Anarchia 2020 > WTO. Tutto quello che… > Whose Trade Organization?
In questo libro, il Public Citizen’s Global Trade Watch documenta in modo esaustivo i cinque anni di attività del World Trade Organization (Wto). Purtroppo, l’operato del Wto risulta molto più dannoso di quanto i suoi oppositori avessero previsto prima della sua approvazione.
Approvando un accordo forte e inclusivo come il Wto, e altri accordi internazionali sul commercio quali il North American Free Trade Agreement (Nafta), il Congresso degli Usa, e con esso i parlamenti di altre nazioni, rinunciano in gran parte alla facoltà di determinare standard di sanità e sicurezza che proteggano i cittadini, accettando, sul piano legale, pesanti limitazioni alle proprie strategie. L’approvazione di questi accordi istituzionalizza una struttura economica e politica che consegna sempre più i singoli governi nelle mani di un sistema finanziario e commerciale globale, perpetrato per mezzo di un governo internazionale autocratico che favorisce SOLO gli interessi delle multinazionali globali.
Questo nuovo sistema di governo garantisce un immenso controllo sui minuti dettagli della vita della maggior parte degli abitanti del pianeta. Questo nuovo sistema non è finalizzato alla salute e al benessere economico dei cittadini, ma all’ampliamento del potere e della ricchezza delle maggiori multinazionali e istituzioni finanziarie mondiali.
All’interno di questo nuovo sistema, molte scelte che coinvolgono la vita quotidiana delle persone vengono progressivamente sottratte alla facoltà dei governi locali e nazionali per essere trasferite a un gruppo di burocrati del commercio non eletti, che siedono nel chiuso delle stanze di Ginevra. Questi burocrati, per esempio, hanno oggi il potere di stabilire se la popolazione della California può intervenire per evitare la distruzione dell’ultimo tratto di foresta vergine sopravvissuto in quello stato, o per evitare la presenza nei propri alimenti di pesticidi cancerogeni; o ancora se i paesi europei hanno il diritto di esigere che non vi siano nei cibi che consumano, tracce di organismi derivanti da biotecnologie rischiose per la salute. Inoltre, una volta che le commissioni segrete del Wto abbiano emanato i propri editti, non può esservi alcun ricorso indipendente: la conformità dev’essere totale.
Sono quindi in gioco le vere e proprie basi della democrazia, e quella facoltà di decidere responsabilmente che è il supporto indispensabile di tutte le battaglie civili per un’equa distribuzione della ricchezza e per un’adeguata difesa della salute, della sicurezza e dell’ambiente. L’erosione della responsabilità democratica, e della sovranità locale e nazionale che ne è l’espressione, è ormai in atto da diversi decenni. La globalizzazione del commercio e della finanza è disegnata dalle multinazionali, che, in assenza di regole universalmente valide, manovrano semplicemente a partire dalle proprie esigenze. L’istituzione del Wto è un passo fondamentale per la formalizzazione e il rafforzamento di un sistema creato espressamente in funzione di questo.
Meglio definito come globalizzazione mondiale dell’economia, questo nuovo modello economico è caratterizzato dall’apposizione di vincoli sovranazionali alla facoltà legale e pratica dei singoli stati di subordinare l’attività commerciale ad altri obiettivi politici. La tattica della globalizzazione è quella di abolire la responsabilità e il potere decisionale su questioni così private quali la sicurezza dei cibi, dei farmaci o dei veicoli a motore, o il modo in cui un paese può usare o preservare il proprio territorio, la propria acqua, i propri minerali e tutte le altre risorse.
Oggi non si può aprire un giornale senza avere davanti una miriade di esempi dei problemi che emergono dalla concentrazione del potere: abbassamento del tenore di vita nella maggior parte dei paesi avanzati e quelli in via di sviluppo; aumento della disoccupazione in tutto il mondo; esteso degrado ambientale e carenze di risorse naturali; scenari politici sempre più caotici; un’impressione di generale pessimismo che sostituisce l’ottimismo e la speranza nel futuro.
Non c’è bisogno di riunioni cospirative per alimentare la spinta alla globalizzazione. Gli interessi delle imprese globali si fondano su una visione comune e distorta: per loro il pianeta rappresenta innanzitutto un mercato da sfruttare e una fonte di capitali. I governi, le leggi e la democrazia sono fattori che limitano lo sfruttamento, e perciò vanno resi inoffensivi. Dal loro punto di vista, l’obiettivo è quello di eliminare le barriere commerciali su scala mondiale. Da ogni altro punto di vista, tali barriere – e cioè leggi che sviluppano l’economia di una nazione, che salvaguardano la salute e la sicurezza dei cittadini, che garantiscono l’uso sostenibile della terra, delle risorse e così via – sono un prezioso strumento di difesa dal commercio privo di regole. Ma per le imprese multinazionali, la diversità, che è un dono della democrazia e deriva dalla diffusione del potere decisionale, rappresenta la barriera più grave.
In qualche (rara) circostanza, i fautori del programma di globalizzazione economica sono stati franchi in merito alle proprie intenzioni: “I governi dovrebbero intervenire il meno possibile nella gestione del commercio”, dice il 3 marzo del 1994 Peter Sutherland, segretario generale del Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade) in un discorso tenuto a New York per sollecitare gli Usa ad approvare l’istituzione del Wto.
A rendere ancora più allarmanti simili affermazioni è il fatto che quello che ai giorni nostri va sotto il nome di “commercio” comprende una fetta enorme delle strutture economiche e politiche di ciascuna nazione. Il Wto e altri accordi commerciali sono andati ben al di là del ruolo tradizionalmente loro assegnato, quello cioè di stabilire le tariffe e le quote, per istituire nuovi e inauditi controlli a carico dei governi democratici. Abolire le leggi nazionali e le frontiere economiche per sviluppare la mobilità del capitale e il “libero mercato” – termine che sarebbe opportuno sostituire con “mercato delle multinazionali”, dato che per gli altri produce enormi restrizioni invece che libertà – ha fatto la fortuna di imprese come American Express, Cargill, Union Carbide, Shell, Citicorp, Pfizer e altri colossi dell’economia globale. Ma l’ipotesi di un commercio globale senza controllo democratico si prospetta disastrosa per il resto del mondo, che resterebbe gravemente esposto a un’imprenditorialità deregolata, accompagnata da un drastico abbassamento delle condizioni di vita, sanitarie e ambientali.
Come avverte l’economista Herman Daly nel suo “Discorso d’addio alla Banca mondiale” del gennaio 1994, cercare di abolire la facoltà degli stati nazionali di regolare il commercio significa: “Ferire mortalmente la principale entità comunitaria capace di svolgere politiche per il bene comune. […] Il globalismo cosmopolita indebolisce le frontiere nazionali e il potere delle comunità nazionali e subnazionali, rafforzando per contro il potere delle grandi imprese transnazionali”.
La motivazione filosofica del programma di globalizzazione pare sia quella che portare al massimo la liberalizzazione economica globale comporta di per sé grandi vantaggi sul piano economico e sociale. Tuttavia, chi crede a questa filosofia, o la fatto che la globalizzazione delle imprese sia motivata da altro che dalla volontà di massimizzare i profitti a breve termine, non ha che da analizzare il caso dei rapporti economici tra Cina e Usa. Nel 1994, quando la posta in gioco sono soltanto i diritti umani, l’amministrazione Clinton interrompe lo storico legame tra condizioni commerciali di favore e stato dei diritti umani all’interno di un Paese, appoggiando la conferma della Cina come “nazione più favorita” (Most Favored Nation – Mfn). Invece, agli inizi del 1995, quando entrano in gioco i diritti di proprietà, gli affitti di McDonald e le royalties di Topolino inducono gli Usa a minacciare restrizioni commerciali ai danni della Cina per un importo complessivo di un miliardo di dollari. Tale minaccia ha l’effetto di produrre cambiamenti nella politica del governo cinese, finalizzati al rispetto della proprietà dei beni intellettuali.
Analogamente, gli strumenti primari della globalizzazione economica – il Nafta e il Wto – non puntano a eliminare dal commercio ogni genere di vincolo; piuttosto, gli accordi promuovono l’abolizione dei vincoli che proteggono i cittadini, aumentando nel contempo quelli che proteggono gli interessi delle imprese. La regolamentazione del commercio al fine di tutelare la salute e l’ambiente o di perseguire altri scopi sociali è rigidamente condizionata. Per esempio, il commercio di prodotti ottenuti con il lavoro minorile è legalmente ammesso dal Wto. Eventuali proposte di migliorare standard obsoleti o antiquati vengono scoraggiate sul nascere dalla probabilità di essere ricusate dal Wto, con la conseguenza che si viene a stabilire una moratoria di fatto sugli sforzi per progredire e per creare nuovi standard. I diritti del lavoro, che per indicazione parlamentare dovevano essere inclusi nell’Uruguay Round, ne ne restano completamente esclusi in quanto limitazioni inopportune del commercio globale. Ma la regolamentazione del commercio per proteggere i diritti di proprietà delle imprese monopolistiche – nonché la proprietà dei beni culturali – viene rafforzata; e viene anche rafforzato il diritto del capitale a essere investito in qualunque paese e in qualunque settore economico senza condizionamenti di sorta.
Rinunciando al diritto di condizionare l’investimento in un paese al rispetto di determinati standard sociali, o l’ingresso di prodotti sul mercato interno alla conformità con le normative nazionali, gli stati si privano di qualsiasi strumento di influenza sul comportamento delle imprese. Le imprese globali statunitensi sanno da tempo come aizzare gli stati l’uno contro l’altro in una sorta di “spirale verso il basso” per poter profittare dei più bassi salari, delle tasse più clementi e degli standard più permissivi in fatto di inquinamento. Oogi, per mezzo del Nafta e del Wto, le imprese multinazionali possono fare questo gioco a livello planetario: in fondo, razionalizzare i costi sociali e ambientali è l’unico modo per incrementare i profitti delle imprese. Siamo di fronte a un tragico allettamento, nel quale i vincenti e i perdenti sono già noti prima ancora che vada a effetto: i perdenti sono i lavoratori, i consumatori e le comunità di tutto il mondo, mentre trionfa il grande capitale nella sua corsa verso i profitti a breve termine.
Nel regime imposto dal Wto, lo scivolamento verso il basso non si verifica solo per le condizioni di vita e per la tutela della salute e dell’ambiente, ma anche per la stessa democrazia. L’attuazione di queste cosiddette riforme del libero mercato, praticamente garantisce che agli sforzi democratici per far sì che le imprese globali paghino la loro giusta quota di tasse, assicurino ai dipendenti decorose condizioni di vita, riducano l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, si risponda sempre con il medesimo ritornello: “Non potete farci carico di questo. Se lo fate non saremo più competitivi, dovremo chiudere e spostarci in un Paese che ci offre condizioni più ospitali”. Questa sorta di ricatto è estremamente efficace. Comunità già colpite dalla chiusura delle fabbriche e dalla riduzione della base produttiva faranno il possibile per non perdere altri posti di lavoro, sapendo fin troppo bene che simili minacce non di rado si traducono in realtà.
Tra gli insegnamenti più chiari che emergono dall’analisi delle società industrializzate è che la centralizzazione del commercio è nociva per l’ambiente e per la democrazia. Nessuno nega l’utilità di un certo scambio internazionale; ma le società devono concentrare il proprio impegno nello stimolare la produzione di beni da destinare all’interno della comunità. Molto spesso le imprese su scala più ridotta si adattano con maggiore flessibilità alle esigenze locali e a metodi di produzione ecosostenibili. Inoltre sono più accessibili al controllo democratico, meno esposte al rischio di trasferimenti, e ritengono che i propri interessi coincidano con quelli della comunità.
Analogamente, conferire potere alle istanze governative di base significa aumentare il potere dei cittadini. Concentrare il potere in remoti organismi internazionali, come fanno i trattati commerciali, significa sottrarre ai cittadini la facoltà di compiere scelte cruciali per il Paese. Al rappresentante di un organo locale ci si può rivolgere direttamente, mentre il burocrate del Wto è irraggiungibile e senza volto.
Se le scelte di uno stato o di una comunità possono essere messe a repentaglio dal fatto che un paese straniero accusi i suoi standard di costituire un ostacolo allo scambio senza interferenze, se un paese deve pagare lo scotto delle sanzioni commerciali per mantenere leggi che remoti tribunali chiusi e autocratici dichiarano essere di intralcio, se un’impresa sostiene che l’aggravio eventualmente causato dai meccanismi di tutela dei cittadini la obbligano a chiudere e a trasferirsi in un altro paese, vuol dire che in tutto il mondo i livelli di vita e gli standard di giustizia che li sottendono continueranno a scivolare verso il basso. È questo che accade quando i valori democratici sono subordinati agli imperativi del commercio internazionale.
In seguito all’istituzione del Wto, il processo di globalizzazione delle imprese e i suoi effetti si vanno progressivamente accentuando, accompagnati dal peggioramento o dalla stagnazione delle condizioni economiche per la maggior parte della gente comune. Negli Usa, se non tracciamo noi il collegamento tra i problemi locali e la spinta delle multinazionali alla globalizzazione politica ed economica, saranno altri a denunciare questi crescenti e inevitabili problemi attribuendone la responsabilità a fattori diversi. “È colpa degli immigrati!”, “È colpa dello stato assistenziale!”, “È colpa degli operai e dei contadini che chiedono troppo!”, “È colpa delle barriere commerciali!”. Permettere che le cause reali di questi sfaccettati problemi risultino così travisate significa accettare di distogliere l’attenzione dagli obiettivi reali, creando divisioni tra i cittadini a vantaggio delle imprese globali.
Dunque, quella che ci troviamo oggi ad affrontare è una vera corsa contro il tempo: finché esistono ancora le istituzioni e gli istinti democratici, riusciranno i cittadini, per quanto ingannati e minacciati, a invertire la tendenza alla globalizzazione? Il livello di repressione e di inganno necessario per portare avanti il programma di globalizzazione sarà difficile da mantenere in presenza di un’energica vigilanza democratica. Tuttavia, la possibilità di revocare realmente il Nafta, il Wto e la spinta alla globalizzazione avrà come condizione necessaria la rivitalizzazione della democrazia di base nel nostro e negli altri paesi.
Questo libro, che introduce l’argomento riportando le esperienze fatte dal 1995 con l’istituzione del Wto, conferma, per mezzo di puntuali verifiche condotte in una serie di regioni, che gli ammonimenti degli oppositori del Gatt e del Nafta erano realmente profetici.
Ralph N.
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