici, di quelli termici e dei biosensori. Il senso del programma satellitare forse diventa più chiaro se inteso come niente altro che il prolungamento di alcune pratiche utilitaristiche teorizzate fin dal XIX secolo. Wolfgang Schivelbusch, nella sua storia delle tecniche di illuminazione, mostra come l’ampia diffusione dei lampioni stradali nelle città di tutto il mondo, avvenuta a partire all’incirca dal 1880, abbia permesso di ottenere due scopi: ha fatto in modo che si attenuasse la paura ancestrale per i possibili pericoli associati al buio della notte e ha ampliato l’arco temporale di molte attività economiche [5]. L’illuminazione notturna fu la dimostrazione simbolica di quel che gli apologeti del capitalismo erano andati promettendo lungo tutto il XIX secolo: avrebbe offerto una doppia garanzia, da un lato di sicurezza, dall’altro di maggiori occasioni di successo economico e quindi, secondo le apparenze, avrebbe migliorato l’esistenza di tutti e l’intero complesso sociale. In tal senso, il celebrato avvento di un mondo 24/7 rappresenta la realizzazione completa di quel progetto iniziale, comportando vantaggi e benefici, però, quasi esclusivamente per un potente élite globale.
Il 24/7 mina costantemente le tradizionali distinzioni tra il giorno e la notte, tra la luce e il buio, e tra lo stato di attività e quello di riposo. Inaugura una dimensione in cui regnano la mancanza di sensibilità e di memoria, e dove ogni possibilità di costruire la propria esperienza risulta vanificata. Per parafrasare Maurice Blanchot, evoca sia il disastro che le sue conseguenze: un cielo vuoto, in cui non vi è traccia di stelle, tutti i punti di riferimento sono scomparsi ed è diventato impossibile ritrovare un orientamento [6]. Usando un’immagine più diretta, potremmo paragonare questa condizione a un’emergenza, in cui, nel cuore della notte, viene improvvisamente accesa una file di riflettori, come misura estrema, senza che però nessuno venga mai a spegnerli, per cui ci si abitua a essi man mano che la situazione diventa permanente. L’intero pianeta viene riprogettato come luogo di lavoro perennemente in attività o come centro commerciale che non chiude mai, capace di garantire un’infinita varietà di offerte, di funzioni, di scelte e di alternative. L’assenza di sonno è lo stato che permette al processo della produzione, del consumo e della creazione di rifiuti di non avere mai fine, accelerando lo svuotamento dell’esistenza umana e l’esaurimento delle risorse naturali.

In quanto maggior ostacolo rimasto – in effetti, l’ultima di quelle che Marx definisce le “barriere naturali” – alla definitiva realizzazione del capitalismo 24/7, il sonno non può essere eliminato. Può d’altronde essere in parte demolito e depauperato, e, come risulta evidente dai nostri esempi, i metodi e le motivazioni per compiere questa demolizione sono decisamente all’opera. L’attacco al sonno è strettamente collegato allo smantellamento in atto dei sistemi di protezione sociale in altri ambiti. Come la possibilità di accesso universale all’acqua è stata programmaticamente annullata in ogni parte del mondo dall’inquinamento e dalle privatizzazioni, con la conseguente riduzione a merce dell’acqua imbottigliata, così è possibile riscontrare una costruzione di scarsità non molto diversa nei riguardi del sonno. I continui sconfinamenti ai suoi danni creano condizioni di insonnia tali per cui il sonno diventa un bene acquistabile tra gli altri (anche se si tratta di un surrogato ottenuto chimicamente). I dati relativi al consumo sempre più elevato di sostanze ipnotiche indicano che, nel 2010, i cittadini americani cui sono stati prescritti farmaci come Ambien o Lunesta sono stati circa cinquanta milioni, mentre diversi altri milioni di persone hanno acquistato prodotti da banco simili. D’altra parte, non è credibile l’ipotesi di un miglioramento delle condizioni attuali per cui la gente possa tornare a sperimentare i benefici di un sonno profondo e ristoratore. Al punto cui si è giunti, neppure una effettiva attenuazione dei livelli di oppressività nell’organizzazione mondiale sarebbe in grado di eliminare l’insonnia. Quest’ultima comincia a rivestire il proprio significato storico e la propria specifica consistenza affettiva soltanto in relazione alle esperienze collettive accanto alle quali ha luogo cosicchè essa oggi è strettamente collegata ad altre forme di espropriazione e di degrado sociale che si manifestano su scala globale. Come privazione che tocca la natura dell’individuo nella nostra epoca, è in continuità con una condizione generalizzata di astensione dal mondo.

Il filosofo Emmanuel Levinas è uno dei numerosi pensatori che hanno cercato di collegare i vari significati dell’insonnia al contesto della storia più recente [7]. L’insonnia, egli afferma, è un modo di rappresentarsi la situazione estremamente difficile in cui si trova la responsabilità individuale di fronte alle catastrofi della nostra epoca. L’onnipresente possibilità di vedere immagini riferite a una violenza priva di qualsiasi giustificazione e le sofferenze che ne risultano fa parte della modernità che viviamo. Questa continua visibilità, nella sua svariata mescolanza di forme, è un bagliore che dovrebbe disturbare senza posa qualunque compiacimento e precludere il riposante oblio del sonno. L’insonnia corrisponde all’esigenza di vigilare, al rifiuto di dimenticare l’orrore e l’ingiustizia che pervadono il mondo. Essa rappresenta l’inquietudine provocata dallo sforzo di un’attenzione intensa per il dolore dell’altro, ma anche dalla scoraggiante impotenza dell’etica della vigilanza; un atto di testimonianza monotono e prolungato può diventare semplicemente un modo per rassegnarsi alla notte, al disastro. È una condizione che non può definirsi né pubblica né del tutto privata. Per Levinas, l’insonnia oscilla sempre tra una implosione dell’Io in se stesso e una spersonalizzazione radicale; non esclude l’attenzione per l’altro, ma non offre con chiarezza la sensazione di uno spazio dedicato alla sua presenza. È la dimensione in cui si possono intravvedere i confini della propria vita, oltre i quali essa smette di essere umana. L’insonnia va distinta da uno stato di veglia colmo di sconforto, con livelli di attenzione quasi insostenibili per le sofferenze altrui e il conseguente senso di responsabilità infinita che ne deriva.
Un sistema in ui regna il 24/7 è un mondo disincantato nella sua eliminazione delle ombre e del buio così come di ogni possibile temporalità alternativa. Si tratta di una realtà sempre uguale a se stessa, che non ha la densità di un passato stratificato alle sue spalle e quindi, in teoria, senza possibilità alcune di ospitarne gli spettri. La completa omogeneità del presente, però, dipende dal potere ingannevole di una luce così diffusa da ritenersi in grado di raggiungere ogni dove, tanto da contrastare ogni possibile mistero o realtà ignota. Il 24/7 istituisce una discutibile equivalenza tra quel che risulta immediatamente disponibile, accessibile o utilizzabile e ciò che esiste. Lo spettrale è, in qualche modo, l’interruzione o l’intrusione nel presente di realtà extratemporali e dei fantasmi di ciò che la modernità non riesce a cancellare, delle vittime che non saranno dimenticate, della emancipazione non ancora ottenuta. Le routine del 24/7 sono in grado di neutralizzare o di assorbire molte di quelle provocatorie esperienze di
ritorno che in teoria potrebbero minare la sostanzialità e l’identità del presente e la sua apparente autosufficienza. Uno dei confronti più premonitori con quella che è la collocazione più spettrale in un mondo perennemente illuminato emerge nel film di Andrej Tarkovskij del 1972, Solaris. La vicenda narra di una missione spaziale in cui alcuni scienziati si trovano su una stazione orbitante intorno a un pianeta misterioso, impegnati nell’osservazione di certi strani fenomeni che sembrano in contrasto con la teoria scientifica corrente. Per gli abitatori di quell’ambiente artificiale tanto intensamente illuminato che è la stazione spaziale, l’insonnia è una condizione cronica. In questo luogo, del tutto ostile al riposo e in cui si vive perennemente esposti ed esternalizzati, avviene un esaurimento del controllo cognitivo. In tali condizioni estreme, i personaggi del film vengono sorpresi non da attacchi allucinatori, ma dall’apparizione di fantasmi, che vengono chiamati “visitatori”. La deprivazione sensoriale dell’ambiente artificiale e l’alterazione dei ritmi circadiani allentano la presa di ciascuno su un presente stabile, facendo sì che i sogni, veri e propri messaggeri della memoria, si introducano nel tempo della veglia. Per Tarkovskij, questa prossimità dello spettrale e la forza vivente del ricordo permettono la conservazione della propria umanità in un mondo che non ha nulla di umano e rendono l’insonnia e l’esposizione sopportabili. Emergendo da contesti aperti alla sperimentazione culturale, nell’Unione Sovietica degli anni Settanta, Solaris fa vedere come la scelta di riconoscere e rappresentare simili ritorni fantasmatici, malgrado le loro ripetute negazioni e repressioni, sia l’indicazione di una strada verso un dimensione in cui la libertà o la felicità sono possibili.

Secondo una corrente della teoria politica contemporanea l’esposizione è una caratteristica fondamentale o metastorica dell’identità essenziale e immutabile del soggetto umano. La natura degli individui risulta comprensibile non tanto rispetto alla propria autonomia o autosufficienza, quanto in base alla relazione che essi intrattengono con il mondo esterno, con l’alterità con cui si confrontano [8]. Solo una riflessione su questa condizione di vulnerabilità può offrire uno sbocco su quelle forme di dipendenza su cui la società poggia le proprie fondamenta. Comunque, ci troviamo in una situazione storica in cui questa caratteristica di esposizione inerme è stata svincolata da quei legami comunitari che, quantomeno in via provvisoria , hanno offerto una qualche forma di tutela o protezione. Di particolare importanza, riguardo a questi problemi, è l’approfondimento che ne ha dato Hannah Arendt nella sua opera filosofica. Per molti anni, la Arendt si è valsa di immagini riferite alla luce e alla visibilità, nelle sue descrizioni della caratteristiche essenziali per lo svolgimento di una vita politica vera e propria. Affinché un individuo possa essere efficace dal punto di vista politico, occorre raggiunga un equilibrio fra i due estremi dell’essere esposto alla luce così pungente della sfera pubblica e la tendenza al ripiegamento nella zona accuratamente schermata della vita domestica o privata, nella “oscurità di un’esistenza protetta”. In altre pagine Arendt si riferisce alla “penombra che rischiara le nostre vite private e intime”. In assenza di uno spazio o di un tempo dedicato alla privacy, lontano dalla “luce intensa e implacabile della presenza costante di altri sulla scena pubblica”, non vi sarebbe alcuna possibilità di alimentare la singolarità dell’Io, un Io il cui contributo si rivela essenziale in quei confronti da cui scaturisce la realizzazione del bene comune.
Per la Arendt, la sfera del privato non va intesa come dimensione in cui l’individuo si impegna nella ricerca della felicità materiale, per cui l’Io si riduce alla volontà di possesso e alla quantità di beni che riesce a consumare. In
Vita activa, l’alternativa fra le due realtà contrapposte viene rielaborata nei termini di un equilibro periodico fra esaurimento e rigenerazione, che si determinano rispettivamente l’uno per la via del lavoro o dell’agire nel mondo, l’altro grazie al quotidiano ritorno alla penombra di una vita domestica inaccessibile e protetta. La Arendt era sicuramente consapevole che un simile modello di complementarietà fra vita pubblica e vita privata ben di rado si è effettivamente realizzato. Con altrettanta chiarezza d’altra parte ha intuito che le possibilità d’attuazione di un equilibrio simile sono gravemente minacciate dal sorgere di una economia in cui “le cose devono essere divorate ed eliminate con la stessa rapidità con cui sono state prodotte”, che rende impossibile accedere a una coscienza condivisa riguardo i propri interessi o scopi comuni. Scrivendo a metà degli anni Cinquanta, all’apice della guerra fredda, osservava con acume e perspicacia: se “non non fossimo che membri di una società di consumo, non vivremmo più nemmeno in un mondo, ma saremmo semplicemente guidati da un processo in cui le cose appaiono e scompaiono in cicli sempre ricorrenti” [9]. Allo stesso modo, era consapevole del fatto che la vita pubblica e la sfera lavorativa erano già diventate, per la maggior parte delle persone, vere e proprie esperienze di straniamento.

Si possono citare numerosi altri brani, ben noti, che si ricollegano allo stesso tema: “possa Dio preservarci / dalla visione unica e dal sonno di Newton” (William Blake); “le nostre facoltà più nobili vengono sempre più sommerse da un sonno pieno di incubi” (Thomas Carlyle); “il sonno indugia per tutta la nostra vita intorno ai nostri occhi” (Ralph W. Emerson); “attraverso lo spettacolo la società […] non esprime altro che il proprio desiderio di dormire” (Guy Debord). Non sarebbe difficile enumerare centinaia di altri esempi simili di descrizioni capovolte dal lato illuminato dell’esperienza sociale della modernità. Immagini di una società di dormienti vengono dalla sinistra e dalla destra, dalla cultura alta e da quella bassa e sono state una caratteristica costante nella storia del cinema, dal Gabinetto del dottor Caligari a Matrix. Comune a tutte queste rappresentazioni in cui viene evocato una sorta di sonnambulismo di massa è il riferimento a capacità percettive compromesse o ridotte, associate a un comportamento ripetitivo e costante, a volte simile a una trance. Secondo le teorie sociologiche più consolidate, gli individui, nella modernità, vivono e operano, più o meno stabilmente, in condizioni marcatamente dissimili dal sonno ovvero in uno stato di piena autoconsapevolezza in cui si è in grado di valutare eventi e informazioni in veste di partecipanti razionali e obiettivi alla vita pubblica e civile. Qualunque posizione alternativa che consideri le persone come individui deprivati della capacità di agire, come automi passivi e disponibili ad ogni tipo di manipolazione o di controllo comportamentale, solitamente viene tacciata di riduttivismo o di irresponsabilità etica.
Nello stesso tempo, anche la maggior parte dei riferimenti a qualunque tipo di risveglio politico vengono giudicati inaccettabili, dal momento che implicano un processo improvviso e irrazionale, paragonabile a una conversione religiosa. Basti ricordare il principale slogan elettorale del partito nazista nei primi anni Trenta: “
Deuthschland, erwache! (Germania, svegliati!)” o, per risalire a tempi più antichi, la Lettera ai Romani di san Paolo: “E questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno […] gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce” (13,11-12) oppure, ancora, l’appello più recente – e più scontato – della ribellione a Ceausescu del 1989: “Romeni, svegliatevi dal sonno profondo della tirannia”. I risvegli di natura politica e religiosa solitamente vengono espressi in termini percettivi come la ritrovata capacità di riconoscere la realtà delle cose al di là del velo che le nascondeva, di distinguere il mondo vero dalla sua visione degradata o capovolta oppure di recuperare una verità perduta che rappresenta l’opposto di quella condizione, quale che sia, da cui ci si dovrebbe destare. Poiché interrompe, quasi come un’epifania, il torpore di un’esistenza vuota e ripetitiva, il risveglio si presenta come il recupero dell’autenticità, in contrapposizione al sonno inteso come disposizione stolidamente inerte. In questo senso, esso diventa una sorta di decisionismo: l’esperienza di un momento di redenzione che sembra arrestare il tempo storico, per cui si subisce una trasformazione profonda nell’incontro con una prospettiva sul futuro prima del tutto ignota. Tutto questo insieme di immagini e metafore, d’altra parte, è ormai inadeguato per un sistema globale che non dorme mai, quasi a garanzia del fatto che nessun risveglio dal potenziale dirompente sia necessario o importante. Se qualcosa sopravvive dell’iconografia dell’alba e del tramonto, ha a che fare con la richiesta, che Nietzsche attribuiva a Socrate, di “stabilire in permanenza […] la luce diurna dalla ragione” [10]. Dai tempi di Nietzsche, però, la “ragione” umana è stata sostituita in modo onnipervasivo e irreversibile dalle procedure informatiche delle reti 24 /7 e dalla trasmissione infinita della luce negli intricati circuiti delle fibre ottiche.
Paradossalmente il sonno può rappresentare una soggettività su cui il potere opera senza trovare la minima resistenza politica, ma anche, nello stesso tempo, una condizione che in ultima analisi non può essere strumentalizzata o controllata dall’esterno, che è in grado di sottrarsi o di vanificare le istanze della società del consumo globale. Apparirà quindi ormai quasi del tutto ovvio che molti luoghi comuni del dibattito socioculturale corrente dipendono da una valutazione univoca o banale della realtà del sonno. Maurice Blanchot, Maurice Merleau-Ponty e Walter Benjamin sono solo alcuni fra i pensatori del XX secolo che hanno meditato sulla profonda ambiguità del sonno e sulla impossibilità di collocarlo in un qualsiasi schema binario. Esso va sicuramente compreso in riferimento alle distinzioni tra la dimensione privata e quella pubblica, tra quella individuale e quella collettiva, senza trascurare del resto la permeabilità reciproca e la prossimità fra i termini in gioco. Ciò che la mia argomentazione vorrebbe indicare, in prima istanza, è che, nel contesto attuale, l’esperienza del sonno può diventare un’immagine significativa della capacità di resistenza della vita sociale, in analogia con altre situazioni marginali che la società potrebbe utilizzare come linee di protezione o di difesa. Dal momento che non vi è condizione più intima e più vulnerabile ed è comune a tutti, il sonno non può assolutamente prescindere dal sostegno della società intera.

Hobbes, nel suo Leviatano, per dimostrare nel modo più efficace l’incertezza dello stato di natura, si rifà al caso di coloro che, dormendo, si trovano isolati e alla mercé di tutti quei pericoli e malfattori che la notte porta con sé. Una delle funzioni primarie dello Stato, dunque, è quella di offrire a coloro che dormono un’adeguata protezione, non solo dalle minacce reali, ma anche – cosa non meno importante – da quelle soltanto percepite a causa della paura. Ciò accade all’interno di una più ampia ridefinizione del legame fra il sonno e la sicurezza dell’ordine sociale. All’inizio del XVII secolo, è ancora possibile ritrovare gli ultimi resti di quella mentalità gerarchica per cui il signore o il sovrano godeva di capacità diverse dai comuni mortali e quindi di una onniscienza che, almeno sul piano ideale, lo rendeva immune alle condizioni invalidanti del sonno, a differenza degli uomini e delle donne comuni costretti alla fatica del lavoro e perciò dominati da bassi istinti corporei. Comunque, nell’Enrico V di Shakespeare e nel Don Chisciotte di Cervantes si trovano sia l’affermazione sia l’esaurimento di questo modello gerarchico. Per re Enrico, non è tanto tra il sonno e la veglia che occorre marcare la differenza, quanto tra il profondo torpore adatto al “cervello vuoto” dei contadini e dei servi e lo stato di continua allerta percettiva che accompagna il sovrano nelle sue “lunghe veglie notturne”. Da una prospettiva diversa, il mondo si divide, per Sancio Panza, fra coloro che, come lui, sono nati per dormire e coloro che, invece, come il suo padrone, sono nati per vegliare. In entrambi i testi si può riscontrare, malgrado il perdurante ossequio formale alle tradizionali norme sociali, una analoga consapevolezza riguardo la perdita di valore e la persistenza meramente esteriore di quel modello paternalistico di comportamento vigile.
L’opera di Hobbes documenta in modo significativo l’avvio di un mutamento sia per quanto riguarda la garanzia della sicurezza sociale sia per quanto riguarda le esigenze dei dormienti. Un nuovo genere di pericoli ha preso il posto di quelli che occupavano l’attenzione di Enrico e del padrone di Sancio Panza, tali da richiedere una contrattazione che esclude un’esistenza dell’ordine naturale basato su una gerarchia fissa ed eternamente valida. Lo Stato borghese ai suoi inizi, come quello immaginato da Hobbes, era essenzialmente concepito per soddisfare le esigenze della classi possidenti. Pertanto, la guardia notturna che esso offre è mirata ad assicurare non tanto l’incolumità fisica dell’individuo, quanto piuttosto la protezione delle sue proprietà e dei suoi beni mentre dorme. Inoltre, la potenziale minaccia al sonno pacifico della classe proprietaria proviene dai poveri e dagli indigenti, mentre la classe più bassa, tra cui anche i “miserabili schiavi”, viene pienamente inclusa tra i dormienti su cui re Enrico era obbligato a mantenersi vigile. Lo stretto legame fra il diritto alla proprietà e il diritto – o il privilegio – a godere di un sonno ristoratore ha le sue origini nel XVII secolo ed è ancora attuale nelle città del XXI. Gli spazi pubblici oggigiorno sono progettati fin nei minimi particolari per dissuadere dal sonno, a partire non di rado – con intima perfidia – dal profilo seghettato delle panchine e di altre superfici elevate atte a impedire che un corpo umano vi si adagi sopra. La realtà tanto capillarmente diffusa quanto socialmente ignorata dei senzatetto comporta molte privazioni, eppure poche sono gravi come quelle che implicano la mancanza di un riparo notturno contro pericoli di ogni genere.

Da tempo, comunque, il contratto che sembrava dovesse offrire protezione a tutti, possidenti o meno, è stato cancellato, in senso lato. Nell’opera di Kafka, quella condizione che per la Arendt era caratterizzata dall’assenza di spazi o tempi in cui vi possano essere riposo e rigenerazione è onnipresente. Il castello, La tana e altri testi rappresentano con insistenza atmosfere in cui regna quella sensazione di insonnia costante e di veglia forzata che accompagna le moderne forme dell’isolamento e dello straniamento. Nel Castello avviene un capovolgimento dell’antico modello di protezione sovrana: qui la vigilanza saltuaria e la veglia snervante dell’Agrimensore segnano la sua inferiorità e irrilevanza nei confronti dei sonnolenti funzionari della burocrazia del castello. La tana di Kafka, il racconto di un’esistenza creaturale ridotta alla ricerca ossessiva e ansiosa di autoconservazione, è una delle più cupe descrizioni letterarie del destino umano concepito come solitudine deprivata di una qualsiasi forma di reciprocità. È una tetra rappresentazione di quel che è la vita umana in assenza di una comunità o di una società civile, a uno stadio estremo di rimozione di quelle forme di vita collettiva sperimentate per esempio nei kibbutz, di recente costruzione all’epoca, da quali Kafka era così attratto.
La realtà devastante dell’assenza di protezione o sicurezza per coloro che più ne avrebbero bisogno è emersa con terribile evidenza nel disastro dell’impianto chimico di Bhopal , in India, nel 1984. Poco dopo mezzanotte, una fuoriuscita di gas altamente tossico da un serbatoio di stoccaggio guasto provocò la morte di decine di migliaia di persone che abitavano in prossimità dell’impianto, quasi tutte mentre dormivano. Altre migliaia morirono nelle settimane e nei mesi successivi, mentre il numero dei ferite e delle persone che rimasero invalide fu ancora più elevato. Il disastro di Bhopal rappresenta una brusca rivelazione del contrasto in atto tra la globalizzazione delle multinazionali e le istanze di sicurezza e sostenibilità della comunità umane.
Nei decenni successivi al 1984, il continuo rifiuto della Union Carbide di assumersi alcuna responsabilità o di rendere giustizia alle vittime conferma che il disastro stesso non può essere presentato come un incidente e che, nel contesto delle operazioni delle multinazionali, la presenza di vittime è qualcosa che in sé non riveste la minima importanza. Certamente, le conseguenze dell’incidente sarebbero state ugualmente terribili anche nel caso in cui fosse accaduto nelle ore diurne, ma il fatto che sia accaduto di notte sottolinea la particolare vulnerabilità del dormiente in un mondo in cui le protezioni sociali più durature sono state indebolite o sono venute del tutto meno. Il tema del sonno si ricollega a numerosi presupposti fondamentali della coesione sociale, nella relazione di reciprocità che intercorre tra vulnerabilità e fiducia, tra esposizione e protezione. Centrale è il concetto di dipendenza dalla responsabilità altrui perché sia possibile la serenità ristoratrice del sonno, in quell’intervallo di tempo in cui si è liberi dalle paure e si può provare una temporanea “amnesia del male” [11]. Mentre l’erosione del tempo dedicato al sonno aumenta, può risultare più chiaro adesso il fatto che l’atteggiamento di sollecitudine necessariamente dovuto al dormiente non è diverso, sul piano qualitativo, da quella sicurezza che viene richiesta nel caso di forme di sofferenza sociale maggiormente acute e urgenti.

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Capitolo secondo



Il 24 /7 è l’annuncio di un tempo senza divenire, sottratto a qualunque delimitazione concreta o riconoscibile, un tempo senza ritmo sequenziale o ricorrente. Nel suo carattere perentoriamente riduttivo, è la celebrazione di un presente allucinato, di un inalterabile permanenza fatta di operazioni incessanti, senza attrito. È una conseguenza della trasformazione della vita sociale in realtà tecnicamente manipolabile. Inoltre suona – in modo indiretto ma efficace – come una sorta di ingiunzione o – come usano dire alcuni – come “parola d’ordine”. Deleuze e Guattari definiscono il mot d’ordre come quel comando o strumentalizzazione del linguaggio che mira a preservare o a creare la realtà sociale e il cui effetto finale è di provocare la paura [1]. A parte l’inconsistenza e l’astrattezza dello slogan, ciò che di implacabile vi è nel 24 /7 si deve alla sua temporalità impossibile. È una sentenza di rimprovero e condanna che viene costantemente mossa alla fragilità e all’inadeguatezza del tempo umano, con le sue strutture confuse e indefinite. Annulla il valore o la rilevanza di qualsiasi pausa o possibilità di variazione. Dietro il suo annuncio di una accessibilità comoda in quanto perpetua, cela la dissoluzione di un ritmo di vita periodico che ha dato forma alla maggioranza delle culture umane nel corso dei millenni, ovvero l’alternanza giornaliera di sonno e veglia nonché quella, più lunga, fra una serie di giorni dedicati al lavoro e un unico giorno consacrato alla preghiera o al riposo, che per le natiche popolazioni mesopotamiche, quella ebraica e altre ancora era la settimana, costituita appunto da sette giorni. In diverse culture antiche, dagli egiziani ai romani, la settimana era costituita da otto o dieci giorni, organizzata in base ai giorni di mercato o alle fasi della luna. Il weekend rappresenta ciò che è rimasto nell’epoca moderna di quei sistemi così durevoli, ma persino questa impalcatura della scansione temporale tende a venir meno con l’imposizione dell’omogeneità 24 /7. Naturalmente, quelle antiche distinzioni (i giorni della settimana, la vacanza, la stagione) persistono, ma il loro significato e la loro leggibilità sono stati cancellati dal monotono livellamento del 24 /7.

Se l’espressione 24 /7 può essere provvisoriamente concettualizzata come parola d’ordine, la sua forza non è quella di una vera e propria richiesta di sottomissione o di obbedienza alla sua forma apodittica. La sua efficacia consiste piuttosto nell’incompatibilità o discrepanza che rivela tra il mondo della vita degli esseri umani e l’evocazione di un universo perennemente ON, in cui la modalità OFF non è assolutamente prevista. Naturalmente, nessuno è davvero in grado di fare acquisti, giocare, lavorare, bloggare, scaricare files o inviare sms per una durata 24 /7. Comunque, poiché oggigiorno non esiste alcun momento, luogo o situazione in cui non sia possibile fare acquisti o consumare e sfruttare le risorse in rete, è in corso un attacco inesorabile da parte del non tempo 24 /7 contro ogni aspetto della vita sociale o individuale. Si può dire che attualmente quasi non esistano, per esempio, circostanza che non possano essere registrate o archiviate in immagini o informazioni digitali. La promozione e l’adozione delle tecnologie wireless e il loro annullamento dell’unicità di luogo ed evento non sono altro che una ripercussione delle nuove esigenze istituzionali. Nella sua spoliazione delle ricche tessiture e dell’ineffabilità del tempo umano, il 24 /7 suscita una identificazione nel contempo impossibile e autodistruttiva con le sue esigenze fantasmatiche; sollecita un investimento illimitato ma perennemente incompiuto in tutti quei prodotti che sono concepiti per agevolare questa identificazione. Non elimina esperienze esterne oppure indipendenti da questo processo, ma ne smorza l’intensità e ne sminuisce l’importanza. Gli esempi dei modi in cui strumenti e dispositivi comunemente usati hanno un impatto su varie forme di socialità in scala ridotta (il momento del pasto, una conversazione o una lezione scolastica) sono ormai dei luoghi comuni, ma il danno cumulativo che provocano non è per questo meno significativo. Nel mondo in cui viviamo, le nozioni più profondamente radicate di come deve essere un’esperienza condivisa si atrofizzano ma, d’altra parte, non si ottengono mai realmente le gratificazioni o i premi ventilati dalle opzioni tecnologiche più recenti. Malgrado le sbandierate e insistenti assicurazioni circa la compatibilità, persino l’armonizzazione, fra il tempo umano e le temporalità dei sistemi telematici, la realtà vissuta di questa relazione è fatta di disgiunzioni, di fratture di un continuo squilibrio.

Deleuze e Guattari sono arrivati al punto di paragonare la parola d’ordine a una “sentenza di morte”. Da un punto di vista sia storico che retorico, parte di questo significato originale potrebbe essere andato perso, ma un giudizio così enunciato continua a operare all’interno di un sistema in cui è in atto un esercizio di potere sul corpo. Essi osservano anche che la parola d’ordine è nello stesso tempo “un grido di avvertimento (e) un invito alla fuga”. Annunciando la propria assoluta invisibilità, il 24 /7 si può cogliere in tutta la sua ambivalenza. Non funziona soltanto come stimolo sul soggetto individuale affinché si concentri in modo esclusivo sulle varie modalità di acquisizione, gestione, gioco, visione distratta, sperpero e irrisione, ma è pienamente interconnesso con meccanismi di controllo che mantengono l’inutilità e l’impotenza del soggetto nei confronti delle proprie esigenze. L’esternalizzazione dell’individuo in siti dove può essere sottomesso costantemente a un minuzioso esame e a procedure regolative è effettivamente coerente con l’organizzazione del terrore di Stato e il paradigma militare-poliziesco del controllo a tutto campo.
Per fare un solo esempio, il massiccio ricorso ai droni, gli aerei comandati a distanza, è stato possibile grazie a una sistematica raccolta dati di intelligence che l’aviazione degli Stati Uniti ha chiamato Operazione Gorgon Stare (Sguardo della Gorgone). Si tratta di un sistema che si avvale di diversi strumenti di sorveglianza e analisi dei dati per “vedere” ininterrottamente, 24 /7, chiunque si trovi a terra, a prescindere dall’ora del giorno e della notte o dal tempo atmosferico, e rivolge agli esseri umani su cui opera uno sguardo totalmente – e mortalmente – indifferente. Il terrorismo 24 /7 si manifesta non solo negli attacchi dei droni, ma anche nella pratica diffusa dei raids notturni delle forze speciali, in Iraq, Afghanistan e in altri paesi. Provvisti di dati satellitari forniti da Gordon Stare, muniti di equipaggiamento avanzato per la visione notturna e lanciati senza preavviso da silenziosi elicotteri stealth, i commando americani sferrano attacchi notturni su villaggi e insediamenti umani, ufficialmente allo scopo di compiere uccisioni mirate. Queste operazioni hanno scatenato la furia della popolazione afghana, non soltanto per i loro esiti mortali, ma anche perché distruggono deliberatamente l’alternanza fra il giorno e la notte. Parte delle strategia più ampia, nel contesto delle culture tribali dell’Afghanistan, prevede l’eliminazione dell’intervallo del sonno, condiviso a livello comunitario, e la sua sostituzione con un inevitabile stato di tensione permanente. È un’applicazione delle stesse tecniche psicologiche impiegate ad Abu Ghraib e a Guntanamo, in questo caso su una popolazione più ampia, che sfruttano la vulnerabilità del sonno e i modelli sociali a esso collegate come forme meccanizzate di terrore.

Benché più volte abbiamo evocato immagini di illuminazione perpetua per caratterizzare il 24 /7, va sottolineato che la loro utilità è ridotta, se la prendiamo alla lettera; il 24 /7, così come si riferisce all’estinzione del buio e all’oscurità, indica anche l’impossibilità del giorno. Sopprimendo tutte le condizioni di luce che non siano legate a precise funzionalità, il 24 /7 fa parte di un’immensa compromissione dell’esperienza visiva. Corrisponde a un campo onnipresente, in cui si è esposti a operazioni guidate da determinate aspettative, in cui l’attività ottica individuale viene costantemente osservata e organizzata. All’interno di questo campo, le caratteristiche di contingenza e variabilità del mondo visibile non sono più accessibili.
Le recenti innovazioni più significative riguardano non tanto nuove forme meccaniche di visualizzazione, ma le diverse modalità in cui si è verificata una disintegrazione delle capacità umane di vedere, specialmente in quella capacità che permette di collegare le discriminazioni visive a valutazioni morali e sociali. All’interno di un infinito supermarket fatto di stimoli e attrazioni costantemente disponibili, il 24 /7 compromette la visione attraverso processi di omogeneizzazione, ridondanza e accelerazione. Contrariamente alle opinioni più diffuse, è in atto un progressivo calo delle capacità percettive e cognitive, piuttosto che una loro espansione o rimodulazione. I nuovi assetti della vita sociale sono paragonabili al bagliore di una illuminazione ad alta intensità oppure a condizioni di white-out, in cui vi è una scarsa differenziazione di tonalità che non permette una conoscenza percettiva distinta e un orientamento temporale condiviso. Il bagliore, in questo caso, non è un fenomeno luminoso in senso letterale, ma ha a che fare piuttosto con la ininterrotta asprezza di una monotona stimolazione, in cui una più ampia varietà di possibili risposte rimane congelata o neutralizzata.
In Eloge de l’amour di Jean-Luc Godard (2001), una voce fuoricampo pone la seguente domanda: “Quando è avvenuta la fine dello sguardo?” (“Quand est-ce-que le regard a basculè?”) e prosegue: “È stato dieci anni fa? Quindici o anche cinquant’anni fa, prima delle televisione?”. Nessuna risposta precisa viene data, poiché in questo e in altri film più recenti Godard spiega il fatto che la crisi dell’osservatore e dell’immagine è cumulativa, con radici storiche sovrapposte, a prescindere da qualsiasi nuova tecnologia. Eloge de l’amour è una meditazione di Godard sulla memoria, sulla resistenza e sulla responsabilità intergenerazionale, in cui egli chiarisce che qualcosa di fondamentale è cambiato nel modo in cui vediamo oppure non vediamo più il mondo. Parte di questo fallimento, egli suggerisce, deriva da un legame compromesso con il passato e con la memoria. Siamo sommersi da immagini e informazioni relative alla storia e alle sue catastrofi più recenti, ma vi è anche una crescente incapacità di mettere in gioco queste tracce in modo che diventi possibile un effettivo superamento di quelle esperienze, nell’interesse di un futuro comune.
Nel cuore dell’amnesia di massa in cui siamo sospinti dalla cultura del capitalismo globale, le immagini sono diventate uno dei molti elementi depotenziati e disponibili che, nella loro intrinseca archiviabilità, finiscono per non essere mai scartati, contribuendo alla creazione di un presente sempre più congelato e senza futuro. A volte, Godard sembra ottimista riguardo alla possibilità di immagini che siano completamente inutili per il capitalismo ma, come chiunque altro, non sopravvaluta mai l’immunità delle immagini al loro recupero e alla loro neutralizzazione.

Secondo uno dei presupposti più comuni e inconsistenti del dibattito corrente a proposito di cultura e nuove tecnologie, vi sarebbe stato un mutamento epocale in tempi relativamente brevi, per cui i nuovi mezzi informatici della comunicazione avrebbero soppiantato tutta una varietà di forme espressive della cultura precedente. Questo mutamento storico viene descritto e teorizzato in modi diversi, come un passaggio dalla produzione industriale all’economia dei servizi oppure dei media analogici a quelli digitali oppure, ancora, da una cultura basata sulla stampa a una società globale unificata grazie alla circolazione istantanea dei dati e delle informazioni. Più spesso, tali periodizzazioni dipendono dal confronto con epoche precedenti, definite a loro volta da innovazioni tecnologiche specifiche. All’asserzione quindi che siamo entrati in un’epoca del tutto nuova si usa aggiungere l’inevitabile e rassicurante paragone con “l’era Gutenberg”, per esempio, oppure con la “rivoluzione industriale”. In altri termini, la descrizione di un momento di rottura radicale è nel contempo l’affermazione della continuità con modelli e sequenze di più lunga durata rispetto al cambiamento e alle innovazioni tecnologiche.
Si fa spesso riferimento al fatto che ci troviamo in un momento transitorio, nel passaggio da “un’era” a quella successiva, quindi in un periodo di adattamento, individuale e collettivo, che potrebbe durare anche un paio di generazioni, prima che possa dirsi davvero avviata una nuova epoca di relativa stabilità. La scelta di rappresentare la fase attuale della globalizzazione come una nuova era tecnologica comporta che venga conferito un carattere di storica inevitabilità agli esiti del cambiamento sperimentato negli sviluppi economici su ampia scala e nei microfenomeni della vita quotidiana più recenti. L’idea che il cambiamento tecnologico sia quasi autonomo, come se fosse guidato da un qualche processo di autopoiesis o di autorganizzazione, fa si che molti aspetti della realtà sociale contemporanea siano accettati come circostanze necessarie e immutabili, sul modello dei fatti naturali. Parallelamente all’erronea scelta di collocare i prodotti e gli strumenti oggi più diffusi sulla stessa linea cronologica che include la ruota, l’arco a sesto acuto, i caratteri mobili e così via, c’è stato l’occultamento delle tecnologie più importanti che siano apparse negli ultimi centocinquant’anni: i vari sistemi per la gestione e il controllo degli esseri umani.

Questa definizione pseudostorica del presente come inizio di un’era digitale, apparentemente paragonabile all’ “età del bronzo” o a quella “industriale”, permette di fissare e unificare in caratteristiche illusoriamente coerenti e durevoli i diversi e incommensurabili fattori che costituiscono l’esperienza contemporanea. L’esempio più chiaro, fra le molte versioni di questa illusione, si può trovare nelle opere propagandistiche e di scarso valore intellettuale di futurologi come Nicholas Negroponte, Esther Dyson, Kevin Kelly e Raymond Kurzweil. Uno dei motivi più ricorrenti, in questi luoghi comuni, è l’idea che i bambini e gli adolescenti di oggi vivano i loro ambienti ipertecnologici, così amichevoli nella loro completa intelligibilità e costantemente presenti, con la massima spontaneità e naturalezza. Questa descrizione sembrerebbe confermare il fatto che a questa generazione debba seguire, nel giro di qualche decennio o anche meno, una volta compiuta la fase transitoria, un’epoca in cui vi saranno miliardi di persone provviste delle stesse conoscenze di base e dotate delle stesse competenze tecnologiche. Con un nuovo paradigma in vigore, vi sarà “innovazione”, ma in questo scenario essa si attuerà all’interno dei parametri concettuali e funzionali ormai stabili e durevoli della nostra epoca “digitale”.
Tuttavia la realtà molto diversa del nostro tempo è il mantenimento deliberato di un costante stato di transizione. Non è assolutamente previsto un punto di arrivo né sul piano individuale né su quello collettivo, dal momento che le esigenze tecnologiche sono in costante divenire. Per la stragrande maggioranza delle persone, l’atteggiamento percettivo e cognitivo nei confronti delle nuove tecnologie della comunicazione continuerà a essere straniato e depotenziato a causa della rapidità con cui emergono sempre nuovi prodotti e avvengono arbitrarie riconfigurazioni di interi sistemi. Un ritmo così accelerato impedisce in effetti di abituarsi a qualsiasi cambiamento. Alcuni studiosi dei mutamenti culturali sostengono che in condizioni simili possono manifestarsi le premesse per neutralizzare il potere delle istituzioni, ma le prove a sostegno di questa tesi sono di fatto inesistenti.

A un livello profondo, questa situazione non è del tutto nuova. La logica della modernizzazione economica in atto oggi si può far risalire alla metà del XIX secolo. Marx fu uno dei primi a comprendere la sostanziale incompatibilità del capitalismo con qualsiasi sistema sociale stabile o durevole, e la storia degli ultimi centocinquant’anni è strettamente correlata con la “rivoluzione permanente” delle forme di produzione, di circolazione, di comunicazione e di produzione delle immagini. In questo arco di tempo, tuttavia, in particolari settori della vita economica e culturale, vi sono stati numerosi intervalli di stabilità apparente, in cui alcuni sistemi e istituzioni sono sembrati permanenti o comunque durevoli. Il cinema, per esempio, da un punto di vista tecnologico è parso assumere alcune caratteristiche proprie in modo stabile, dalla fine degli anni Venti agli anni Sessanta o anche fino ai primi anni Settanta. Come si vedrà nel capitolo terzo, la televisione, negli Stati Uniti, ha segnato apparentemente sia la vita quotidiana sia l’esperienza condivisa, fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta. Questi periodi storici, in cui certe particolari caratteristiche sembravano costanti, permettevano ai critici di formulare teorie sul cinema, sulla televisione o sui video basate sul presupposto che queste forme o sistei fossero costituiti da terminati elementi essenziali. In retrospettiva, quelle definizioni in apparenza così solide si basavano su tratti passeggeri di più ampie costellazioni, i cui ritmi di cambiamento erano variabili e imprevedibili.
In modo del tutto analogo, dagli anni Novanta in poi, sono state elaborate riflessioni ambiziose per fissare le manifestazioni essenziali o intrinseche dei “nuovi media”. Anche i tentativi più brillanti in questo senso risultano spesso limitati dal loro presupposto implicito, che già era alla base degli studi sulle epoche precedenti, per cui l’obiettivo principale sarebbe necessariamente quello di delineare e analizzare un nuovo paradigma o un nuovo sistema tecnologico/discorsivo e, cosa ancora più importante, che tale nuovo sistema sarebbe derivabile dagli strumenti, dalle reti, dai dispositivi, dai codici e dalle architettura globali attualmente in funzione. Va però sottolineato il fatto che, a differenza di quanto sostenuto da tali studi, in realtà non stiamo semplicemente passando da un assetto o sistema tecnico/discorsivo a un altro. Il fatto che gli scritti sui nuovi media pubblicati solo cinque anni fa siano già sorpassati è particolarmente significativo e anche una sola pagina scritta oggi sull’argomento risulterà inattuale in tempi anche molto più brevi. Una particolare prestazione o un particolare effetto realizzato da un nuovo strumento o da una nuova rete ha un’importanza assai minore rispetto ai odi in cui i ritmi, i livelli di velocità e le formule del consumo potenziato e accelerato stanno rinnovando l’esperienza e la percezione comune.
Per citare un solo esempio, tratto dalla letteratura più recente: molti anni or sono, un teorico tedesco dei media ha affermato che il cellulare dotato di display visuale rappresentava una svolta “rivoluzionaria” rispetto alle tecnologie precedenti, inclusi tutti i tipi di cellulari fino ad allora realizzati. Egli riteneva che, per via della sua mobilità, della miniaturizzazione dello schermo e della possibilità di visualizzare sia dati che immagini, si trattasse di un’ “innovazione davvero fondamentale”. Anche volendo considerare la storia della tecnologia come una successione di invenzioni e scoperte, non ci si può nascondere che l’importanza di questo dispositivo particolare risulterà sicuramente effimera. Sarà più utile intendere uno strumento simile come uno fra i tanti elementi di un flusso mutevole, in cui prodotti tanti indispensabili quanto provvisori non fanno che avvicendarsi. Stanno già per essere introdotti sul mercato tipi di display ancora più sofisticati, alcuni montati anche in particolari caschi, provvisti di interfacce trasparenti, che danno accesso alla “realtà aumentata”, con perfetta coincidenza fra schermo virtuale e campo visivo. Inoltre, si vanno realizzando computer a comandi gestuali in cui, anziché utilizzare il clic, sarà sufficiente, per interagire con il computer, fare un gesto, un semplice cenno o un movimento oculare. In un prossimo futuro, queste nuove apparecchiature saranno certamente in grado di sostituirsi a tutti quegli strumenti provvisti di tastiera o di schermo touch che, essendo onnipresenti, oggi appaiono imprescindibili, e quindi vanificare qualsiasi giudizio storico circa la loro presunta rilevanza. Nel momento in cui tali strumenti fossero introdotti nel mercato (con la rituale etichetta di “rivoluzionari”), non faranno altro che agevolare il perpetuarsi degli stessi prevedibili meccanismi di consumo non stop, di isolamento sociale e di impotenza politica, piuttosto che porsi come punto di svolta davvero rilevante da un punto di vista storico. Anche essi, inoltre, occuperanno soltanto un breve spazio di tempo nell’attualità, prima della loro inevitabile sostituzione e accantonamento nel cumulo di rifiuti della tecnospazzatura globale. L’unico elemento che fornisca un senso coerente al continuo avvicendarsi di prodotti e servizi di consumo apparentemente privo di ordine consiste nell’integrazione sempre più stretta del proprio tempo e delle proprie attività all’interno dei parametri del sistema di scambio elettronico. Ogni anno vengono spesi miliardi di dollari per cercare di ridurre il tempo occupato dai processi decisionali ed eliminare del tutto il tempo inutile della riflessione e della contemplazione. Sono queste le modalità in cui si realizza il progresso nell’epoca contemporanea, attraverso il tentativo inesorabile di imbrigliare e sottoporre a stretto controllo sia il tempo che l’esperienza degli esseri umani.
Come è stato notato da più parti, l’innovazione nel mondo capitalistico assume l’aspetto di un’incessante simulazione del nuovo, mentre le relazioni di potere e di controllo esistenti permangono identiche a se stesse. Per gran parte del XX secolo, la produzione del nuovo, benché in effetti frusta e ripetitiva, è stata spesso presentata sul mercato in modo tale che si adeguasse alla prefigurazione collettiva di un futuro più avanzato o comunque diverso dal presente. Nel quadro dell’ottimismo avveniristico tipico degli anni Cinquanta del XX secolo, i prodotti che si acquistavano ed entravano a far parte della vita sembravano in qualche modo ricollegarsi a suggestioni popolari di una prosperità globale definitiva, in cui il lavoro umano viene benignamente sostituito dall’automazione, l’umanità si accinge alla trionfale esplorazione dello spazio, la criminalità e le malattie vengono debellate una volta per tutte e così via. Per quanto fallace, la fiducia nella tecnologia come mezzo per risolvere i problemi sociali più complessi non veniva messa in discussione. Oggi, invece, il tempo accelerato di un cambiamento apparente rende impossibile qualunque riferimento a un quadro più ampio, condiviso collettivamente, che possa reggere un’anticipazione anche soltanto vaga di un futuro diverso dalla realtà contemporanea. Il 24 /7 è costruito intorno ai valori individuali della competitività, della crescita, della tendenza all’accumulo, della sicurezza personale e della comodità a spese altrui. Poiché il futuro è continuamente a portata di mano, diventa concepibile soltanto come continuità dell’impegno per u ulteriore vantaggio individuale o per la propria sopravvivenza in un tempo presente che non potrebbe essere più vacuo.

Il mio ragionamento segue due diversi fili conduttori che si trovano in apparente contrasto. In primo luogo, sto affermando, come altri autori, che la cultura tecnologica contemporanea corrisponde ancora, nelle sue manifestazioni, alla logica della modernizzazione avviata alla fine del XIX secolo, per cui vi sono alcune caratteristiche essenziali del capitalismo degli inizi del XXI secolo che possono essere ricondotte in qualche modo ai piani industriali di personaggi come Werner Siemens, Thomas Edison e George Eastman. I loro nomi possono rappresentare in modo emblematico lo sviluppo degli imperi delle multinazionali strutturate in modo verticistico, che hanno dato una nuova forma ad aspetti fondamentali del comportamento sociale. Le loro ambizioni di precursori furono realizzate attraverso (1) una concezione dei bisogni umani per cui essi sono sempre mutevoli e ampliabili, (2) un’idea embrionale della merce intesa come elemento potenzialmente convertibile in flussi astratti, che siano di immagini, di musica o di energia, (3) l’adozione di sistemi più efficaci per diminuire il tempo di circolazione e (4) nel caso di Eastman e Edison, una precoce ma chiara visione delle reciprocità economiche che intercorrono fra l’hardware e il software. Le conseguenze di questi modelli del XIX secolo, specialmente l’agevolazione e la massimizzazione della distribuzione di contenuti, si sono largamente imposte sulla vita umana per tutto il XX secolo.
In secondo luogo, in alcuni momenti del tardo XX secolo, è possibile identificare, nella successione delle diverse fasi della modernizzazione, una costellazione di forze e di entità distinte da quelle del XIX secolo. Alla fine degli anni Novanta, le organizzazioni a carattere verticistico hanno subito una profonda trasformazione, come risulta dagli esempi più noti della Microsoft, di Google e altri, benché alcuni residui delle strutture gerarchiche precedenti persistessero accanto ai nuovi modelli, più flessibili e capillari, di implementazione e controllo. Il tale contesto ormai mutato, il consumo tecnologico coincide – tanto da confondersi completamente – con strategie ed effetti di potere. Certamente, per gran parte del XX secolo, l’organizzazione della società dei consumi non è mai stata disgiunta da forme di assoggettamento e di controllo sociale, ma ora la gestione del comportamento economico è diventata un sistema atto a formare e perpetuare individui docili e consenzienti.
Non ha cessato di rimanere in atto la logica precedente dell’obsolescenza pianificata, continuando ad alimentare la richiesta di sostituzione o di miglioramento. In ogni caso, anche se la dinamica che determina l’innovazione dei prodotti continua ad essere collegata all’incremento dei profitti o alla competizione fra le aziende per il dominio nel proprio settore, il maggior spazio di tempo occupato da sistemi, modelli e piattaforme “migliorate” o riconfigurate contribuisce in modo fondamentale alla ricostruzione del soggetto individuale e all’intensificazione del controllo sociale. Un atteggiamento passivo e una condizione di isolamento non sono sottoprodotti occasionali di un sistema economico globale finanziarizzato, ma sono alcune delle sue principali finalità. Vi è un nesso anche più stretto fra i bisogni individuali e i piani funzionali e ideologici di cui ogni nuovo prodotto è inscritto. Lungi dall’essere quasi mai soltanto concreti strumenti o apparecchiature, inoltre, i “prodotti” sono in realtà servizi e interconnessioni di vario genere che assumono rapidamente il valore di modelli ontologici dominanti o esclusivi nella realtà sociale di ciascun individuo.
Ma questo fenomeno contemporaneo di accelerazione continua non si manifesta come una semplice successione lineare di innovazioni, per cui ogni nuovo prodotto si sostituisce a un altro che non è più di moda. A ogni sostituzione si accompagna una crescita esponenziale delle scelte e delle opzioni possibili. Si tratta di un processo inarrestabile di ampliamento ed espansione, che accade in modo simultaneo su livelli e in sedi diverse, per cui vi è una moltiplicazione delle fasce temporali e degli ambiti esperienziali annessi alle operazioni e alle necessità delle nuove tecnologie. La dinamica della dislocazione (o obsolescenza) costante si sposa a un aumento e una diversificazione dei processi e dei flussi con cui ogni individuo viene collegato in maniera sempre più efficace. Ogni tecnologia apparentemente nuova rappresenta anche una dilatazione qualitativa nell’adattamento di ciascuno alla dipendenza del 24/7 e dalle sue routine; costituisce un’occasione ulteriore nello sviluppo del processo per cui l’individuo viene trasformato in un’applicazione di nuovi sistemi di controllo e imprese.

Va detto però che, attualmente, è possibile sperimentare i vari tipi di funzionamento di un sistema economico globale in un’ampia varietà di modi. Nelle aree più multiculturali del pianeta, le strategie di depotenziamento degli individui, basate sull’imposizione di tecniche di personalizzazione digitale e di autoamministrazione, si espandono anche nei gruppi a reddito molto basso. Vi sono, poi, contemporaneamente, grandi masse di persone che si trovano a livello di mera sussistenza o anche al di sotto, che non possono essere integrate in relazione alle nuove esigenze dei mercati e diventano quindi irrilevanti e sacrificabili. La morte, per molti versi, è uno dei sottoprodotti del capitalismo: nel momento in cui una persona è stata privata di tutto, dalla sua forza lavoro alle sue risorse di ogni genere, essa diventa semplicemente inutile. D’altra parte, l’attuale crescita di fenomeni come la schiavitù sessuale e il traffico di organi e altre parti del corpo induce a pensare che il limite estremo di utilizzabilità di un essere umano potrebbe anche venire spostato, al fine di soddisfare le esigenze di nuovi settori di mercato.
Questo inarrestabile accrescimento dei consumi tecnologici, in corso da almeno due o tre decenni, non permette in alcun caso un intervallo di tempo abbastanza lungo da far sì che l’uso di un certo prodotto o la combinazione di diverse apparecchiature possa diventare tanto familiare da venire relegato fra gl elementi di sfondo della propria vita. L’importanza delle funzionalità operative e delle prestazioni supera di gran lunga l’interesse di ciò che un tempo sarebbe stato presentato come “contenuto”. Il dispositivo non è più il mezzo per conseguire un certo insieme di risultati, ma è diventato fine a se stesso. La sua finalità principale è quella di condurre il proprio utente a svolgere in modo sempre più efficiente i propri compiti e la propria funzione nella quotidianità. Non è prevista a livello sistemico la possibilità che vi sia un’interruzione o una pausa nella quale si apra un quadro temporale di più lungo respiro, in cui facciano la loro comparsa forme di impegno e progettualità sovraindividuali. La durata assai breve del ciclo vitale di un determinato dispositivo o apparecchiatura giustifica la sensazione di piacere e l’aura di prestigio associati al suo possesso ma comporta anche, nel contempo, la consapevolezza che l’oggetto in quanto tale è segnato da un destino di impermanenza e di caducità. I tempi di sostituzione una volta erano abbastanza lunghi da permettere che l’illusione volontaria della semipermanenza si instaurasse almeno per un certo lasso di tempo. Oggi, il fatto che sia sufficiente una durata così breve perché un sofisticato prodotto tecnologico si trasformi in niente altro che spazzatura richiede fin dall’inizio la compresenza di due disposizioni mentali contraddittorie: da una parte, il bisogno e/o il desiderio dell’oggetto, dall’altra, l’accettazione positiva della sua appartenenza a un processo di inesorabile cancellazione e sostituzione. Le incalzanti immissioni nel mercato di prodotti sempre nuovi provocano una disabilitazione della memoria collettiva e implicano il fatto che lo svuotamento della conoscenza storica non debba più essere realizzato come imposizione dall’alto. Le condizioni di accesso al flusso delle informazioni e della comunicazione su base quotidiana assicurano la cancellazione sistematica del passato come parte della costruzione fantasmatica del presente.
Inevitabilmente, cicli tanto brevi potranno suscitare, almeno in alcuni, il timore di essere fuori moda e altre frustrazioni del genere. Per tutti diventa importante, in ogni caso, saper riconoscere gli stimoli capaci di maggiore attrazione, al fine di adattarsi a una sequenza in continua evoluzione, fondata sulla promessa di funzionalità sempre migliori, benché l’offerta di concreti benefici venga in realtà sempre differita. Attualmente, il desiderio di accumulare oggetti conta meno rispetto alla ricerca di una conferma chela propria vita sia conforme a quelle applicazioni, quegli strumenti o quelle reti che, in ogni singolo istante, vengono offerte e promosse con grande clamore. Da questo punto di vista, i ritmi accelerati di acquisizione ed eliminazione non sono sentiti come qualcosa di negativo ma, anzi, come un segno tangibile della propria capacità di accedere ai flussi e alle funzionalità più richieste. Come osservano Boltanski e Chiapello, i fenomeni sociali caratterizzati da stasi apparenti o da bassi ritmi di cambiamento vengono sospinti ai margini e destituiti di valore o desiderabilità. Si avverte attualmente una tendenza più o meno forte a rifuggire qualsiasi impegno o attività che non preveda l’uso di una sofisticata interfaccia con molteplici collegamenti.
La soggezione nei confronti di queste configurazioni finisce per diventare ineluttabile, per timore dei presagi di fallimento sociale ed economico, per paura di restare indietro o di essere ritenuti fuori moda. I ritmi incalzanti del consumo di nuove tecnologie sono strettamente correlati all’esigenza di un’autoamministrazione permanente. Ogni nuovo prodotto o servizio viene presentato come un aiuto fondamentale alla gestione burocratica dell’esistenza e vi è un numero in costante crescita di routine e di operazioni che vanno a popolare la nostra vita senza che nessuno le abbia davvero scelte. Il livello di privatizzazione e compartimentazione raggiunto nelle attività di ciascuno in questa sfera tende a rafforzare l’illusione che si possa “ingannare il sistema” e riuscire ad assumere un atteggiamento di personale superiorità, di maggiore intraprendenza o di minore compromissione, in apparenza, rispetto a quei compiti. Il mito dell’hacker solitario perpetua la fantasia che la relazione asimmetrica dell’individuo nei confronti della rete possa essere interpretata dal primo in modo creativo, a proprio favore. Nella vita contemporanea, il lavoro di autogestione cui siamo costretti ha i tratti inevitabili di una omogeneità imposta. L’illusione della scelta e dell’autonomia è uno dei fondamenti di questo sistema globale di autoregolazione. Non è raro imbattersi ancora nell’idea che gli assetti tecnologici contemporanei siano un insieme essenzialmente neutrale di strumenti che possono essere utilizzati in molti modi, anche al servizio di una politica emancipativa. Il filosofo Giorgio Agamben ha respinto ogni possibile affermazione di questo genere, replicando che “oggi non vi è neppure un singolo istante in cui la vita degli individui non sia modellata, contaminata o controllata da un qualche dispositivo”. Egli afferma in modo assai persuasivo che “è del tutto impossibile che il soggetto del dispositivo lo usi ‘nel modo giusto’. Coloro che tengono simili discorsi sono, del resto, a loro volta il risultato del dispositivo mediatico in cui sono catturati” [2].
Concentrare l’attenzione sulle proprietà estetiche delle immagini digitali, come accade a molti teorici e critici, significa dimenticare la subordinazione dell’immagina a un’ampia gamma di operazioni e di esigenze non visive. La maggior parte delle immagini oggi sono prodotte allo scopo di massimizzare la quantità di tempo trascorso in forme quotidiane di autogestione e autoregolazione individuale. Secondo Fredric Jameson, con il venir meno di quei confini che per consuetudine erano sentiti come invalicabili tra la sfera lavorativa e quella del tempo libero, l’impegnativo di guardare le immagini è diventato di fondamentale importanza per ciò che concerne il funzionamento delle istituzioni dominanti nell’epoca attuale. Egli sottolinea il fatto che le immagini della cultura di massa, fino alla metà del XX secolo, rappresentavano spesso un modo per aggirare gli opprimenti divieti del Super-Io [3]. Ora, in una sorta di capovolgimento, le perentorie istanze di perpetua immersione 24 /7 nel flusso dei contenuti visivi diventano di fatto una nuova forma di Super-Io istituzionale. Naturalmente, vengono guardate o anche solo viste molte più immagini e di maggiore varietà di quanto non sia mai stato possibile fino a oggi, ma ciò avviene nell’ambito di quella che Foucault ha definito come una “rete di osservazione permanente”. La maggior parte delle accezioni che, di volta in volta, il termine “osservatore” ha assunto nel corso della storia risultano stravolte nelle condizioni attuali, nel momento in cui, cioè, gli atti individuali della visione sono costantemente sollecitati per essere trasformati in informazioni, non soltanto al fine di potenziare le tecnologie del controllo, ma anche per diventare una specie di plusvalore, in un mercato che risulta possibile fondamentalmente in base all’accumulazione dei dati relativi al comportamento degli utenti. Il rovesciamento dei presupposti risulta ancora più significativo se consideriamo la posizione e la capacità di agire di un osservatore in quella svariata e sempre più ampia serie di mezzi tecnici che sono in grado di trasformare gli stessi atti della visione in oggetti di osservazione.

I sistemi di sorveglianza e di analisi dei dati più avanzati, in uso presso le agenzie di intelligence, sono diventati indispensabili, oggi, anche nelle strategie di marketing delle grandi imprese. Assai diffusi sono per esempio gli schermi o altri tipi di display capaci di trasformare i movimenti oculari, così come la durata e i punti di interesse visivo, in sequenze o flussi di dati graficamente rappresentati. Lo spoglio casuale, a opera di chiunque, di una pagina web, può diventare oggetto di analisi particolareggiate e di precise misurazioni rispetto ai modi in cui procede lo sguardo, ciò che esamina, in quali punti e per quanto tempo si ferma e quali elementi considera con attenzione prioritaria. Anche nei corridoi e nei reperti dei grandi supermercati, possono esserci in funzione lettori di movimenti oculari capaci di fornire informazioni dettagliate riguardo al comportamento individuale, per esempio, per quanto tempo ci si è soffermati a osservare gli articoli che non si sono poi scelti. È stata anche finanziata in modo assai sostanzioso, in un particolare caso, una ricerca applicativa sull’ergonomia ottica. Siamo chiamati a collaborare in modo passivo e non di rado anche volontario alla sorveglianza e all’estrazione di dati dalle nostre azioni. Di qui lo sviluppo vertiginoso di sistemi sempre più raffinati, capaci di intervenire sia sul comportamento individuale sia su quello collettivo.
Nello stesso tempo, le immagini sono strettamente collegate con quella varietà di informazioni non visive che occupano la nostra attenzione regolarmente. La percezione sensoriale strumentalizzata è un aspetto meramente accessorio in relazione a quell’insieme cumulativo di attività che vanno dall’accesso all’archiviazione, dalla formattazione alla manipolazione, alla circolazione, allo scambio. I pervasivi flussi di immagini 24 /7 sono immensi, ma ciò che anzitutto risulta assolutamente impegnativo è la gestione delle condizioni tecniche che li riguarda: tutte le operazioni in continuo aumento di esecuzione e trasmissione, creazione e archiviazione, aggiornamento e introduzione di nuovi accessori.

Ci si imbatte costantemente nella convinzione follemente presuntuosa che modelli sistemici come questi siano “definitivi” e che livelli di consumo tecnologico così elevati possano estendersi a una popolazione planetaria di sette miliardi di persone, che presto diventeranno dieci. Molti di coloro che celebrano le potenzialità di trasformazione delle reti informatiche dimenticano le forme oppressive del lavoro umano e la distruzione ambientale strettamente connessa con le loro fantasie di virtualità e dematerializzazione. Anche in molti di coloro secondo cui “un altro mondo è possibile” alberga il comodo equivoco che la giustizia economica, la riduzione dei cambiamenti climatici e l’uguaglianza dei rapporti sociali possano in qualche modo realizzarsi nello stesso mondo in cui continuano a esistere multinazionali come Google, Apple e General Electric. Ogni ipotetico contrasto nei confronti di simili illusioni deve fare i conti con forme di sorveglianza intellettuale di molti tipi. Pesa un vero e proprio divieto non solo sulla critica del consumismo tecnologico coatto, ma anche sulla proposta di riorientare le funzionalità e i presupposti tecnici esistenti, affinché siano messi al servizio dei bisogni degli esseri umani e della società, anziché delle esigenze dell’impero capitalistico. L’insieme limitato e vincolato dai monopoli dei prodotti e dei servizi elettronici disponibili in un particolare momento viene mascherato come l’onnicomprensivo fenomeno della “tecnologia”. Anche un parziale rifiuto dell’offerta promossa tanto intensamente sul mercato da parte delle multinazionali viene interpretato come avversione per la tecnologia in quanto tale. L’intento di attribuire agli assetti odierni, di fatto improponibili e insostenibili, caratteri anche solo lievemente diversi dall’inevitabilità e dall’immutabilità, è una vera e propria eresia, nella cultura contemporanea. È diventata inammissibile l’idea stessa che esistano opzioni di vita credibili o visibili al di fuori di quanto richiesto dal sistema di comunicazione e consumo 24 /7. Qualsiasi tentativo di discutere o screditare quelli che attualmente sono i mezzi più idonei per ottenere un atteggiamento docile e quiescente e promuovere l’interesse individuale come unica raison d’etre di ogni attività sociale, viene rigorosamente emarginato. La scelta di elaborare progetti di vita in cui la tecnologia sia svincolata da una logica di avidità, accumulazione e spoliazione ambientale si guadagna perentorie forme di condanna istituzionale. In particolare, dell’applicazione di una simile politica si incarica quella classe di accademici e di critici che Paul Nizan ha chiamato “les chiens de garde”: oggi i cani da guardia sono quegli intellettuali e scrittori tecnofili ansiosi di darsi lustro sulla ribalta dei media e in cerca di ricompense e riconoscimento da parte di coloro che detengono il potere. Naturalmente, non sono soltanto questi gli ardui ostacoli che l’immaginazione collettiva deve superare per concepire un rapporto creativo fra tecnologia e realtà sociale.

Il filosofo Bernard Stiegler ha elaborato a fondo le conseguenze di quella che egli definisce come l’omogeneizzazione dell’esperienza percettiva nella cultura contemporanea [4]. Il maggiore interesse della sua ricerca è la circolazione globale degli “oggetti temporali” prodotti in serie che comprenderebbero film, programmi televisivi, musica popolare e videoclip. Stiegler considera l’avvento dell’ampia diffusione di internet, nella prima metà degli anni Novanta (per la precisione, il 1992 come momento chiave), un punto di svolta decisivo nella storia degli audiovisivi industriali e del loro impatto sociale. Negli ultimi due decenni, secondo lui, essi sono stati responsabili di una “sincronizzazione di massa” della coscienza e della memoria. La standardizzazione dell’esperienza su vasta scala, sostiene, implica una perdita di identità soggettiva e di singolarità; conduce anche alla catastrofica scomparsa della creatività e della partecipazione individuale alla produzione dei simboli che vengono scambiati e condivisi da tutti. La sua nozione di sincronizzazione è radicalmente diversa da quelle che più sopra abbiamo definito temporalità condivise, in cui la compresenza di differenze e di alterità potrebbe fungere da base per collettività o comunità provvisorie. Stiegler conclude che è in corso una distruzione di quel “narcisismo primordiale” che è fondamentale affinché un essere umano si prenda cura di se stesso o di altri e ravvisa nei numerosi episodi di suicidio/omicidio di massa le infauste conseguenze di questo danno psichico ed esistenziale così diffuso [5]. Egli invoca con urgenza la creazione di prodotti alternativi che possano reintrodurre la singolarità nell’esperienza culturale e in qualche modo separino il desiderio dagli imperativi del consumo.
L’opera di Stiegler rappresenta un’attenuazione dei toni trionfalistici che caratterizzavano a metà degli anni Novanta le versioni più comuni del rapporto fra globalizzazione e nuove tecnologie. In molti all’epoca prevedevano l’avvento di una società multiculturale, di razionalità locali, di un pluralismo disperso e senza centro, radicato in una sfera pubblica fatta di tante comunità virtuali. Secondo Stiegler, l’auspicio di simili sviluppi era viziato da un equivoco di fondo riguardo alla direzione di diversi processi della globalizzazione. L’epoca che comincia con gli anni Novanta non è tanto un’era postindustriale, quanto piuttosto un’era iperindustriale, in cui la logica della produzione di massa è stata in pochissimo tempo affiancata da tecniche capaci di organizzare in modi del tutto nuovi la fabbricazione, la distribuzione e la soggettivazione su scala mondiale.
Benché gran parte del ragionamento di Stiegler sia convincente, la questione degli “oggetti temporali”, a mio parere, è di secondaria importanza rispetto alla colonizzazione sistemica dell’esperienza individuale, ben più significativa, che abbiamo trattato in queste pagine. Il tema più importante ora non è la cattura dell’attenzione da parte di un singolo oggetto – che sia un film, un programma televisivo o un brano musicale – il cui effetto sulle masse sembra rivestire il maggiore interesse per Stiegler, quanto piuttosto riportare l’attenzione sulla capacità di compiere operazioni e formulare risposte che si sovrappongono continuamente ad atti del vedere o dell’ascoltare. Le condizioni di separazione, isolamento e neutralizzazione degli individui, più che dall’omogeneità dei prodotti mediatici, viene perpetuata dagli assetti più ampi e inevitabili all’interno dei quali quegli elementi e molti altri diventano oggetto di consumo. Il “contenuto” audiovisivo molto spesso è solo materiale effimero, intercambiabile che, in aggiunta al suo status di merce, ha lo scopo di circolare per consolidare e confermare il pieno e totale adeguamento di ciascuno alle esigenze del capitalismo del XXI secolo. Stiegler tende a caratterizzare i media audiovisivi come modello di ricezione relativamente passiva, ispirato in questo senso, per certi aspetti, dal fenomeno della trasmissione televisiva. Uno degli esempi più significativi cui si richiama è la finale della Coppa del mondo di calcio, momento in cui le medesime immagini sono viste da miliardi di persone in tv nel medesimo momento. Una simile idea di ricezione, tuttavia, trascura le caratteristiche essenziali dei prodotti mediatici attuali, che sono interpretati come risorse da manipolare, gestire, scambiare, rivedere, archiviare, consigliare e “seguire” attivamente. Qualsiasi atto del vedere risulta stratificato con opzioni che prevedono azioni simultanee, tali da potersi interrompere a vicenda, scelte alternative ed effetti di retroazione. L’idea di lunghi segmenti temporali trascorsi esclusivamente da spettatori è superata. Si tratta di tempo fin troppo prezioso per non essere sfruttato abilmente con molteplici fonti di stimoli e opzioni che consentono di massimizzare le proprie possibilità di rendimento economico e di fornire ininterrottamente sempre più dati e informazioni sulla propria utenza.

È importante considerare anche altre industrie elettroniche onnipresenti, per quanto i loro effetti siano più indefiniti e indeterminati, produttrici di quegli oggetti temporali online che sono le scommesse, la pornografia e i videogiochi in rete. Gli impulsi e gli appetiti in gioco, in tal caso, con le conseguenti illusioni di bravura, vincita e possesso, rappresentano modelli fondamentali per l’intensificazione del consumismo 24 /7. Un esame più approfondito di generi come questo, che hanno caratteristiche più volatili, probabilmente renderebbe più ardue le conclusioni di Stiegler sulla cattura del desiderio o il crollo del narcisismo primordiale. Per sua stessa ammissione, il postulato di Stiegler che esista una sincronizzazione di massa è in realtà pieno di sfumature e può essere solo con grande difficoltà ricondotto all’idea di una totalità di persone che abbiano in mente la stessa cosa o agiscano nello stesso modo. Esso è basato inoltre su una fenomenologia forzata, per non dire artificiosa, degli atti di ritenzione o di memoria. Tuttavia, all’idea dell’omogeneizzazione industriale della coscienza e dei suoi flussi, si può contrapporre il concetto di parcellizzazione e frammentazione delle aree condivise dell’esperienza in microcosmi artificiali fatti di immagini e di simboli affettivi. La quantità insondabile delle informazioni accessibili può essere dispiegata e organizzata al servizio di qualsiasi intento, personale o politico, che rientri o meno nella normalità. Attraverso le possibilità illimitate della selezione e della personalizzazione, gli individui, per quanto uniti da una stretta prossimità fisica, possono abitare universi incommensurabili e non comunicanti. Comunque, nella stragrande maggioranza questi microcosmi, malgrado i contenuti evidentemente più disparati, sono caratterizzati da strutture e segmentazioni temporali totalmente e inevitabilmente identiche.

Vi sono altre forme di sincronizzazione di massa tipiche dell’età contemporanea che non sono strettamente collegate ai sistemi di comunicazione delle reti informatiche. Un esempio significativo è la situazione creata dal traffico globale delle droghe psicoattive, da quelle legali a quelle che non lo sono a tutta quella zona indistinta compresa nel mezzo (antidolorifici, tranquillanti, anfetamine e così via). Quelle centinaia di milioni di persone, che assumono nuovi preparati per la depressione, i disturbi bipolari, l’iperattività e molti altri sintomi variamente denominati, formano diversi aggregati di individui il cui sistema nervoso ha subito modificazioni simili. Si potrebbe ovviamente dire lo stesso a proposito degli enormi bacini di persone, in ogni continente, che acquistano e utilizzano sostanze illegali, oppiacee o derivate dalla coca, oppure droghe sintetiche, il cui numero è in costante crescita. Perciò, da una parte, abbiamo una gamma di reazioni e di comportamenti piuttosto uniforme fra gli assuntori di un determinato prodotto farmaceutico; dall’altra, invece, vi è una varietà assai composita a livello globale di popolazioni che usano droghe di ogni tipo, spesso simili sul piano molecolare, ma dagli effetti più diversi, sia per quanto riguarda gli stati di ebbrezza che per i danni correlati che provocano. Con le droghe abbiamo lo stesso problema che si riscontrava in relazione agli oggetti mediatici ovvero l’impossibilità – nonché l’irrilevanza – della scelta di assegnare ad un singolo elemento specifico il ruolo di fattore dell’alterazione della coscienza. Vi sono insiemi compositi di elementi, mutevoli e indistinti, sia nella ricezione dei flussi informatici sia nell’ingestione delle sostanze neurochimiche.
Non è mia intenzione affrontare il vasto argomento dei rapporti fra media e droghe né mettere alla prova l’assunto assai diffuso che ogni medium sia una droga e viceversa. Vorrei piuttosto sottolineare il fatto che i modelli di consumo generati dai media e dagli attuali prodotti della comunicazione sono presenti anche in altri mercati globali in via di espansione, come quelli controllati dai colossi delle multinazionali farmaceutiche. Anche in essi vi è un’accelerazione del tempo, per cui vengono presentati prodotti sempre nuovi e apparentemente aggiornati. Frattanto, sono in continuo aumento gli stati fisici o psichici per i quali vengono sviluppate e promosse sempre nuove sostanze, presentate come trattamento efficace e necessario. Come nel caso delle apparecchiature e dei servizi digitali, vi è una continua produzione di “pseudobisogni” o di esigenze per cui le nuove merci diventano l’unica soluzione possibile. L’azione dell’industria farmaceutica, con il sostegno delle neuroscienze, rappresenta inoltre un esempio efficace dei processi di finanziarizzazione e di esternalizzazione che oggi interessano quella realtà un tempo nota come “vita interiore”. Negli ultimi due decenni, una gamma crescente di stati emotivi è stata annessa alla patologia per aprire nuovi e ampi mercati a prodotti di cui prima non si sentiva il minimo bisogno. Le tonalità mutevoli degli affetti e delle emozioni umane, espresse nel modo più sommario dalle nozioni di timidezza, di ansia, di calo del desiderio sessuale, di distrazione o di tristezza, sono ingannevolmente ridotte a disturbi clinici, su cui farmaci portatori di enormi profitti sono pronti a intervenire.
Fra i molti parallelismi che si possono ravvisare tra l’uso delle sostanze psicotrope e gli strumenti della comunicazione, uno è sicuramente la produzione, in entrambi i casi, di atteggiamenti di acquiescenza sociale. Attribuire importanza soltanto agli effetti sedativi e tranquillanti, però, significa trascurare lo spirito di iniziativa l’ingegno organizzativo che ispirano anche i mercati che propongono queste categorie di prodotti. Per esempio, il consumo ormai ampiamente diffuso fra gli adulti di farmaci per l’A.D.H.D. (disturbo da deficit di attenzione e iperattività) spesso è determinato dall’aspettativa di aumentare la propria efficienza e capacità di competizione sul lavoro. Peggio ancora, non è raro che il fenomeno della dipendenza dalle anfetamine si ricolleghi all’illusione distruttiva di dover primeggiare sempre e comunque nelle proprie prestazioni, con fini di autoesaltazione. Sono le dimensioni globali di questi mercati e la loro dipendenza da scelte coerenti o prevedibili a determinare l’inevitabile risultato di una condizione di omologazione generalizzata. Quest’ultima non viene conseguita attraverso la progettazione di individui simili tra loro, come affermavano un tempo le teorie della società di massa, ma con la riduzione o l’eliminazione delle differenze, in modo tale da restringere la gamma di comportamenti che possono funzionare in modo efficace o con successo nella maggior parte dei contesti istituzionali contemporanei. Perciò, si diffonde ovunque una certa piattezza, divenuta normale a causa di un consumismo dai ritmi sempre più accelerati, non solo in alcuni ceti professionali o gruppi di età, ma anche in fasce di reddito relativamente basso. Paul Valéry previde simili sviluppi fin dagli anni Venti, comprendendo che la civiltà tecnocratica avrebbe infine cancellato qualsiasi altra forma di vita che non si inquadrasse o risultasse incommensurabile rispetto alle sue modalità di funzionamento [6]. Piatto significa anche “dai tratti morbidi, cedevoli”, a differenza di quelli del calco o dello stampo, spesso impliciti nella nozione di “conformità”. Le deviazioni vengono appiattite o cancellate, con il risultato di produrre ciò che – come da vocabolario – non è “né aggressivo né fortificante”. Questo fenomeno ha assunto la massima evidenza, in particolare, nell’ultimo decennio circa, con la scomparsa o l’addomesticamento di quella che una volta costituiva una varietà assai più ampia dei contrassegni tipici della marginalità culturale o della condizione di outsider. L’onnipresenza di ambienti 24 /7 è una delle condizioni di questo appiattimento, anche se il 24 /7 non va inteso semplicemente come tempo omogeneo e uniforme, ma piuttosto come una diacronia compromessa e svilita. Continuano ad esserci, sicuramente, tempi differenziati, ma l’ampiezza e la profondità delle caratteristiche per cui si distinguono fra loro si riduce e una sostituibilità senza vincoli di sorta fra i diversi tempi diventa la norma. Le tradizionali unità temporali persistono (come “alle cinque meno dieci” o “da lunedì a venerdì”), ma sovrapposte a esse vi sono tutte le pratiche di gestione del tempo individuale rese possibili dalle reti e dai mercati 24 /7.

Molti tipi di lavoro alienante del passato, per quanto monotoni e gravosi, non escludevano motivi di una soddisfazione dovuta alla propria particolare abilitò o efficienza nell’utilizzo degli strumenti o del macchinario in dotazione. Come fanno notare alcuni storici, i moderni sistemi lavorativi non avrebbero potuto prosperare senza una preventiva introduzione di nuovi valori, nel corso dell’industrializzazione, al posto di quelli che avevano promosso le abilità e la produzione artigianale. La possibilità di sentirsi realizzati almeno in qualche prodotto finale del proprio lavoro è diventata sempre meno plausibile nelle condizioni di vita della grande fabbrica. Al contrario, è stata incoraggiata in molti modi una vera e propria identificazione con gli stessi processi meccanici. In parte, la cultura della modernità si è affermata anche nel concetto, espresso in vari modi, che il tentativo di emulare i ritmi scanditi, l’efficienza e il dinamismo delle macchine sarebbe stato gratificante. Comunque, quelle che spesso erano compensazioni ambivalenti o meramente simboliche nei secoli XIX e XX sono diventate un insieme più ricco di soddisfazioni, reali o immaginarie che siano. A causa della permeabilità reciproca, se non della confusione, fra tempo lavorativo e tempo libero, le abilità e le azioni che una volta sarebbero state confinate all’ambiente di lavoro appartengono ora universalmente al tessuto 24/7 dell’esistenza elettronica di ciascuno. La presenza costante in ogni luogo di schermi e interfacce spinge inevitabilmente gli utenti a impegnarsi per ottenere una prontezza e una perizia sempre maggiori. La competenza che si acquisisce nei riguardi di ogni particolare applicazione o strumento, tuttavia, rappresenta effettivamente un livello di adeguamento più elevato all’esigenza intrinsecamente funzionale di ridurre sempre più la durata di ogni procedura o interazione. I dispositivi stimolano una gestione apparentemente senza attrito, capacità e abilità tecniche che sono fonte di autosoddisfazione e che possono anche impressionare gli altri, in quanto superiorità nel fare un uso efficiente e gratificante delle risorse tecnologiche a disposizione. Una certa ingenuità potrebbe suggerire la convinzione temporanea che si è dalla parte vincente del sistema, in qualche modo in anticipo su altri; ma alla fine avviene un livellamento generalizzato di tutti gli utenti in oggetti intercambiabili, funzionali alla stessa espropriazione di massa del tempo e della praxis.
L’adeguamento individuale a queste temporalità ha determinato conseguenze sociali e ambientali devastanti e ha prodotto una normalizzazione collettiva di questa dinamica incessante di spostamento ed eliminazione. Poiché si creano continuamente nuove perdite, esse cessano di essere riconoscibili dal momento che la facoltà della memoria risulta atrofizzata. L’autonarrazione più elementare della propria vita modifica la propria composizione fondamentale. Invece di una sequenza scontata di luoghi ed eventi collegati ai rapporti famigliari, al lavoro e alle proprie relazioni sociali, il filo conduttore principale nella storia della propria vita ora diventano le merci e i media elettronici attraverso i quali tutta l’esperienza è stata filtrata, registrata o costruita. Dal momento che è scomparsa la possibilità di un lavoro per tutta la vita, l’unica vita lavorativa durevole a disposizione per la maggior parte delle persone è diventata l’elaborazione del proprio rapporto con i dispositivi elettronici. Tutto ciò che una volta veniva considerato vagamente “personale” viene ora riconfigurato in modo da agevolare la ricostruzione di se stessi in un miscuglio di identità che esistono solo come effetti di assetti tecnologici transitori.

I quadri di riferimento all’interno dei quali il mondo diventa comprensibile continuano ad essere impoveriti di complessità, spogliati di qualunque elemento non pianificato o non previsto. In questo modo, tante forme antiche e polivalenti di scambio sociale sono state trasformate in sequenze ricorrenti di stimolo e risposta. Nello stesso tempo, le risposte possibili rientrano in quella che è una serie scontata e, nella maggior parte dei casi, limitata a un repertorio ridotto di azioni possibili. Poiché il proprio conto bancario e le proprie amicizie possono ora venir gestite attraverso le stesse operazioni e gesti meccanici, vi è in atto una omogeneizzazione sempre maggiore di quelle che erano aree dell’esperienza completamente separate fra loro. Nel contempo, qualunque momento residuo della vita quotidiana non sia rivolto a fini qualitativi o acquisitivi, o non possa essere adattato alla partecipazione telematica, tende a perdere valore e desiderabilità. Le attività della vita reale che non abbiano un correlativo on line cominciano ad atrofizzarsi o smettono di avere importanza. Vi è un’insormontabile asimmetria che peggiora qualsiasi evento o scambio locale. A causa dell’abbondanza senza limiti dell’offerta a disposizione 24/7, sarà sempre possibile sperimentare on line contenuti più interessanti, più sorprendenti, più piacevoli, più impressionanti di tutto ciò che potremmo reperire nell’immediatezza della realtà che ci circonda. Rappresenta ormai un dato di fatto la consapevolezza che una disponibilità senza limiti di informazioni o di immagini può sorpassare o annullare qualsiasi comunicazione o riflessione svolte con mezzi meramente umani.
Secondo il collettivo Tiqqun, siamo diventati cittadini innocui e accomodanti delle società urbane globali [7]. Anche in assenza di una qualche costrizione esplicita, eseguiamo tutte le scelte che ci vengono proposte; permettiamo la gestione dei nostri corpi, delle nostre idee, del ostro intrattenimento e accettiamo che tutti i bisogni relativi al nostro immaginario ci vengano imposti dall’esterno. Acquistiamo prodotti che ci sono stati raccomandati attraverso il monitoraggio delle nostre esistenze elettroniche e poi, volontariamente, lasciamo traccia per gli altri riguardo a quello che abbiamo acquistato. Siamo il soggetto arrendevole che si lascia sottoporre ad ogni tipo di intrusione biometrica e di sorveglianza, ingerisce cibo e acqua tossici e vive in prossimità di reattori nucleari senza protestare. La nostra assoluta abdicazione a ogni responsabilità nella vita ci viene ricordata dai titoli di quelle guide i cima alle classifiche di vendita che ci dicono con tono lugubre e fatale, i 1000 film, le 100 destinazioni turistiche, i 500 libri che non possiamo non consumare prima di morire.

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Capitolo terzo



Una precoce e significativa anticipazione della temporalità 24/7 fin qui discussa fu elaborata in una famosa opera d’arte. L’artista britannico Joseph Wright of Derby, intorno al 1782, eseguì un dipinto intitolato “Il cotonificio Arkwright di notte”. Questo quadro è stato riprodotto in molti libri di storia dell’industrializzazione per illustrate – spesso in modo discutibile – l’impatto della produzione di fabbrica sull’Inghilterra rurale dell’epoca (un impatto che non fu percepito nella su reale portata ancora per molti decenni). La particolarità del dipinto deriva in parte dall’inserimento piuttosto stridente, per quanto attenuato, di un edificio in mattoni di sei o sette piani in una campagna boscosa incontaminata. Come hanno osservato gli storici, si tratta di strutture architettoniche che non hanno precedenti nella tradizione inglese. Decisamente inquietante, comunque, è l’idea di una scena notturna in cui il plenilunio che rischiara un cielo ammantato di nuvole coesiste con i particolari di finestre illuminate dall’interno con lampade a petrolio. L’illuminazione artificiale delle fabbriche annuncia lo sviluppo razionalizzato di una relazione astratta fra tempo e lavoro, disgiunta dal tempo ciclico dei movimenti lunari e solari. La novità dei cotonifici Arkwright non risiede in un particolare fattore meccanico, come nel caso della macchina a vapore o dei filatoi di recente concezione (dal momento che erano azionati esclusivamente ad acqua). Consiste piuttosto in una radicale ridefinizione dei rapporti fra il lavoro e il tempo: si introduce l’idea di un sistema in cui le operazioni produttive non si fermano mai, di un lavoro che, per diventare più redditizio, funziona appunto 24/7. In particolare, nel sito raffigurato nel dipinto, una forza lavoro umana, che non escludeva un gran numero di minori, era adibita al lavoro alle macchine per turni ininterrotti di dodici ore ciascuno. Marx comprese il fatto che l’instaurazione del capitalismo era strettamente correlata a questa riorganizzazione del tempo, in particolare del tempo del lavoro vivo, come modo per creare plusvalore, citando per sottolineare il concetto, Andrew Ure, il patrocinatore scozzese della razionalizzazione industriale: si trattava della “disciplina necessaria per far rinunziare agli uomini alle loro abitudini irregolari nel lavoro, e per farli identificare con la regolarità invariabile di un grande automa. Inventare e mettere in vigore un codice di disciplina manifatturiera, conveniente ai bisogni e alla celerità del sistema automatico, ecco invece un’impresa degna di Ercole; ed ecco appunt la nobile fatica di Arkwright” [1].









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ULTIMO AGGIORNAMENTO: 10-07-2020