Turismo di massa e usura del mondo



È ancora possibile dirci viaggiatori? Lo sarà mai più in futuro? O l'efficienza della mobilità contemporanea, l'onnipresenza della comunicazione, la capillarità del mercato globale ci hanno definitivamente trasformati in turisti, ovvero clienti e consumatori di quest'enorme industria che ci vende la bellezza del mondo?

Se si è passati in poco tempo dall'uso del mondo all'usura del mondo, è perché la massificazione del desiderio turistico, camuffata da libertà di movimento, è avvenuta all'interno di una logica industriale che ha distrutto la dimensione simbolica del viaggio, trasformandolo in una «fuga d'evasione» da fare in tempi e luoghi deputati, e soprattutto passando sempre alla cassa. Ponendosi al servizio del consumo mondiale, il turismo è diventato, insieme alla televisione, agli antidepressivi e al calcio, uno dei più potenti anestetici che la società contemporanea elargisce ai suoi logorati cittadini, immersi in una ipermobilità che dà la misura della loro insoddisfazione. Eppure, nonostante la standardizzazione dei desideri e il saccheggio ambientale, il turismo mantiene intatto il suo potere incantatore. Forse perché il turista, lontano dal suo territorio originario, che ormai non conosce più, nutre la confusa speranza di trovare altrove ciò che gli manca a casa: una vita conviviale in un territorio ancora carico di senso. Senza accorgersi però che con la sua stessa presenza distrugge ciò che è venuto a cercare.

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Lo sradicamento sradica tutto, salvo il bisogno di radici.
Christopher Lasch

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Durante gli anni Cinquanta e Sessanta la mobilità in Francia fu il primo imperativo categorico dell’ordine economico, il segno stesso della volontà di rottura con il passato; ogni individuo doveva essere disponibile e subito pronto ad essere dislocato in base alle esigenze economiche. L’automobile portò a compimento allora (e lo fa tuttora) la funzione più profondamente radicata nel cuore dell’ideologia del libero scambio: la mobilità.
Divenne un elemento chiave nell’elaborazione della nuova e complessa immagine dell’ “uomo disponibile”, un individuo che sopporta senza lamentarsi di essere spedito a destra e a manca (…). Questa rivoluzione pretese lo smantellamento di tutte le costruzioni precedenti dello spazio sociale, la fine virtuale della città storica, in cambio di una ristrutturazione fisica e sociale che avrebbe raggiunto il livello dei cambiamenti intrapresi cento anni prima.

Kristin Ross, “Fast Cars, Clean Bodies: decolonization and the reordering of French Culture

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Indice


- 1. Mio nonno ha un futuro?

- 2. Dromomania

- 3. Il mobilismo come motore ausiliario del capitalismo

- 4. Libertà o arruolamento?

- 5. L’imperativo della mobilità

- 6. Senza radici e senza qualità

- 7. La turisticizzazione del tempo libero

- 8. Vivere di rendita come ideale turistico

- 9. Il turismo in letteratura: Michel Houellebecq

- 10. La relazione “incantata” del turismo sessuale (viaggio a Patpong, Bangkok)

- 11. Incanto e dissimulazione

- 12. Turismo o rivoluzione?

- 13. Natura-oggetto

- 14. Economia/Ecologia: l’impronta manageriale

- 15. Circuiti molto chiusi

- 16. Sovversione della coscienza ordinaria

- 17. Venire al mondo

- 18. La forza delle montagne

- 19. La cura degli spazi

- Postfazione: Lo spirito del viaggio

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1. Mio nonno ha un futuro?


Quando i suoi figli chiedevano a mio nonno, che di mestiere faceva lo scalpellino, perché si rifiutasse di andare in vacanza, lui rispondeva sempre la stessa cosa: “Che ci vado a fare da un’altra parte, se ancora non conosco tutti i sassi del mio villaggio?”. La risposta faceva sorridere e dava adito a varie interpretazioni che rimandavano all’età avanzata, alla paura del cambiamento, ad atteggiamenti desueti e, diciamolo pure, a una visione ristretta del mondo tipica di un’epoca premoderna. Invece, senza volerlo, mio nonno faceva parte di un’avanguardia: con il suo comportamento voleva prevenire gli squilibri ecologici provocati dai nostri spostamenti motorizzati. Non solo, ma ci insegnava al contempo che bisogna dare attenzione a ciò che ci sta vicino. Come per il saggio Confucio o per lo scrittore-viaggiatore ginevrino Nicolas Bouvier, anche per mio nonno il mondo cominciava “sulla soglia di casa”.
Sempre in giro per monti e valli in cerca della pietra perfetta, muovendosi a piedi o con il suo furgoncino 2CV, mio nonno era un semplice esploratore di sottoboschi, uno scopritore di dintorni. Guardava poco la televisione e il fine settimana non frequentava i grandi spazi attrezzati ma preferiva percorrere in lungo e in largo il suo territorio. In definitiva conduceva nelle campagne d’alta Provenza una vita di villaggio simile alla vita di quartiere che si può condurre in un contesto urbano.

Da all’ora l’ingiunzione al “movimento” ha fatto molta strada: ormai è di moda decantare senza sosta le virtù della deterritorializzazione e del cambiamento permanente. Ad alimentare questa frenesia motoria è arrivato anche il turismo, che agli inizi ha persino assunto le vesti di una falsa emancipazione (le ferie retribuite, che come molti altri “progressi” sociali hanno contribuito a rendere accettabile il capitalismo). Se vogliamo definire il tipo ideale, l’individuo ipermoderno è privo di radici; è un “nomade” senza territorio, tecnologicamente connesso e affettivamente solo; è un’entità intercambiabile ed erratica dalla composizione fluida,spinto, anzi costretto, alla mobilità dall’insoddisfazione ma anche dai suoi appetiti.
Ecco i nuovi nomadi! Quelli che fanno del viaggio la propria casa, che scelgono lo sradicamento e rifiutano la sedentarietà: “Uno stile di vita all’insegna del cambiamento e del movimento per aprirsi ogni giorno all’incontro” [1].
Questo ritratto del “nomade” in versione Nature et Découverte è molto eloquente. Rispecchia l’universalità di un modello applicabile a diversi aspetti del quotidiano. La retorica che rimanda alla scelta del proprio stile di vita occulta il fatto che i “cambiamenti” e i “movimenti” sono dettati da regole generali. Il loro carattere obbligatori è edulcorato dal rimando costante all’etica dell’incontro e al rispetto della natura, entrambi posti sotto il segno – molto poco disinteressato – del piacere a provare piacere in un ambiente accogliente. Nei luoghi in cui proliferano questi radical-chic-nomadi, la “natura” è totalmente artificializzata da sembrare travestita da negozio (o è il contrario?), in cui ogni oggetto sembra aiutare il cliente-nomade a ritemprarsi nel corso dei suoi vagabondaggi verso “l’essenziale”. D’altronde il turista finisce sempre nello stesso posto dal quale ha iniziato, ovvero alla cassa. E proprio perché è in grado di pagare, si crede ancora libero di andare e venire a suo piacimento, senza costrizioni apparenti.
In fondo, in una società mercificata essere “emancipati” significa vivere ovunque come un turista, come un flaneur libero da ogni responsabilità e dotato di una personalità mutevole, impulsiva, capricciosa. Il turista è lo stereotipo del moderno individuo “liberale”, una versione in modalità tempo libero del tecno-nomade di professione.
Affrancatosi dalla tradizione e da qualsiasi senso di solidarietà locale, percepite come un’eredità opprimente perché estranee alla scelta del singolo, il moderno individuo narcisista si è trasformato in un atomo erratico le cui relazioni sociali si situano per lo più, che lo voglia o no, all’interno di un contesto mercantile che invade tanto la sfera del tempo libero quanto quella professionale. Quando l’illusione del tempo arbitrio predomina sulla realtà affettiva, per l’individuo ipermoderno è più facile farsi intenerire dalla povertà all’altro capo del mondo, che ha un’influenza minima sulla sua vita di tutti i giorni, piuttosto che dai problemi del vicino di pianerottolo. Il secondo potrebbe concretamente disturbare la tranquillità e l’indipendenza del primo, dato che entrambi sono persi nella ricerca di una felicità personale che li isoli, nonostante sia proprio questo isolamento a generar il suo malessere.
Così, il turismo offre un ampio ventaglio di proposte a chi vuol gestire la geografia dei suoi divertimenti selezionando le destinazioni in quell’immenso catalogo commerciale che è diventato il nostro pianeta. Chi spera di curare il proprio malessere a colpi di sviluppo della personalità e di acquisti compensatori, meglio se sostenibili e solidali, preferisce senz’altro cambiare aria per un po’ piuttosto che agire in maniera duratura nel luogo in cui vive. In effetti, si può sempre provare compassione durante una vacanza in Cambogia ed essere dei perfetti stronzi nella vita di tutti i giorni: una contraddizione solo apparente per l’individuo che vuole esercitare la sua libera scelta e vivere “come meglio crede”, di preferenza in una zona risparmiata dal dolore.

Troppo spesso sinonimo di obblighi accettati controvoglia, il territorio circostante è disertato dal turismo, nella confusa speranza di trovare altrove ciò che manca qui: il gusto di vivere un’esperienza conviviale in un territorio ricco di senso e di vita. Eppure, saper restare a casa propria per esplorare il territorio circostante in tutta la sua diversità, e così tracciare le piste di una vita quotidiana gioiosa e vivibile, rappresenta un atto autenticamente popolare. Un atto popolare non perché contribuisce alla buona reputazione di chi lo intraprende, ma perché permette di ritrovare il senso autentico delle relazioni umane: dare, ricevere, restituire. Insomma, cooperare e instillare ospitalità nei territori circostanti per farne luoghi in cui si vive bene e non semplici luoghi di transito. È questa la strada per una riterritorializzazione del tempo libero che sarebbe davvero in grado di modificare la nostra vita, senza accontentarci di dichiarazioni ipocrite o di buoni sentimenti esotici.
È chiaro che una proposta del genere appare poco in linea con i canoni della “felicità” veicolati dalla mitologia pubblicitaria: l’apologia del movimento è parte integrante del consumo di un mondo costantemente rimpicciolito dalla tecnologia. Richard Branson, playboy libertariano e CEO di Virgin, vuole lanciare il turismo nello spazio. Questo business model, al momento economicamente elitario, diventerà ben presto di massa? A forza di allargare gli orizzonti, l’ipermobilità non finirà per chiudere il mondo a doppia mandata, imprigionandoci, in una sorta di compensazione tecnologica stravolta, in miraggi di universi virtuali che sostituiranno le geografie di un reale ormai inospitale? Si parlerà ancora, senza sorridere, di realtà aumentata? Sono tutte domande che è più che ragionevole porsi.

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Nota al capitolo

[1] Dal catalogo Nature et Decouverte, primavera 2013 (N.d.A.). Nature et Decouverte è una catena francese di negozi fondata nel 1990 da François Lemarchand che si ispira alla californiana The Nature Company. I negozi sono principalmente in Francia, ma anche in Germania, Belgio, Lussemburgo e Svizzera. Vi si trovano articoli dedicati o ispirati al mondo della natura, dell’esplorazione e della “sostenibilità” (N.d.T.).


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2. Dromomania


L’epoca ipermoderna è dromomaniaca, cioè sconvolta dall’automatismo deambulatorio. Il movimento dà l’impressione di vivere al massimo, di poter consumare il mondo. Ammantandosi di buone intenzioni che rimandano al risparmio energetico e alla scoperta dell’immensa diversità naturale e umana, la mobilità è diventata un modello di comportamento che influenza notevolmente il tempo libero e persino le scelte professionali. Un’indole paranoica potrebbe supporre l’esistenza di una grande operazione di marketing – costruita in toto da vari settori dell’economia, dalla ristorazione all’editoria, passando per i trasporti e i lavori pubblici – pensate per plasmare gli animi nel giro di pochi anni. In realtà, l’esubero di immagini, gli slogan ipermobilitari e le strategie di promozione dell’esotismo avanzano in maniera indipendente, ma si influenzano a vicenda modellando lo spirito dell’epoca. Il turismo è la punta di diamante dell’ideologia edonista associata al muoversi nello spazio. “Il turismo”, scrive Philippe Bourdeau, “in quanto ‘piacere che implica migrazione’ (Marc Boyer), si inscrive da due secoli in un’ideologia moderna predominante e in continua espansione, a tal punto da averne fatto uno dei principali vettori di diffusione di valori e pratiche di mobilità su scala planetaria” [1]. L’immaginario esotico dilaga, l’atteggiamento turistico si diffonde, le spinte al cambiamento risuonano come parole d’ordine tanto nei discorsi manageriali e politici quanto nei consigli terapeutici per lo sviluppo della personalità. E il sentire collettivo è sempre più plasmato da queste influenze.

In campo letterario, gli scrittori-viaggiatori non raccontano più niente di stupefacente [2], anche se continuano a sfornare libri sempre più stereotipati. Il 17 giugno 2013, mentre aspettavo il treno alla stazione di Grenoble, ho visto la pubblicità del libro di Sylvain Tesson, Nelle foreste siberiane. Lo slogan utilizzato dalle edizioni Folio – “Quest’estate prendo in affitto una capanna in Siberia” – esprimeva con grande chiarezza il legame esistente tra letteratura e turismo. Impacciati dallo statuto sociale proto-turistico che si sono visti affibbiare, gli attuali scrittori-viaggiatori non hanno più niente in comune con l’anticonformismo dei viaggi compiuti un tempo da autori come London, Kerouac, Cendrars o Bouvier, le cui orme molti pretendono ancor oggi di seguire. Questi grandi viaggiatori (spesso individui marginali per scelta e spiazzati dalla notorietà conseguita) non solo esplorano il mondo grazie alla scrittura, ma annunciarono, senza saperlo, la futura regola della cultura “liberale”: la mobilità sfrenata. Se quegli esploratori si distinguevano dai loro contemporanei per l’audacia, la curiosità e la sete di conoscenza, ignoravano però che la loro modernità d’avanguardia sarebbe diventata un luogo comune dei tempi ipermoderni.
Dall’autunno del 2013 il viaggio ha persino una “Università popolare” [3], creata su ispirazione del Festival du Grand Bivouac di Albertville. Giunge così a compimento il processo di standardizzazione perseguito dalla oda nazional-popolare-para-accademica. Se quella università servisse a sollevare interrogativi critici sul desiderio di massa di “viaggiare”, intaccando il conformismo pulsionale, se si interrogasse sul “perché”, allora potremmo rallegrarci di una tale iniziativa. Ma se al contrario serve solo a rispondere al “come”, magari dissimulando il suo intento con la retorica del “viaggiare diversamente” o del “viaggiare meglio”, allora risulta soltanto un affluente insignificante della grande marea turistica.
Tra l’altro l’uso dell’aggettivo “popolare” per temi così esotici merita di essere approfondito.



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ULTIMO AGGIORNAMENTO: 21-07-2020